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Enea di fronte a Didone Aspetti linguistici della non comunicazione (Aen IV, vv 304-387).

In una successione di quadri, di brevi episodi abilmente accennati in un ritmo rotto e tortuoso, che dà mirabilmente l’impressione della follia di cui Didone è vittima, il poeta studia, con la consueta finezza, il precipitare della passione verso il suo fatale epilogo. Didone doveva cadere senza, però, che la caduta ne offuscasse la dignità morale ed Enea doveva sì abbandonarsi all’amore, ma non legarsi a lei in modo che la partenza potesse sembrare un tradimento.

Di frodo e nell’oscurità di una grotta avviene l’unione dei due amanti. E con questo svolgimento, che sa di tranello e di onta, il fato grava su Didone avvelenandole anche i pochi momenti di gioia che le sono concessi.

E’ chiaro che l’unione degli amanti è una svolta fondamentale nell’azione. Eppure proprio in questa svolta Virgilio non si preoccupa di entrare nell’animo dei personaggi né di Enea (il che non meraviglia, perché i sentimenti di Enea sono rimasti finora al di fuori della scena), né di Didone.

Questo coniugium è l’inizio dei mali, il vero inizio della sventura. Il tormento di Didone cessa di essere conflitto interiore tra bene e male e diventa tormento della passione inappagata.

Lo chiama coniugium e crede, con quel nome, di velar la sua colpa152.

L’episodio si complica di elementi diversi e persino contrastanti, ma tutti fusi in quel colore di mistero che ne costituisce il valore essenziale. Giunone vuole che le nozze siano celebrate in quel fantasioso scenario che potenzia gli elementi del rito e li riconduce alle origini prime. Le ninfe che assistono sanno che quel loro lungo canto sui monti è a un tempo partecipazione al rito e annunzio del destino che incombe sulla sposa novella; infatti, la presenza dei fulmini e degli ululati delle Ninfe conferiscono alla scena un significato tragico. Didone, fidando nella sua dea, accoglie per buono il connubio apparsole come il completo accoglimento delle sue preghiere.

La tragedia dell’infelice regina ha inizio con la Fama che, dopo aver diffuso tra le genti di Libia la notizia dell’arrivo di Enea, nato da schiatta troiana, a cui la bella Didone si degnava

152 Virgilio, spiega La Penna, “non ci fa capire esattamente perché quest’unione non è un vero coniugium, un legittimo matrimonio: forse egli vuol far intendere che quest’unione avvenuta, per così dire, nel grembo grandioso della natura manca della necessaria sanzione che le danno la civiltà e le leggi umane”. Cfr. La Penna-Grassi (1991), pag. 394.

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di darsi in sposa, volge la sua corsa verso il re Iarba, lo accende con le sue parole e gli accumula l’ira nel petto.

Iarba, già precedentemente rifiutato da Didone, è pieno d’ira; si rivolge pertanto, con una preghiera, a Giove.

Il pater omnipotens volgendo lo sguardo ai due innamorati subito ordina a Mercurio di recarsi da Enea e ammonirlo di lasciare Cartagine e continuare a cercare l’Italia. Le parole di Mercurio colpiscono l’eroe, dimentico per un momento della sua missione. Come deve essere irresistibile la passione se un eroe come Enea riesce a dimenticare, sia pure per breve tempo, per una donna, la missione assegnatagli dagli dei.

Quando Mercurio comunica ad Enea l’ordine di Giove, l’eroe ardet abire fuga dulcisque

relinquere terras che è, in un verso, la sua colpa e la sua giustificazione.

Arnaldi153 sostiene che Enea abbia deciso subito di partire perché la dolcezza fascinatrice della terra che l’aveva accolto e della sua regina, ora, gli facevano paura.

L’eroe è richiamato al suo dovere, ma il pensiero di Didone lo affligge: non sa come spiegare la partenza alla regina che, nel frattempo, ha già compreso l’inganno.

L’intervento del dio, spiega Funaioli154, lungi dall’essere un macchinario poetico, segna il

traboccare dell’anima. C’è, in Enea, un principio superiore che tronca ogni allettamento, se necessario, inflessibilmente. Egli è l’uomo che tiene in custodia le sorti di un popolo e ad altro non aderisce ormai, dopo il pronto risveglio, che alla voce del dio: naviget! Fugge dove il nume e l’obbligo impone, deve dire addio al paese che pure gli ha dato una dolcezza, riprendere il faticoso peregrinare verso altre lontananze, non senza un umano rammarico. Il silenzio di Enea (obmutuit), conseguente all’ammonimento di Mercurio, rappresenta il canonico silenzio del mortale di fronte al dio. Come spiega Austin, il verbo sottolinea il fallito tentativo di Enea di parlare, di replicare. L’eroe è impossibilitato a parlare poiché la voce si è spezzata a causa del terrore che ha provato alla vista di Mercurio.

L’immagine della voce spezzata e dei capelli drizzati rende viva l’immagine del terrore

sacro; la clausola comae et vox faucibus haesit appare anche in altri due versi identici fra

loro: 2.774 (apparizione di Creusa ad Enea): obstipui, steteruntque comae et vox faucibus

haesit; e 3.48 (episodio di Polidoro): obstipui, steteruntque comae et vox faucibus haesit.

153Arnaldi (1932), pag. 88.

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Il verso ricorre identico anche in 12.868 nella descrizione dell’orrore che pervade Turno alla vista della Dira inviatagli da Giove come nunzia della morte: arrectaeque horrore comae et

vox faucibus haesit.

La voce spezzata e la chioma drizzata, dunque, caratterizzano la tipica reazione di spavento che, nel nostro caso, ha paralizzato Enea di fronte all’ammonimento del dio.

Ciò che è importante notare è che Enea, terrorizzato e richiamato al suo dovere da Mercurio, subito ardet abire fuga. Il v. 281 assume particolare importanza perché è il simbolo del doppio statuto letterario dell’eroe. L’Enea che ardet abire fuga è l’Enea nelle mani del Fato, l’uomo che deve e vuole portare a termine la missione assegnatagli dagli dei. L’impressione violenta fatta su Enea dall’apparizione di Mercurio determina, dunque, naturalmente, l’immediata prevalenza del desiderio di obbedire. L’Enea strumento nelle mani del Fato si scontra, però, inevitabilmente, con l’Enea umano che si è abbandonato alle gioie d’amore. Dunque, nel momento in cui il dio comanda e infonde nell’animo dell’eroe il desiderio ardente di fuggire da Cartagine emerge quel lato umano di Enea che lo porta a volgere il suo pensiero all’amata Didone e a tal proposito il poeta utilizza l’espressione dulcis terras: con tale espressione Enea non sta pensando egoisticamente alla terra che lo ospitato e rifocillato invece che a Didone, come sostiene Certault. È evidente che in questa espressione vi è l’umanissimo rimpianto di Enea per la donna e la felicità che egli deve abbandonare. L’animo di Enea, perciò, non si acconcia all’ordine di Giove con meccanica immediatezza, anche se l’eroe non pensa neanche per un momento a disobbedire.

Spiega Conte155: “ La “dolcezza” della terra cartaginese appartiene solo al rimpianto dell’eroe, costretto ora a staccarsi dalla serenità e dalle gioie di quella terra divenutagli cara. Il registro dell’”io” affiora dal registro epico dell’”egli”: quasi che la soggettività del personaggio sia riluttante a lasciarsi ridurre del tutto al piano impersonale della narrazione”. Dunque, l’Enea strumento nelle mani del Fato desidera ardentemente partire mentre l’Enea personaggio, che vive nel cuore del mondo virgiliano e che si è abbandonato all’amore, ripensa alla felicità che lascia dietro di sé. Il poeta mette in luce, in questo verso, quella contraddittorietà insita nel personaggio di Enea che riscontreremo anche nell’incontro con Didone. La risposta gestuale di Enea (immota lumina), contraddice la risposta verbale. Il gesto è proprio dell’Enea che ama e soffre nel dover abbandonare Didone, le parole, invece, sono proprie dell’Enea strumento nelle mani del Fato.

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Il verbo ardeo indica la smania, di Enea, di partire da Cartagine dopo essere stato richiamato al senso del dovere da Mercurio. Il desiderio di partire è sottolineato dalla celerità espressiva ottenuta per allitterazione: ardet abire fuga.

Ne segue una scena terribile, nella quale Enea, anch’egli in grave affanno e che si controlla a stento, non può far altro che riconoscere il forte debito che ha verso di lei e ricordarle che le sue azioni non dipendono da lui: egli è spinto a recarsi in Italia dagli ordini degli dei e dalla responsabilità nei confronti del figlio; la scongiura di non rendere ancor più doloroso il distacco. Del suo affetto per lei e della segretezza dei preparativi non ha nulla da dire. Didone gli risponde con uno scoppio d’ira violenta e lo lascia stordito e sgomento prima che possa replicare.