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Le osservazioni fatte dai relatori che mi hanno preceduta colgono molte delle provocazioni sottese a questo libro. Benché sia chiara la tesi ivi sostenuta, quest’opera ha lo scopo di aprire degli interrogativi e di porre nell’arena del- la discussione sul welfare – magari con una modalità un po’ radicale – alcuni temi che non sempre sono concepiti come cruciali.

Prima fra tutte, la questione antropologica: non si può pensare di riformare il welfare senza che ci si interroghi preliminarmente circa l’atteggiamento che il c.d. welfare statalista ha provocato nelle persone che fruiscono di tale sistema. Credo che la risposta sia ben documentata dalla situazione italiana: tutti siamo abituati a pensare che lo Stato debba provvedere ad ogni cosa e, quando questo non avviene, vi è un istintivo sentimento di rivolta e di sco- raggiamento. Del resto, una simile pretesa non tiene in considerazione che il sistema welfare ha in sé elementi che non può produrre autonomamente. Altrettanto importante è la questione educativa. Spesso essa viene stretta- mente correlata ad una visione eccessivamente paternalistica e, forse, alcuni capitoli non sono pienamente esplicativi di quale sia la tensione educativa presente nel libro. Tuttavia tra gli obiettivi degli autori vi è quello di far riflet- tere sulla crisi educativa che il nostro Paese sta vivendo e sulla quale è bene essere realisti. Anche questa è una sfida prodromica ad affrontare quella del welfare.

Quest’ultimo, d’altronde, è un universo: esso comprende una serie di servizi molto diversi tra loro (la sanità, l’assistenza, la previdenza, i servizi al lavoro etc..), è un mercato che produce servizi assai differenziati e con svariate modalità. Vasto è anche il quadro costituzionale e legislativo in cui si inse- risce e numerosi sono i livelli governativi impegnati nella sua realizzazione (Stato, Regioni, Province, Comuni). La regolamentazione di tale universo spesso non chiarisce a sufficienza il regime di responsabilità e la struttura di finanziamento dei diversi servizi offerti. Per tutte queste ragioni, il tenta- tivo – in parte riscontrabile anche nel libro – di trattare il welfare come una realtà unitaria inevitabilmente incontra dei limiti.

Fatta questa premessa, v’è un punto dell’intervento di Giovanni di Cosimo che intendo raccogliere: al di là della modellizzazione teorica, questo libro nasce dall’osservazione dell’esperienza e di modelli sperimentati che, solo successivamente, hanno condotto al tentativo di astrarre e generalizzare.

Se si prende in esame quanto avvenuto in Regione Lombardia negli ultimi anni, risulta difficile negare che un modello basato sul tentativo di creare concorrenza tra pubblico e privato (principalmente attraverso il meccanismo degli accreditamenti) e sulla libertà di scelta dell’utente possa potentemen- te incrementare la quantità e la qualità dei servizi resi a livello regionale. È altrettanto vero che il sistema lombardo presenta delle disfunzioni che vanno messe a punto e che non è scontato che la sua riposizione tout court in altre Regioni sia altrettanto fruttuosa. Di fatto, però, se guardiamo all’Ita- lia nel suo complesso e al sistema sanitario approntato, non possiamo non vedere che le indicazione del legislatore nazionale del 1992 che andavano nella direzione dell’accreditamento delle strutture private – e non più del mero convenzionamento – sono state applicate in Lombardia in maniera decisa, laddove altrove non sono state affatto considerate. Circa il 30% delle Regioni italiane si è anzi totalmente astenuto dal cimentarsi nel tentativo, indubbiamente faticoso, di mettere sullo stesso piano strutture pubbliche e strutture private, nonché di consentire il libero accesso degli utenti ora alle une ore alle altre, in base alla propria personale percezione di efficienza. La Lombardia, pur trovandosi ancora a metà del guado nella direzione che porta ad un sistema sanitario completamente ristrutturato, ha quantome- no accolto la sfida. Il cammino non è certo privo di insidie ma, al di là della necessità di adempiere ad una richiesta fatta a livello nazionale, la posta in gioco è rompere certi meccanismi di subordinazione del pubblico al privato (o, per altri aspetti, di subordinazione del privato al pubblico) tipici dei regi- mi convenzionali che non funzionano e in cui la corruzione la fa da padrona. Mettere in concorrenza servizi e produttori di servizi qualche segnale di innovazione l’ha dato. Si pensi alla formazione professionale. È un settore di nicchia che in Italia funziona male – ed è un dramma che funzioni male se si considera che il Sole 24 Ore da tempo riporta disperati appelli del mon- do industriale affinché si crei un sistema di formazione professionale che possa produrre forza lavoro in grado di inserirsi in determinati settore del mercato. Come intervenire dunque per migliorarlo e incrementarlo? Affidan- done esclusivamente al pubblico e facendo in modo che esso ne stabilisca il finanziamento meramente sulla base dei corsi erogati e non dei reali biso- gni? Questa modalità ha portato in passato al moltiplicarsi di corsi per figure professionali di cui il mercato non necessitava. Viceversa, sistemi più avan- zati e basati sull’accreditamento di centri di formazione professionali privati (come accade in Piemonte e in Lombardia) hanno fatto importanti passi nello sviluppo di questo settore.

Passando poi all’ambito dei servizi al lavoro, con l’eliminazione del mono- polio pubblico del collocamento richiesta dall’Unione Europea, si sono rese necessarie strade alternative. In Regione Lombardia è stato fatto l’erculeo

sforzo della costruzione del c.d. Sistema Dote. Seppur perfettibile in alcune sue realizzazioni, tale sistema ha permesso di accreditare enti – sia pubblici sia privati – che forniscono servizi al lavoro e che nelle politiche attive hanno reso buoni risultati. Attraverso la c.d. Dote Lavoro sono stati fatti investi- menti per 112 milioni di euro: un intervento importante in un momento di grave crisi. Non molte altre regioni hanno impiegato simili risorse per l’aiuto al collocamento. Il libro è stato ispirato dall’osservazione di esperienze di questo genere.

Non è stata trattata la questione dell’istruzione scolastica senza oneri per lo Stato, tema che in Italia suscita sempre accese polemiche e rischia di condurre in un ginepraio ideologico dal quale è difficile uscire. Tuttavia è opportuno fare un veloce cenno al caso della Svezia: questo Paese, all’avan- guardia da molti punti di vista, ha praticamente “voucherizzato” tutto il si- stema d’istruzione e il riscontro positivo di tale politica è stato recentemente esaltato sulle pagine dell’Economist. Purtroppo però, lo si ribadisce, il dibat- tito sull’educazione in Italia è ancora legato a superati stereotipi che vedono la scuola privata come un privilegio per le classi sociali agiate: se si osser- vasse con maggiore onestà intellettuale la realtà, ci si renderebbe conto che la libertà di scelta nell’educazione dei figli è istanza che proviene da tutte le componenti della società, inclusi i ceti meno abbienti.

Chi ha esperienza sia teorica sia pratica del fare innovazione nella pubblica amministrazione, sa bene che il diavolo sta nei dettagli. Questo è emerso molto chiaramente nell’invenzione del Sistema Doti. Di conseguenza il lavoro innovativo non finisce mai, è un cantiere sempre aperto alla ricerca della correzione del dettaglio. Quel che si sta facendo in Lombardia è un inesausto tentativo di realizzare un modello di welfare il più possibile sussidiario. Non vi sono garanzie circa l’esito; tuttavia è una verifica che va fatta sul campo, non attraverso il confronto di teorie.

Alcune postille conclusive. Nel discorso sin qui svolto si è tralasciato di affrontare la questione della gratuità delle prestazioni dello Stato sociale. Parlare in Italia di riduzione delle prestazioni gratuite è un vero tabù. Ciò ha portato all’aumento di voci di spesa, soprattutto nell’ambito dell’assisten- za, che sono drammaticamente insostenibili per lo Stato. Viceversa l’idea di riformare il sistema ISEE e di conferire benefici anche secondo la capacità di spesa delle famiglie potrebbe essere un elemento su cui ragionare. Cer- to, è più facile erogare indistintamente le risorse piuttosto che non valutare la coerenza delle dichiarazioni dei redditi di chi ne fa richiesta. Tuttavia non sempre ciò che è più facile è più sensato.

Credo sia ormai indispensabile per il nostro Paese iniziare a fare qualche sperimentazione. Il sistema, se oculatamente modificato, può funzionare

meglio. Prima però di parlare di radicali riforme è necessario che si verifichi la bontà dell’innovazione che a oggi si è già cercato di fare in alcune realtà territoriali. Viceversa non si andrà molto lontano.

Vengo, in ultimo, all’obiezione secondo cui la società civile non è sempre ci- vile e che la famiglia non è sempre il riferimento più adeguato per costruire le politiche di welfare. Si tratta di osservazioni in parte condivisibili. Tuttavia, invito a riflettere su quanto gravi il peso fiscale sulle famiglie italiane e su quali ne siano le nefaste conseguenze. È ormai indispensabile puntare ad una valorizzazione della logica del reddito familiare anche nel sistema della tassazione. Fior di esempi stranieri mostrano che il miglioramento della tas- sazione familiare crea vantaggi, quali l’aumento della natalità e dell’impiego femminile.