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Choerilus fr. °24 Bernabé (fragmentum dubium) p. 203 (om. West) = 905 Ll.-J., P.5 ἡνίκα δει̣σ̣...τ.[] ..κομενος πρὸσ[] πά̣ν̣τα δ...ξ..[] μητέρα γῆν̣ ἀ̣π̣ε̣.[] νάμασι νύ̣κτα ῥε̣[] (5) καὶ τοτε κυματ[] παρθένος οὐρανί̣η̣[] κώματι̣ π̣αντο .ο̣[]

“quando...tutte le cose … madre ghe … sorgenti … notte … e allora le onde... vergine celeste...” La terminologia del presente frammento (che si presenta in modo molto lacunoso) sembra alludere ad un racconto cosmo-teogonico, un dato che non sembra avere alcun collegamento con gli altri frammenti e notizie su Cherilo a noi pervenuti; il frammento è assente dalle edizioni di Kinkel, Jacoby e Colace. Il suo testo è riportato in Lloyd-Jones & Parsons (adesp. 905), leggibile nella seconda colonna di un papiro che, nella prima colonna, presenta un testo frammentario che sembra a tutti gli effetti provenire dai Persika di Choerilus; ma, come si diceva, l'argomento è del tutto diverso, e gli stessi editori hanno dubitato della paternità, ipotizzando al limite che si tratti di una diversa opera di Choerilus6.

Attestazioni di età arcaica di Γῆ come μήτηρ sono in Esiodo (Op. 563: γῆ πάντων μήτηρ ) e Pindaro (Ol. 7, 38: Γαῖα μάτηρ)

Choerilus fr. 26 Bernabé (fragmentum falsum) p. 208 (om. West) = Anon. Epit. Rhet. 3, 650 Walz

Un manuale di retorica di autore anonimo, nel parlare di λέξεις τροπικαί, cita ad 1 Come nel testo di Apollonio Rodio sopra citato, e Panyassis fr. 11 Bernabé p. 177; Hygin. Fab. 30.

2 Paus. 5, 18, 4; Apollod. 2, 5. In Verg., Aen. 4, 484 il custode dei pomi è addormentato da una maga; è immortale secondo Apollod. 2, 113.

3 Huxley 1969 p. 101; questo dato, che vede Eracle molto lontano dalla Grecia continentale, rifletterebbe l'esplorazione rodia del mediterraneo occidentale.

4 Cfr. apparato critico Bernabé ad loc. (Jacoby FGrHist 16 F 8); su questo personaggio cfr. Fornaro “Peisander” n° 9.

5 Lloyd-Jones H., Parsons P., Supplementum Hellenisticum, Berolini et Novi Eboraci 1983, pp. 146-153. 6 Lloyd-Jones, Parsons 1983, p. 410 ad 905: “utrum cum his cohaereat, incertum: protinus subsequitur, sed

materies diversa,... fort. alterum carmen”. Gli editori ipotizzano al limite una possibile connessione tra l'espressione παρθένος οὐρανί̣η̣[] del nostro frammento e i vv. 8-10 della colonna I del papiro, dove si legge [παρθέ]νον ἁγνήν / [ ]ν̣ εὐχάς / [ ]Λ̣ητοῦς, con possibile allusione, in entrambi i casi, ad Artemide.

esempio Cherilo, che chiamò le pietre ( τοὺς λίθους) “ossa della terra” ( γῆς ὀστᾶ) e i fiumi (τοὺς ποταμοὺς) “vene della terra” ( γῆς φλέβας)

Cherilo di Samo è il più antico autore a noi noto di poesia epica a carattere storico; si colloca nel sec. V a. C. Sappiamo di un'opera il cui titolo era probabilmente Περσικά, che raccontava la seconda Guerra Persiana, e dalle testimonianze che ci sono pervenute sembra di poter dedurre che la narrazione includesse in qualche modo anche la prima Guerra Persiana ed altri elementi che riguardavano i popoli “barbari”1.

Il frammento qui riportato sotto il nome di Choerilus con il n° 26 era già presente nell'edizione Kinkel, sempre attribuito al poeta storico di Samo, ma suddiviso in due frammenti (frr. 11 e 12 Kinkel); dunque Bernabé lo riporta come frammento di Choerilus sulla scorta di Kinkel, ma allo stesso tempo ne contesta l'attribuzione a Choerilus di Samo: gli sembra infatti più pertinente l'attribuzione, sostenuta da Nauck e Snell, a Choerilus ateniese, autore tragico collocabile nel sec. VI a. C.2. Nell'edizione Radici Colace3 invece, questo stesso frammento è attribuito a Cherilo di Samo.

In realtà le notizie contenute nelle fonti antiche e riguardanti i due autori, non sempre sono attribuibili con sicurezza al Cherilo di Samo o di Atene, anche per l'ambiguità e l'incertezza con la quale sono presentate; a ciò si aggiunga l'esistenza di un altro Cherilo, di Iaso, un poeta epico che viaggiò con Alessandro il Grande e compose poesia encomiastica dietro remunerazione4.

A prescindere dall'attribuzione del frammento, aspetto che non è oggetto del presente studio, e concentrandosi invece sul contenuto, si può notare che l'immagine antropomorfica della terra, in base alla quale le rocce sono le sue ossa, e i corsi d'acqua sono le sue vene (una terra dunque “umanizzata” nell'aspetto fisico), tale immagine, dicevo, non è isolata nella letteratura antica5: si ritrova ad esempio nello scritto del Corpus Hippocraticum Περὶ Ἑβδομάδων = De Hebdomadibus6, dove si afferma che in natura, ciò che è piccolo ha una corripsondenza in ciò che è grande; nel dettaglio, la forma dei fiumi che scorrono sulla terra è simile alla forma delle vene che portano il sangue nel corpo umano.

Nelle Metamorfosi di Ovidio (1, 381-383; 393-394), dopo il diluvio, Deucalione e Pirra sono disperati; si rivolgono quindi a Themis e la implorano di fornire un rimedio contro 1 Bernabé PEG 1, pp. 191-208; Fantuzzi “Choerilus” [1]; Huxley 1969b; Radici Colace 1979.

2 Ved. apparato critico di Bernabé ad loc., p. 208; su Cherilo tragediografo di Atene, ved. Fantuzzi “Choerilus” [3]; nell'edizione Snell, si tratta dei framm. 2 e 3: (2.) <λίθοισι> γῆς ὀστοῖσιν ἐγχριμφθεὶς ποδα = Eust. ad Il. vol. 1, p. 481 van der Valk . (3.) γῆς φλέβες = Tzetzes Rhet. Vol. 3 p. 650. Huxley 1969b pp. 24-25 appoggia l'attribuzione a Cherilo ateniese.

3 Radici Colace1979, pp. 89-90, con ulteriore bibliografia e argomentazioni.

4 Su Cherilo di Iaso, ved. Pressler “Choerilus” [2]. Un esempio della confusione fra i tre poeti: in Topica 157a 14 sgg., Aristotele esprime un giudizio negativo su Cherilo (senza spiegare di quale Cherilo si tratti), il quale non scrive con sufficiente chiarezza, a differenza di Omero; ebbene, nell'edizione Loeb, il curatore (Forster) ritiene che l'osservazione riguardi Cherilo di Iaso (Tredennick & Forster 1966, p. 686 nota a); invece l'articolo della Brill's New Pauly attribuisce l'osservazione a Cherilo di Samo (Fantuzzi “Choerilus” [1]); la Suda ritiene che Choerilus di Samo e di Iaso siano la stessa persona (Suda s. v. Χοιρίλος = Choerilus T 1 Bernabé); Bernabé segnala anche alcuni testimonia come dubia (pp. 189-190; si tratta di ben sei testimonia); altre ambiguità si deducono dalla lettura della bibliografia che sto indicando in questa sezione, nelle note. 5 Un'analisi del frammento di Choerilus in questo senso è in Radici Colace 1979 pp. 89-90 e in Waern 1951 p.

96 sgg.

6 Il testo originale greco è andato perduto, probabilmente nell'incendio dell'Escorial (Littré Hippokrates vol. 8 p. 616 e nota); ne resta solo una traduzione latina di epoca tarda. È stato ipotizzato che l'operetta del Corpus Hippocraticum sia databile ad un'epoca anteriore alla conquista della Ionia da parte dei Persiani e alla distruzione di Mileto nel 494 a. C., e che Choerilus di Samo abbia preso da qui l'immagine (Radici Colace 1979 p. 90).

la rovina della specie umana; la dea così risponde: “Discedite templo et velate caput cinctasque resolvite vestes, ossaque post tergum magnae iactate parentis” (“Andando via dal tempio velatevi il capo e slacciatevi le vesti e gettatevi dietro le spalle le ossa della grande madre”); Pirra, ingannata dall'immagine metaforica, inizialmente si rifiuta; ma Deucalione ci riflette e giunge a questa conclusione: “Magna parens terra est: lapides in corpore terrae / ossa reor dici iacere hos post terga iubemur” (“La grande madre è la terra; per ossa, penso, vanno intese le pietre, che stanni nel corpo della terra: sono queste, che noi dobbiamo gettarci dietro le spalle”)1.

Un'immagine molto simile a quella descritta nel frammento è anche nel tragico Chaeremon, che si colloca nella metà del sec. IV a. C.2, e che secondo Eubulo, riportato a sua volta da Ateneo, l'acqua è il corpo del fiume.

Eustazio3, in un passo che sembra alludere a citazioni da altri autori, usa i termini “intestino” o “utero” per indicare le cavità e le valli della terra; “petto”, “schiena”, “dorso” per indicare una superficie arata; “fianchi” per indicare le coste; “ombelico” per indicare la pietra sacra di Delfi; “vene” per indicare i canali sotterranei da cui poi sgorga acqua; il vino è stato chiamato “sangue” del grappolo; le pietre sono “ossa” della terra; Sofocle attribuisce alla terra l'aggettivazione “dall'ampio petto”4, e prima di lui così anche Esiodo (Th. 117: Γαῖ᾽ εὐρύστερνος).

4.c. Ciclo Epico e poesia epica di età arcaica. Riepilogo.

Nel Ciclo Epico, Ghe è citata insieme ad Ouranos in diversi frammenti in cui la coppia divina ha il ruolo di artefice della generazione successiva: Cyclus Epicus T13 Bernabé p. 3; ivi T14 p. 4; ivi T15 p. 4; Theogonia argumentum Bernabé p. 9.

Nella Titanomachia si dice che, insieme a Pontos, genera Egeone (Eumelus vel Arctinus, fr. 3 Bernabé p. 12).

Nell'Alcmaeonis, che si colloca nel sec. VI a. C., è invocata come ποτνια insieme a Zagreo, “supremo tra gli dèi” (Alcmaeonis fr. 3 Bernabé p. 30; l'invocazione è forse pronunciata dal protagonista, Alcmeone, nel santuario di Delfi; cfr. fr. 3d West, riportato nel presente studio).

Secondo Asius, dalla “terra nera” nasce, “sui monti dalle folte chiome”, Pelasgo, dal quale poi deriveranno stirpi di mortali (fr. 8 Bernabé p. 129).

Tra gli autori di poesia epica di età arcaica, in Pisandro Ghe è madre del drago- serpente Ladone, che custodiva i pomi delle Esperidi (Pisander fr. °15 Bernabé, fragmentum dubium, p. 170).

In un frammento dubbio di Cherilo di Samo, in un contesto estremamente lacunoso, Ghe è definita μήτηρ (Choerilus fr. °24 Bernabé, fragmentum dubium, p. 203). In un altro frammento di Cherilo di dubbia attribuzione, la terra è descritta in modo antropomorfico: le pietre sono le sue ossa, e i fiumi le sue vene (Choerilus fr. °26 Bernabé, fragmentum falsum p. 1 Traduzione di Bernardini Marzolla 1994. Analogamente quando Eco, respinta da Narciso, deperisce e avvizzisce, restano di lei solo la voce (l'eco) e le ossa, che prendono l'aspetto di sassi (Ov., Met. 3, 399); quando Perseo mostra ad Atlante il volto di Medusa, Atlante diventa un monte: barba e capelli diventano boschi, spalle e mani diventano creste montuose, il capo diventa la vetta di un monte, e le ossa diventano sasso (Ov. Met. 4, 657-660).

2 Chaeremon fr. 17 Snell (p. 611 N.) = Athen. 2, 18 Kaibel. Ved. Pressler “Chaeremon” [1].

3 Eust., ad Il. Vol. 1, p. 481 van der Valk; L'indicazione contenuta in Nauck e in Bernabé (Eust. Il. p. 309, 43) è errata.

208).

Rhea è citata nella consueta linea genealogica che ne fa la figlia di Gaia ed Ouranos e la madre degli dèi Olimpii, che concepisce insieme a Kronos (Theogonia argumentum Bernabé p. 9).

Tra gli autori di poesia epica di età arcaica, si attribuisce ad Eumelo un dato narrativo di grande interesse per il presente studio: in Eumelus, Europia fr. 11 Bernabé p. 112, in tradizione indiretta, si narra che Rhea iniziò Dioniso a riti misterici sui monti Cibelii, in Frigia. Nel commento al passo, tramite il confronto con fonti successive (Eumelo si colloca, se si segue la datazione più alta, al sec. VIII a. C.), ho cercato indizi che avvalorassero l'antichità della notizia; questi indizi esistono, e dunque la connessione tra Rhea e Cybele, benché qui sia riportato soltanto l'oronimo da cui poi Cybele prese il nome, e non il nome esatto della dea, potrebbe essere effettivamente antica.

Demetra è citata nella consueta linea genealogica che ne fa la figlia di Kronos e Rhea (Theogonia, Argumentum Bernabé p. 9), e in passaggi qui non riportati in cui si narrava la vicenda che la coinvolgeva insieme a Persefone.

In Eumelus, Korinthiaka fr. 5 (III) Bernabé p. 110, le vengono rivolti sacrifici affinché ponga fine ad una carestia.

Diversi frammenti chiamano in causa gruppi di figure semi-divine legate al culto della Μεγάλη Μήτηρ: Dattili Idei (Phoronis fr. 2); Cureti (Phoronis fr. 3 e Danais fr. 3); ciò potrebbe indicare che la Μήτηρ era più presente di quanto oggi possiamo leggere.

Alla Danais appartiene l'attestazione di un frammento dove si afferma che “i Cureti sono servitori della Madre degli dèi” (Danais fr. 3 Bernabé p. 122: … μητρὸς τῶν θ[εῶν θ]εράπον[τ]ες [Κου]ρῆτες); ricordo che la datazione proposta per l'opera è, non senza incertezze, il sec. VI a. C.).

Ho inserito in questa sezione un'occorrenza che propriamente non contiene il termine “madre”, ma un'attestazione del tutto assimilabile; si tratta di Phoronis fr. 2 Bernabé p. 1181; nel passo (il poema viene datato tra il sec. VII e il sec. VI a. C.), si cita la montana Adrastea (ὀρείης Αδρηστείης) insieme ai suoi servitori Idei, uomini frigi che abitano case montuose e che per primi, avendo trovato il ferro sui monti, grazie ad Efesto lo lavorano con il fuoco; la fonte da cui è tratto il frammento (Schol. Ap. R. 1, 1126-1131b, 'Δάκτυλοι Ἰδαῖοι') cita altri autori, di epoca successiva alla composizione della Phoronis, che nel commentare le figure dei Dattili Idei, chiamano in causa Rhea (con una certa confusione, dunque tra l'Ida cretese e l'Ida della Troade), e la Madre degli dèi. Il frammento attesta la conoscenza in Grecia di una dea associata in modo specifico ad un ambiente montano, e all'area frigia. Che si tratti di una Μήτηρ può essere dedotto dall'affermazione di Strabone(10, 469), che attribuisce alla figura divina della Madre degli dèi il nome di Rhea e vari oronimi asiatici, tra cui Agdistis, dea Frigia, Grande Dea, Idea, Dindymene, Sipilene, Pessinuntia e Cybele e Cybebe Strabone: la Μήτηρ è ὀρεία.

Per quanto riguarda Cybele, incontriamo finalmente un'attestazione che la riguarda; non si tratta esattamente del suo nome, ma dell'oronimo di riferimento: nel fr. 11 Bernabé p. 112 dell'Europia di Eumelo, uno scoliasta all'Iliade riferisce che Eumelo raccontò per primo nell'Europia di come Dioniso, figlio di Zeus e Semele, “avendo ricevuto da Rhea sui monti Cybelii, in Frigia, i riti di purificazione, e avendo compiuto i riti di iniziazione, e avendo 1 Cfr. Phoronis fr. 3 Bernabé, riportato e commentato nel presente studio, in relazione ai Cureti.

ricevuto tutto l'apparato rituale dalla dea, andava per tutta la terra, e guidava tutti gli uomini danzando e ottenendo onori” (...ἐν Κυβέλοις τῆς Φρυγίας ὑπὸ τῆς Ῥέας τυχὼν καθαρμῶν, καὶ διαθεὶς τὰς τελετὰς, καὶ λαβὼν πᾶσαν παρὰ τῆς θεᾶς τὴν διασκευήν, ἀνὰ πᾶσαν ἐφέρετο τὴν γῆν, χορεύων καὶ τιμῶν τυγχάνων προηγεῖτο πάντων ἀνθρώπων). Se è vero che Eumelo è da collocare nel sec. VIII a. C., si tratterebbe dell'attestazione letteraria più antica di una forma quanto meno embrionale di conoscenza della dea Cybele, per di più associata ad un oronimo, informazione coerente con quanto affermato da Strabone nel passo sopra citato1.