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3.1 Storia di un’occupazione ai margini di Roma

3.1.1 Emergenza V Municipio

La delibera numero 11 del’11 marzo 2013 (Comune di Roma, 2014), emanata dall’Assemblea Capitolina, ha modificato i confini territoriali dei Municipi di Roma Capitale; in particolare l’ex Municipio VI e l’ex Municipio VII sono stati unificati sotto il nuovo Municipio V, venendo a comporre così una macro area posta ai margini della periferia sud est della città al confine con il Grande Raccordo Anulare. La superficie in questione, rientrava all’interno del progetto del primo Piano per l’Edilizia Economica e Popolare del 1964 che interessava un totale di cinquemila centosessantotto ettari di terreno, acquistati dal Comune di Roma allo scopo di riqualificare quei settori cittadini privi di strutture urbanistiche (Rossi, 2000). Nonostante il buon proposito, il risultato definitivo non poté definirsi soddisfacente a causa dei numerosi difetti sia nella concezione che nella costruzione dei piani urbanistici, i quali non vennero pensati come un tessuto: gli edifici furono costruiti non solo distanti gli uni dagli altri, lasciando numerosi spazi inutilizzati, ma anche con strutture banali e tecnologie economiche, creando un’area priva di identità (Rossi, 2000). Lo spazio attorno alle case, vale a dire pubblico, in contrasto con lo spazio interno alle abitazioni, inerente invece alla sfera privata, è ciò che consente alla vita sociale di formarsi, come afferma anche Sandra Annunziata (2012). Il quartiere, inteso “come unità minima di convivenza” (ibidem), dove avvengono i legami sociali, è proprio “lo spazio tra le case” ed è per questo motivo che i servizi di cui esso dovrebbe essere dotato hanno acquistato una maggiore importanza, toccando cime utopiche con l’ideazione del quartiere pubblico e le leggi sugli standard.

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Oggi la realtà dei fatti è ben diversa, rispetto a queste che sembrano quasi fantasie, ed è rappresentata da ibridazioni in cui a coordinare sono le Pubbliche Amministrazioni, ma i finanziamenti per l’Edilizia Pubblica sono tutti privati.

Il V Municipio è una delle zone romane che storicamente ha ricevuto maggiore immigrazione a partire dal secondo dopoguerra, creando un substrato molto popolare con punte di ventidue mila abitanti per chilometro quadrato che hanno reso questa parte di Roma l’undicesima città italiana per densità abitativa, come conferma l’assessore di municipalità Giulia Pietroletti (personalmente intervistata in data 23 settembre 2014). Un fenomeno che aveva interessato soprattutto l’ex VII Municipio era stato quello di una nuova espansione urbanistica, la quale però, non riuscendo ad integrarsi con le infrastrutture e i servizi precedentemente esistenti, ha dato origine a quelle che l’assessore definisce come « aree diventate sacche molto marginali » che vedono nella futura apertura della nuova Metro C, la quale però non interessa tutti i quartieri del Municipio, l’unica possibilità di una diretta comunicazione con il centro.

Una macro area, quella del V Municipio, dove si concentra un alto tasso di immigrazione, tra i più alti di Roma, sia di tipo regolare che di tipo irregolare. Una convivenza non sempre facilmente accettata dai residenti dei quartieri. Questa ha creato un ventaglio di situazioni che comprendono esperienze di integrazione, come nel caso della scuola di Tor Pignattara “Carlo Pisacane” definita come un gioiello di istruzione multietnica (Santoro, 2014), e atteggiamenti razzisti, come dimostrano gli attacchi dell’11 novembre 2014 al centro d’accoglienza in via Giorgio Morandi (di cui si parlerà poi), o concetti come “rabbia dell’affamato” (ibidem), soprattutto quando gli immigrati, per la maggior parte rifiutati dal mercato del lavoro a causa della crisi economica, sono costretti a creare insediamenti o “baraccopoli” nei parchi pubblici per assenza di un casa, ai quali viene negata ogni legalità. L’emergenza abitativa è un’altra problematica del V Municipio, nella quale però, sono accomunati sia cittadini italiani che extra-comunitari. Il diritto alla casa, che gode di tutela, come appare anche nell’art. 25 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo (“Ogni individuo ha diritto ad un tenore di vita, sufficiente a garantire la salute e il benessere proprio e della sua famiglia, con particolare riguardo all’alimentazione, al

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vestiario, all’abitazione, alle cure mediche e ai servizi sociali necessari; ed ha diritto alla sicurezza in caso di disoccupazione, malattia, invalidità, vedovanza, vecchiaia e in ogni altro caso di perdita dei mezzi di sussistenza per circostanze indipendenti dalla sua volontà”), dovrebbe, essere garantito dagli Stati i quali inoltre avrebbero l’obbligo di incrementare il numero di cittadini con accesso ad un alloggio, ma come spesso accade, la fattispecie racconta altre verità. In particolare a Roma nel 1996 il Coordinamento Cittadino di lotta per la Casa, uno dei primi movimenti autorganizzati romano sul diritto alla casa, lancia la prima emergenza abitativa che porterà nel 1999 alla ratifica del “Primo Protocollo sull’emergenza abitativa” con un impegno da parte del Comune di Roma a spendere centosettanta miliardi di lire per l’acquisto di nuove case popolari (Coordinamento Cittadino di lotta per la Casa, 2014). Ad oggi, secondo il sito web del Comune di Roma, gli alloggi di proprietà comunale ad uso di case popolari sono 42.455, di cui 5148 solo nel V Municipio (Comune di Roma, 2014); tuttavia questi numeri risultano inadeguati rispetto alla domanda che cresce di anno in anno e rispetto alla media Europea, presentando uno stock molto esiguo; come dice anche l’assessore Pietroletti ciò che manca è proprio un «piano serio di edilizia popolare», che ha provocato una situazione che oggi è quasi fuori controllo. A Roma molto diffuso, come nel resto d’Europa, è l’housing sociale, con il quale è da intendere una via di mezzo tra una casa popolare, assegnata grazie alla graduatori,a ed una casa a libero mercato (Erbani, 2013). Mentre però in Europa l’housing sociale presenta un’opportunità per dare risposta ad una classe media, che non avrebbe quindi diritto alle case popolari, rendendola dinamica, recuperando i rapporti di vicinato attraverso il cohousing, e diventando occasione di rigenerazione di quartieri, in Italia il numero di questi alloggi è esiguo e dipende dagli accordi tra Comune e costruttore (1 su 10 circa); inoltre, non esistendo alcuna legge, il proprietario può decidere il prezzo al metro quadro (ibidem).

Gli sfratti emessi, secondo i dati di SUNIA, il Sindacato unitario Nazionale Inquilini Assegnatari, relativi agli ultimi cinque anni, fino al 2013, sono stati 332.169 di cui 288.934 per morosità e ne sono stati eseguiti 145.208 in tutta Italia (SUNIA, 2014), mentre, solo a Roma, nel 2012 ne sono stati emessi ben 7743 (De Cesaris, 2013). Da questa situazione, dipendente per la maggior parte dei casi dal rincaro degli affitti, che nell’ultimo decennio

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è stato del 130% per i contratti rinnovati (Cgil, 2013), i soggetti, sempre più fruitori involontari della crisi economica, sfrattati per morosità incolpevole poiché non riuscivano a pagare il canone d’affitto, hanno iniziato ad autorganizzarsi e le occupazioni degli stabili a Roma negli ultimi anni sono cresciute in tutta la città, non solo nell’estrema periferia. Stabili abbandonati o non utilizzati da anni di proprietà comunale, pubblici, ma soprattutto privati che, nella sola capitale corrispondono al 7,5 % del totale (Zunnino, 2013), si sono trasformati in abitazioni per molte centinaia di persone; in particolare, queste occupazioni, spesso non hanno scopo solo abitativo, bensì vengono utilizzate anche per creare quei servizi pubblici che nelle metropoli hanno avuto una contrazione (biblioteche, ludoteche, palestre, ecc…) e che privatamente hanno dei costi troppo alti per poterne usufruire (ibidem).

Tor Sapienza, uno dei quartieri che formano il V Municipio, il cui primo insediamento risale agli anni Venti, ha subìto un grande cambiamento dopo i progetti e le costruzioni nella prima metà degli anni Settanta realizzate dal pubblico Istituto Autonomo Case Popolari. Nasce come quartiere operaio, come ricorda l’antropologo Giorgio de Finis (personalmente intervistato in data 27 settembre 2014), poiché inizialmente questa era una zona industriale molto attiva, prima che la Cassa del Mezzogiorno spostasse l’asse nord-sud di venti chilometri favorendo così lo spostamento di tutte le industrie che speravano in finanziamenti pubblici. Oggi, come afferma anche l’assessore Pietroletti, è un quartiere spaccato a metà dove, da una parte, troviamo l’enorme comprensorio di case popolari dell’ATER (Azienda Territoriale per l’Edilizia Romana), dall’altra, vi è una residenza appartenente alla classe media. E’ un quartiere dove la vera difficoltà sta nel trovare dei luoghi comuni, dei luoghi di aggregazione, nonostante il Comune fornisca dei servizi, come centri anziani e centri culturali, che però sono scarsamente frequentati dai residenti “come se [questi servizi] non fossero stati completamente compresi ed apprezzati” (Pietroletti). Ciononostante vi sono ancora dei lavori da portare a termine per creare un senso di comunità nel quartiere, come i lavori sulla stazione, la quale per il momento sembra un non-luogo.

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A Tor Sapienza, zona popolare e popolosa, situata tra la fine di una delle principali arterie romane, Via Prenestina, e la Via Collatina, sorge uno stabilimento, una volta salumificio di proprietà della società Fiorucci, abbandonato dal 1978, in seguito alla delocalizzazione di numerose fabbriche, site in quell’area, verso l’Agro Pontino, nello specifico Pomezia. Alla fine degli anni Novanta, la società CA. SA srl di proprietà del gruppo Salini, colosso internazionale di ingegneria civile ed industriale, decise di investire nell’acquisto di questa fabbrica abbandonata da più di vent’anni poiché la zona in questione rientrava nel progetto di pianificazione urbana denominato S.D.O (Sistema Direzionale Orientale), dell’allora sindaco Rutelli. Tra gli obiettivi di quest’ultimo, vi era quello del potenziamento delle linee ferroviarie, metropolitane e stradali sufficientemente da decentralizzare sedi dei ministeri, numerosi uffici della Pubblica Amministrazione nonché alcune Facoltà universitarie (Del Re, 2014). Il progetto, nella realtà dei fatti, si può affermare che non sia mai partito come afferma anche Pietroletti; al contrario, i numerosi progetti incompiuti, che si sono susseguiti in quest’area, hanno creato un vuoto istituzionale in cui la cittadinanza si è poi autorganizzata, sviluppando criticità a livello sociale ed urbanistico. Ciononostante il gruppo proprietario dello stabile, Salini, ha avuto la possibilità di far fruttare il proprio investimento poiché, grazie al disegno di legge regionale della giunta Polverini, Legge Regionale n. 21 Agosto 2009, sono stati concessi cambi di destinazioni d’uso e ampliamenti di cubatura (Regione Lazio, 2014). In particolare proprio nell’ articolo 3 ter si legge che sono previsti cambi di destinazione d’uso a residenziale, attraverso interventi di ristrutturazione edilizia, per quegli edifici aventi destinazione non residenziale abbandonati o mai utilizzati alla data del 30 settembre 2010. Inoltre è prevista la locazione a canone agevolato fino al 35 % della superficie, se questa è entro i quindicimila metri quadri, al fine di creare alloggi sociali, per studenti o per componenti del comparto sicurezza. Nel marzo 2014 il governo Renzi ha emanato il decreto legge Piano Casa che presenta, oltre a norme inerenti la creazione di un fondo per aiutare nelle morosità incolpevoli e la lotta contro le occupazioni a scopo abitativo (art.5), un articolo, il numero 10, che solleva le stesse perplessità della legge regionale. Quest’ultimo infatti prevede che sia possibile convertire alloggi privati in alloggi “sociali” in locazione con l’intervento statale. Il rischio è che questo principio non venga applicato solo alle

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centinaia di palazzine vuote e abbandonate già residenziali, bensì anche alle grandi lottizzazioni ancora da costruire, autorizzando così cantieri e accentuando una crisi di sovrapproduzione (Sappino, 2014).

Nel 2009, i Blocchi Precari Metropolitani, un movimento politico operante a Roma per rispondere al problema dell’emergenze abitativa, decide di agire occupando l’ex salumificio Fiorucci anche grazie all’aiuto di Popica Onlus, associazione che si occupa della scolarizzazione dei bambini rom.

“Ora è utile secondo noi comprendere il rapporto esistente tra l’esercizio del diritto

all’abitare e la sovranità sociale sul suolo. Dal momento che il possesso di un’area è intimamente connesso con i processi edificatori, perché la rendita considera l’edificare un diritto insito nella proprietà del suolo, noi dobbiamo invertire questa consolidata opzione nazionale” (Blocchi Precari Metropolitani, 2010)

scrivono in un comunicato del gennaio del 2010; nasce così Metropoliz, la Città Meticcia:

“occupando Metropoliz, abitandola, trasformandola e valorizzandola socialmente si

contrasta materialmente la vocazione speculativa rivendicata attraverso il diritto di proprietà” (ibidem).

Occupare per queste persone significa porre fine alla speculazione dei “signori del mattone” (ibidem), salvaguardando i diritti di chi una casa non l’ha più. Importante è il senso d’ingiustizia sociale, dove quello che emerge non sono i diritti ma i favoritismi politici e il potere economico. I movimenti sul territorio si oppongono a questa prassi che vede progetti di diverso tipo fatti senza tener conto delle specificità ambientali o sociali di una zona. Questo comporta ovviamente un’unione tra questi movimenti e i migranti per tematiche come casa, sicurezza sul lavoro, l’apartheid dei campi rom (Careri e Goni Mazzitelli, 2012).

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