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L’EREDITÀ DI VIKTOR VON WEISZÄCKER

Non è facile dire quale sia l’eredità che ci ha lasciato Viktor von Weizsäcker, perché essa è stata senza dubbio abbondante e preziosa ma anche differenziata in vari campi. Egli è stato un maestro multidisciplinare: da filosofo a ricercatore medico- fisiologo e anatomo-patologo e inoltre neurologo, psicologo, psicanalista e clinico medico. In sintesi è stato un medico-filosofo a tutto tondo, che ha impiegato la sua esistenza dedicandosi completamente alle sue molteplici professioni con devozione e desiderio, mai appagato, di far comprendere quello che era il suo scopo principale: cercare di cambiare l’impostazione teorica e pratica della medicina e il concetto si esprime in due parole “portare il soggetto nella medicina”. Alla fine della sua vita era consapevole che il suo progetto non era stato pienamente accolto, però qualche piccolo seme, dopo tante fatiche, aveva speranza germogliasse.

Weizsäcker era un sognatore, un utopista? In parte sì, ma la sua utopia è comprensibile se lo vediamo come uomo del suo tempo. Egli proveniva da una famiglia in cui gli ideali non mancavano. Infatti molti suoi parenti sono stati impegnati socialmente e politicamente, basti pensare che il padre Karl Hugo fu primo ministro del Würthemberg.

Il padre era anche una persona pratica che si preoccupava di mantenere un tenore di vita consono all’alta borghesia a cui apparteneva. Racconta infatti Weizsäcker che fu il padre a indirizzarlo verso la medicina, perché assicurava una sussistenza

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decorosa, sebbene egli si sentisse più portato verso la filosofia. Comunque egli aveva anche apprezzato molto la ricerca scientifica e una delle sue doti è stata quella di essere riuscito a sfruttare i suoi talenti con responsabilità e entusiasmo. Si sa che lavorare con piacere può ripagare di tante delusioni.

Weizsäcker ha insegnato cosa significa l’impegno e la costanza nel promuovere un progetto in cui credeva, quello di cambiare lo statuto epistemologico della medicina, perché credeva fermamente che l’essere umano sofferente non potesse essere approcciato soltanto con criteri scientifici come fosse l’oggetto di una scienza esatta. Si è prodigato per tutta la vita ad esporre le sue idee in occasione di congressi medici e di convegni teologici, ha scritto libri e numerosi articoli. Ma soprattutto deve essere stato d’esempio per i suoi allievi e collaboratori quando nelle corsie d’ospedale metteva in pratica il suo metodo biografico e quindi spesso l’uso della psicanalisi nel rapporto con i pazienti. Quando divenne ordinario di Medicina Clinica Generale a Heidelberg portò avanti con Alexander Mittscherlich un’ambiziosa battaglia per la fondazione di un Istituto Universitario di Medicina Psicosomatica, di cui Mittscherlich fu il direttore e il primo ad avere la cattedra di questa disciplina in Germania.

Questa Istituzione fu molto criticata dai colleghi universitari e soprattutto da Jaspers, perché non credeva nella psicanalisi e nel suo potere di permettere la conoscenza dell’inconscio, anzi abbandonare i criteri di scientificità nella terapia poteva essere anche pericoloso e possibile causa di arbitrarietà nell’uso di mezzi terapeutici, come era successo durante la dittatura nazista. Anche Weizsäcker però

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non intendeva trascurare gli insegnamenti della scienza medica nella cura del malato, ma il metodo scientifico gli sembrava troppo oggettivante e che trascurasse l’aspetto psichico del paziente. Non riuscirono a comprendersi e la rottura fu inevitabile.

Giudicare oggi la diatriba non è nostro compito. Si può dire che applicare la psicanalisi per tutte le malattie anche quelle che richiedono una terapia antibiotica, con piena risoluzione dopo pochi giorni, possa sembrare eccessivo. Dobbiamo quindi valutare gli aspetti positivi del metodo biografico, che Weizsäcker definisce “introduzione del soggetto nella medicina”, e sono numerosi: modificare il rapporto paternalistico tra medico e paziente in un rapporto di fiducia ma paritario; aiutare a far accettare all’ammalato la sua malattia, considerandola non una nemica ma un’occasione per cambiare lo stile di vita, eliminando il più possibile i fattori di rischio così da rendere cronica una malattia; aiutare il paziente a conoscere se stesso e a liberarsi da inutili preconcetti e paure considerando però che la morte può essere l’esito naturale di una patologia cronica. Far conoscere la propria malattia significa anche rendere autonomo il paziente nella cura creando in tal modo un’alleanza terapeutica che rende meno probabili le controversie legali.1 Si può dire che Weizsäcker abbia anticipato la linea di pensiero delle Medical

Humanitis. Esse sono nate in America come un campo interdisciplinare che include

le scienze umane nell’ambito della scienza medica con l’intento di migliorare la pratica medica. Si sono poi diffuse in tutta la cultura occidentale e anche in Italia,

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rappresentate da un movimento culturale molto attivo che si esprime nella rivista

L’arco di Giano. Numerose sono le discipline che vengono raccolte sotto questa

dizione e fra queste si trovano la filosofia, la psicologia e l’antropologia, che hanno rappresentato l’interesse principale di Weizsäcker. Il programma che si prefiggono è di rivendicare l’aspetto umanistico della medicina senza trascurare quello scientifico. Il rapporto medico- paziente è quindi al centro dell’attenzione delle

Medical Humanities.

Riconoscere che il medico non solo deve curare con qualsiasi mezzo possibile, ma è altrettanto importante che si prenda cura del paziente considerandolo come persona autonoma dotata di una propria volontà, è un insegnamento che il nostro medico-filosofo ha cercato di tramandarci e che le Medical Humanities cercano di promuovere nella speranza che sia pienamente attuato.

Molti studiosi si sono occupati di filosofia della medicina cercando di comprendere quale sia il ruolo della filosofia in campo medico. Edmund D. Pellegrino è stato un famoso cultore di bioetica e presidente dell’Università Cattolica Americana e anche promulgatore dell’inserimento di scienze umanistiche nella facoltà di medicina; egli affermava che, a suo parere, i filosofi hanno solo fatto un’analisi epistemologica applicata alla scienza medica, ma non hanno riconosciuto e quindi affrontato il vero problema filosofico posto dalla medicina, cioè l’attività clinica. Quel che conta è come agire nei confronti del malato e quindi quel che vale è il rapporto terapeutico, che mira al bene del malato. Non sempre cosa sembra il bene per il medico in base alle sue conoscenze scientifiche è considerato bene da parte del paziente. Per

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questo motivo è indispensabile conoscere il contesto familiare e sociale in cui vive il paziente e la scala di valori su cui si basa. Se si considera che la salute del corpo, come dice Aristotele, non è un bene supremo ma sussidiario, il medico deve sapere a che livello della scala dei beni sta la salute per quel determinato paziente. Altro bene per il malato è la libertà di scelta, se l’intervento proposto dal medico comporta poi una qualità di vita non conforme al suo progetto di vita può rifiutare il consiglio terapeutico. Il medico ideale è colui che riunisce in sé molte virtù, in pratica tutte le virtù etiche elencate da Aristotele.2

Il pensiero di Pellegrino, filosofo contemporaneo, contiene molti concetti simili all’Antropologia di Weizsäcker, soprattutto le qualità del medico che nei confronti del paziente deve usare la sua paticità riconoscendo che la loro relazione è fra due persone, che hanno i loro diritti e i loro doveri ma che mettono in atto reciprocamente le proprie virtù.

Il cambiamento di paradigma proposto da Weizsäcker non si è ancora realizzato per vari motivi. Secondo L.P. Entralgo3 il metodo biografico richiede troppo dispendio di energia, di personale e di danaro. La società è troppo burocratizzata e governata da processi collettivi. Lo stesso Weizsäcker riteneva che la triangolazione potere- denaro-scienza nella società moderna fossero inscindibili; perché un paradigma cambi occorrerebbe che i governanti si rendessero conto che i benefici prodotti dal

2 Cfr. E.D. Pellegrino, Bioetica e filosofia: il bene del paziente e la medicina in G. Federspil, P.

Giarretta, C. Rugardi, C. Scandellari, P. Serra, Filosofia della Medicina, Raffaello Cortina, Milano 2008.

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L.P. Entralgo è stato un medico-filosofo spagnolo del XX sec., che si è occupato anche di Antropologia.

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cambiamento di paradigma potrebbero avere anche ripercussioni economico- politiche favorevoli.

Noi, uomini del XXI secolo, possiamo dire che, nonostante le sorprendenti scoperte scientifiche e le invenzioni tecnologiche abbiano rivoluzionato la terapia medica apportando notevoli benefici, la medicina ha ancora molti difetti dal punto di vista burocratico e socio-politico.

Mi sia consentito di riportare un poco della mia esperienza trentennale di medico cardiologo in una Clinica Ospedaliera Universitaria. Ho iniziato a praticare l’attività clinica negli anni 70 quando la rivoluzione tecnologica era agli albori e noi, quelli del mio gruppo, guidato da un clinico medico molto preparato, eravamo fortunati perché operavamo in un ambiente all’avanguardia riguardo alle moderne attrezzature cardiologiche ( Fisiologia Clinica del CNR). Era tutto un fervore di ingegneri e tecnici che producevano prototipi di apparecchiature medicali all’avanguardia, compreso un calcolatore per l’analisi statistica dei risultati scientifici, che occupava un’intera stanza. La diagnostica cardiologica principale era l’emodinamica, il cosiddetto cateterismo cardiaco, che permetteva, tramite la misurazione delle pressioni all’interno delle cavità cardiache, di valutare la presenza e l’entità di una patologia valvolare. Le valvulopatie all’epoca erano la patologia più frequente con un’incidenza molto maggiore della cardiopatia ischemica coronarica. Si trattava di pazienti spesso giovani, perché la causa era quasi sempre la conseguenza del reumatismo articolare acuto avuto nell’infanzia. Molti erano giovani e le donne, a causa di una valvulopatia, non potevano avere figli se non a

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rischio della vita. Lo studio emodinamico consentiva una diagnosi precisa e indirizzava verso un intervento chirurgico, ma i centri di cardiochirurgia erano pochi in Italia e andare all’estero comportava un prezzo non indifferente.

I pazienti sostavano molto nelle nostre corsie e venivano ricoverati spesso. Questa situazione consentiva un rapporto molto stretto con il malato, conoscevamo il loro ambiente e il loro carattere come fossero nostri parenti, spesso li accompagnavamo anche verso un esito infausto quando la patologia era così grave da essere inoperabile. Ancora oggi mi ricordo molti dei loro nomi e le loro situazioni familiari.

Negli anni 80 e 90 la tecnologia ha fatto passi da gigante e è nata la tecnica ecocardiografica. Si trattava di una tecnica del tutto incruenta che migliorava di anno in anno e, paragonando con meticolosità i parametri ecocardiografici con quelli emodinamici, si dimostrò che i risultati erano sovrapponibili, non solo ma l’ecografia dava immagini delle valvole e delle cavità con dovizia di particolari e consentiva di osservare il cuore in movimento. Si ricavavano dall’esame parametri morfologici e funzionali di notevole importanza diagnostica. L’ecocardiografia sostituì il cateterismo cardiaco nei pazienti valvolari e contemporaneamente venne iniziato l’uso dell’angioplastica coronarica per i pazienti affetti da cardiopatia ischemica. L’emodinamica si trasformò anche in tecnica terapeutica perché dilatava le coronarie stenotiche. La cardiologia divenne una scienza in espansione e ogni ospedale che si rispetti fu dotato di un reparto cardiologico. Fu una grande conquista.

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Intanto la cardiologia si suddivideva in branche ultraspecialistiche: un cardiologo non poteva essere clinico, emodinamista, aritmologo, ecocardiografista, riabilitatore etc. Per esempio chi si dedicava all’emodinamica aveva con il malato un approccio limitato quasi al tempo dell’esame. La tecnica richiedeva personale specializzato e dedicato esclusivamente ad essa. Non era più possibile seguire i pazienti in corsia e poi andare in sala emodinamica.

Oggi il cardiologo emodinamista è quasi completamente dedicato alla sua tecnica, anch’essa sempre in evoluzione e richiede pertanto un continuo aggiornamento. Basti pensare che con la tecnica emodinamica siamo in grado di correggere certi particolari difetti valvolari: eseguire un impianto di valvola aortica in particolari condizioni di stenosi aortica nell’anziano, che non è in grado di sopportare un intervento chirurgico con circolazione extracorporea e anche di correggere una insufficienza mitralica applicando particolari clips sui lembi valvolari. L’emodinamista si sostituisce al cardiochirurgo.

Anche l’ecocardiografia mentre si evolveva con tecniche sempre più sofisticate diventava invece un esame rutinario e ripetitivo e per certe patologie anche giornaliero: esempio il paziente con infarto miocardico acuto veniva controllato con l’ecocardiogramma ad ogni minimo cambiamento dei parametri clinici e così il paziente affetto da scompenso cardiaco grave. Dai medici periferici le richieste diventavano sempre più numerose poiché l’esame era incruento, non provocava dolore né complicanze biologiche, occorreva quindi personale esperto dedicato solo

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a questa tecnica. Le liste di attesa si allungavano all’infinito e difficilmente venivano soddisfatte perché gli apparecchi ecocardiografici erano di numero insufficiente.

Ancora oggi, sebbene il numero degli apparecchi sia aumentato, non è più possibile avere un rapporto sufficiente con il malato, occorre non perdere tempo e il paziente è diventato poco più di un numero. Al medico viene addirittura richiesto di non impiegare più di un certo tempo per l’esame e di fare una specie di screening di massa. Così il medico diventa un esecutore di ordini con poca autonomia. Circa il 60% degli esami ecocardiografici risulta perfettamente nella norma, questo significa che in parte la richiesta è inappropriata, ma si tenta di rispettare ciò che il paziente considera un suo diritto, mentre sarebbe anche un dovere rispettare l’appropriatezza di un esame, altrimenti si rischia che si abbia una riduzione della qualità e altri operatori non cardiologi si immettano nel mercato. Si tratta invece di un esame che dovrebbe essere eseguito da operatori esperti e in ambulatori accreditati. Una parziale riduzione dell’inappropriatezza si potrebbe ottenere se si accettassero solo richieste di esami specialistici da parte degli specialisti, in questo caso i cardiologi.4

Dopo vari studi americani sull’appropriatezza dell’esame la Società Italiana di Ecografia Cardiovascolare, per ovviare a questo problema, ha stilato un documento di consenso molto dettagliato in cui ha suddiviso l’appropriatezza in classi di priorità in maniera da regolare l’accesso non in base alla data delle richieste ma in base

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Cfr. F. Lattanzi Appropriatezza in ecocardiografia, in Giornale Italiano di Cardiologia, 9/12, Il pensiero scientifico, Roma, 2008, pp.853-856.

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all’urgenza e all’appropriatezza, nella speranza che venga rispettato almeno in ambito ospedaliero.5

l’insegnamento delle tecniche richiede un’applicazione pratica e il tempo da dedicare allo specializzando si è ridotto. Vengono fatti corsi specialistici prevalentemente teorici, utili ma non sufficienti. Il medico è un burocrate alle dipendenze di una organizzazione che mira al bilancio perché i soldi non sono sufficienti . Anche in un reparto universitario i pazienti stanno in degenza il meno possibile e non è facile instaurare un rapporto interpersonale adeguato.

Queste sono le cause: l’ultraspecializzazione e l’aumento delle richieste che, secondo la mia esperienza limitata ad un solo settore, rendono difficile mettere in atto l’insegnamento di Weizsäcker. Difficile ma non impossibile perché occorrerebbe una riforma sia della figura del medico di famiglia, anche lui immerso in procedure amministrative e burocratiche, che non ha un sostituto il sabato e la domenica se non la guardia medica di un pronto soccorso stracolmo di persone in attesa. Inoltre ci viene detto dai telegiornali che fra poco tempo un certo numero di medici di famiglia andrà in pensione e non vi saranno medici sufficienti per sostituirli. Anche il medico dell’ambulatorio ospedaliero specialistico dovrebbe poter dedicare più tempo a conoscere il malato, impedendo che i pazienti poco soddisfatti debbano rivolgersi alla libera professione, che alcuni non possono permettersi.

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S. Mandorla, P. Trambaiolo, De Cristofaro et al.),Appropriatezza dell’esame ecocardiografico e

definizioni delle classi di priorità: una proposta della SIEC, in “G. Ital. Cardiol.”, 11(6), Il pensiero

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Però ci sono anche dei buoni esempi di organizzazione nella gestione della medicina. In alcuni ospedali gli ambulatori specialistici funzionano perché sono multidisciplinari cioè per seguire una malattia cronica, che coinvolge più organi, si è attivato un percorso programmato per il paziente tale che si riesca a sottoporlo a vari esami diagnostici, ad essere visitato da una equipe di specialisti e in base ai vari giudizi viene proposto il programma terapeutico. Infine del paziente dovrà prendersi cura lo specialista del settore in collaborazione con il medico di famiglia così da attuare una “educazione terapeutica” e rendere responsabile sia il medico che il paziente, il quale dovrà diventare capace di gestire il più possibile da sé la propria malattia.

Parla di questo argomento il diabetologo Giuseppe Erle, operante all’ospedale di Vicenza. Il diabete è un esempio classico di patologia cronica che coinvolge tutto l’organismo e necessita per la terapia una multidisciplinarità e una collaborazione attiva del paziente, tale da sentirsi lui stesso facente parte del team terapeutico. Si deve creare tra diabetologo e paziente una vera relazione intersoggettiva, se si vuole risolvere i vari problemi creati dalla malattia anche a livello sociale. Il paziente dovrà essere aiutato a raggiungere un’autonomia gestionale della propria malattia e ad essere consapevole delle proprie sensazioni e sentimenti da raccontare al proprio curante, perché ogni persona vive a proprio modo la malattia. Solo una collaborazione sincera sarà fruttuosa e riuscirà ad evitare le possibili complicanze di una malattia che accompagnerà il paziente per tutta la vita.

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G. Erle parla di empowerment definendolo «un apprendimento non basato sulle conoscenze ma sull’esperienza» e compito del medico per l’approccio all’empowerment è fare domande al paziente per aiutarlo a conoscere se stesso e a trovare la soluzione a certi problemi; infine il malato dovrà imparare a cambiare atteggiamento e a saper fare nuove cose utili per arrivare all’autocura. Da parte sua il medico che segue un diabetico dovrà avere particolari doti che sono quelle del “buon medico” fra cui la disponibilità e l’apertura mentale. Quello che conta è che si deve instaurare un dialogo fra i due e che il paziente si senta a proprio agio senza il timore di essere rimproverato ma con il desiderio di raccontare le proprie emozioni. Anche il medico deve fare un percorso formativo in modo da sentirsi uomo difronte ad un altro uomo e pronto ad aiutarlo nelle sue scelte.6

Un altro esempio di reparto di cura funzionante secondo questi principi è quello che si occupa di riabilitazione cardiologica. I pazienti vengono ricoverati dopo un evento acuto (infarto miocardico trattato con angioplastica coronarica) oppure dopo un intervento di cardiochirurgia spesso in terza- quarta giornata. Vengono accolti anche pazienti anziani , molto sofferenti perché per loro l’intervento è in genere molto debilitante. Si tratta di un lavoro di equipe dove medici, infermieri e fisioterapisti lavorano in simbiosi. In genere l’ambiente è accogliente, con regole meno rigide di quelle dell’ospedale. Vengono accolti i visitatori senza orari di chiusura durante la giornata. I pazienti che stanno meglio possono anche uscire a

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G. Erle, L’Empowerment nella relazione medico-paziente per la persona con diabete in P. Giarretta et al. (a cura di) Filosofia della medicina, metodo, modelli, cura ed errori, Il Mulino, Bologna, 2009, pp.259-267.

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fare una passeggiata nei dintorni; si favorisce la vita di gruppo e momenti ricreativi. A parte le dovute cure mediche secondo necessità, il programma di riabilitazione inizia fin dai primi giorni con esercizi di ginnastica passiva e massaggi; si procede poi il prima possibile alla mobilizzazione graduale con il fine di favorire il ripristino dell’autosufficienza. L’anziano, che viene rimandato a domicilio troppo presto dopo un intervento chirurgico importante, necessita di un’assistenza dal punto di vista fisico e psichico molto valida altrimenti rischia di non alzarsi più dal letto. Nel centro si procede alla ripresa di una attività fisica graduale e monitorata. Chi rapidamente migliora le sue qualità fisiche passa all’allenamento con la cyclette sotto monitoraggio elettrocardiografico. La degenza è abbastanza lunga da permettere l’istaurarsi di un rapporto medico –paziente adeguato e fruttuoso. Fa parte dell’equipe uno psicologo che aiuta ad affrontare l’evento sconvolgente, soprattutto per i pazienti più giovani, che dopo un infarto miocardico cadono in depressione, perché avvertono con angoscia la precarietà dell’esistenza e la propria vita come distrutta. Lo psicologo fa con il paziente numerosi colloqui e insieme al cardiologo lo

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