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In un saggio del 19471 , nell’immediato dopo guerra, dopo le terribili esperienze vissute da ufficiale medico in prima linea e quando ancora in Germania gli animi erano sconvolti dalla catastrofe, Weizsäcker si domandava, rivolgendosi ai colleghi medici, quale fosse l’essenza della medicina e ammetteva la necessità di un cambiamento profondo nel modo di interpretare e di praticare la professione medica.

Innanzitutto Weizsäcker considerava il concetto di “medico” ben rappresentato nell’immagine del buon samaritano, di cui parla l’evangelista Luca (10,25-37), che agisce con spontaneità, secondo un principio etico, andando in soccorso a colui che ha bisogno solo perché lo riconosce come essere umano. Weizsäcker riteneva che il medico, al di là del suo valore scientifico e culturale , debba avere in suo potere una specie di bacchetta del rabdomante che gli indica cosa sia opportuno fare e cosa no. Il medico infatti ha in sé una forza inspiegabile e innata che lo spinge a riconoscere le qualità umane dell’altro e a soccorrerlo se necessario.

La polemica era chiaramente rivolta contro la situazione della medicina dei suoi tempi, ad essa rimproverava di offrire al medico una formazione quasi

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Il saggio Sull’essenza della medicina si trova in V.v. Weizsäcker, Antropologia Medica, a cura di O. Tolone, cit., pp.95-109.

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esclusivamente scientifico-naturalistica e ben poco umanistica. Non si trattava e non bastava aggiungere al curriculum un corso di etica medica, qualche lezione di filosofia o di psicologia, oppure consentire qualche ora di pratica assistenziale se poi veniva insegnato di fare esperimenti sull’uomo e le sue malattie, senza considerare che l’uomo non è un oggetto, un macchinario, bensì è un corpo esteso ma con soggetto.

All’epoca di Weizsäcker le scienze erano divise in due grandi gruppi, scienze della natura e scienze dello spirito. Il metodo per conoscerle era ben diverso nei due gruppi: nelle scienze della natura si doveva usare la ragione e il metodo consisteva nel rapporto tra soggetto conoscente e oggetto conosciuto, separato e distante dal soggetto, nella conoscenza vigeva la legge fisica di causa-effetto. Nell’apprendere le scienze dello spirito oltre alla ragione occorreva il sentimento che è soggettivo e spinge ad agire in modo imprevedibile.

Egli, esperto di fisiologia ma anche attento alle sorprendenti scoperte in campo biologico e affascinato dalla nuova teoria psicanalitica di Freud, si era convinto che la medicina non dovesse appartenere esclusivamente alle scienze della natura, perché l’organismo vivente nel suo rapporto necessario e inscindibile con l’ambiente che lo circonda ha anche una sua autonomia, potendo rispondere a uno stimolo in modo imprevedibile e anche opposto, quindi il soggetto fa parte integrante dei processi biologici. L’essere umano, inoltre, ha una psiche che, anche se non è in grado di conoscere fino in fondo i meccanismi interni degli organi somatici, in parte li condiziona. Il soggetto, quindi, è da considerarsi inserito sia

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nella biologia che nella psicologia. La medicina di allora, pur avendo fatto grandi progressi nella fisiopatologia, nella patogenesi e nella tecnologia diagnostica, si occupava dell’uomo malato come fosse un interessante oggetto di studio ma non della sua soggettività e della sua innata spontaneità nel relazionarsi con altri da sé. Occorreva introdurre il soggetto nella medicina e cambiare così il suo statuto epistemologico opponendosi alla medicina positivistica oggettivante. L’uomo non tanto e non più oggetto di conoscenza ma soggetto di esperienza, che partecipa alla propria malattia e se la costruisce in modo da sopportarla, guarirla o prevenirla, mettendosi in relazione e chiedendo aiuto al medico curante. Introdurre il soggetto nella medicina cioè la psicologia nella patologia voleva dire anche avervi introdotto le passioni, compresa la colpa, la vergogna e la spontaneità quindi la libertà2. Si trattava di una rivoluzione di tipo copernicano, intendendo con questo un cambio di paradigma tale che al centro dell’attenzione nella scienza medica ci fosse l’uomo con tutte le sue caratteristiche organiche, psichiche, sociali.

Weizsäcker ad un certo momento non si occupò più solo di fisiologia e di psicosomatica, ma, grazie all’introduzione della psicanalisi in medicina, cominciò a pensare alla fondazione di una nuova scienza: l’Antropologia Medica, che avesse lo scopo di occuparsi dell’uomo malato sotto tutti i punti di vista, cercando di unire insieme scienze della natura e scienze dello spirito. L’intento era quello di opporsi al modo di pensare dell’epoca, che riconosceva alcune malattie di origine psichica e

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Cfr. V.v. Weizsacher, Questioni fondamentali di Antropologia Medica, a cura di M. Anzalone, cit., pp.9-10.

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altre di origine puramente somatica, perché tutte le malattie coinvolgevano, a suo avviso, sia corpo che anima in quanto l’uomo è un tutt’uno inscindibile.

Questo nuovo modo di pensare voleva pure prendere le distanze dalla psicosomatica, che si praticava anche nell’ospedale in cui egli lavorava ma che, pur considerando importante il coinvolgimento tra anima e corpo, faceva netta distinzione tra queste due realtà. Il corpo non è, secondo WeizsäcKer, un’entità con funzioni ben distinte, sottoposto alla ragione e alle passioni provenienti dall’anima, ma bensì è esso stesso un soggetto e sue sono ragione e passioni.3

Era una visione nuova sia dell’uomo che della malattia e questo significava modificare l’epistemologia della medicina. La sintomatologia obiettiva rilevata nel corpo dell’uomo malato si poteva ricollegare al suo io profondo, alle sue passioni, ai suoi sensi di colpa, come pure l’umore melanconico del depresso poteva essere l’origine dei suoi disturbi corporali. L’antropologia medica doveva riunire sotto un unico scopo fisiologia e psicologia, psicosomatica e filosofia.

L’introduzione del soggetto nella medicina diventò un caposaldo della sua Antropologia Medica e anche il principale obiettivo da raggiungere.

Per dare un fondamento empirico a questa nuova disciplina cominciò ad interessarsi alla medicina antropologica costituita da tanti casi clinici da esaminare ed elaborare per dimostrare la veridicità della sua teoria. Cercava così di mettere insieme teoria e prassi. Sarebbe stato un modo tutto nuovo di vedere la malattia; il

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Cfr. V.v. Weizsäcker, Biologia e Metafisica. Istruzioni per la condotta umana, a cura di P.A. Masullo, cit., p.12.

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medico doveva comprendere come il paziente viveva i propri disturbi e come li elaborava e doveva anche aiutarlo a comprendere se stesso, perché la malattia faceva parte della sua verità, era se stesso. L’influenza di Freud con la sua psicanalisi fu senza dubbio fondamentale nell’evoluzione del pensiero di Weizsäcker, anche se Freud non fu completamente d’accordo con lui, perché nella sua mente continuava a vedere distinti soma e psiche. Molte critiche lo raggiunsero anche da parte di altri filosofi e colleghi medici. La più nota è la diatriba con Jasper, con il quale in gioventù erano stati amici. La critica verteva soprattutto sull’idea di vedere la malattia fisica non strettamente connessa con quella psichica, supponendo che certe malattie somatiche anche gravi non sono riconducibili ad un intrico fra mente e soma.4 Weizsäcker si era invece convinto della sua teoria e adduceva a conferma molti casi clinici di cui aveva avuto personale esperienza.

Per esempio nel testo del 1951 Der kranke Mensch5 riportò un caso di dipendenza

multipla da alcool sonniferi e sigarette che, con la comparsa della cirrosi epatica, si risolse completamente. La sua interpretazione fu che la patologia psichica era stata sostituita da una malattia organica. Inoltre egli aveva dato una notevole importanza alla biografia del malato e aveva trovato numerosi casi in cui un cambiamento importante nella vita del paziente, uno sconvolgimento psichico, una forte emozione poteva essere stata la causa di una patologia apparentemente solo

4 Cfr. P.A. Masullo, op. cit., p.103 . 5

Cfr. O. Tolone, Alle origini dell’antropologia medica. Il pensiero di Victor von Weizsäcker, cit., pp.73- 74. Der Kranke Mensh. Eine Einführung in die medizinische Antropologie è inserito in V.v .Weizsäcker, (GS IX, pp.315-702).

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somatica. Il caso ”A”, da lui descritto,6 e accennato già nel capitolo I, è un esempio eclatante di come un disturbo organico possa nascondere un conflitto psichico: ragazzo di 20 anni affetto da ritenzione urinaria, non giustificabile dal punto di vista clinico né da malfunzionamento dell’apparato urinario né da problemi neurologici; un colloquio approfondito con il giovane, usando il metodo psicanalitico, convinse Weizsäcker che la causa poteva essere un difficile rapporto con un padre severo, che non gli avrebbe approvato pratiche sessuali, per cui il ragazzo considerava la ritenzione urinaria un appagamento del desiderio sessuale. Ma non era questa la singolarità del caso, si sapeva come si comportano le nevrosi. L’evento particolare era stato che la comparsa improvvisa di un’angina tonsillare aveva fatto scomparire il sintomo ritenzione urinaria su base nevrotica. Una patologia senza dubbio organica si era sostituita ad una nevrosi attuale.

La malattia si era ristrutturata prendendo un’altra strada. Discutendo il caso egli supponeva che il collegamento tra l’angina e la nevrosi di colpa fosse avvenuto nell’inconscio, che fosse avvenuto un passaggio dall’io all’es, dalla dimensione spirituale e morale a quella materiale e viceversa. L’angina era un evento puramente corporale ma che in maniera inconscia liberava dalla nevrosi. Non è facile approvare questo salto dallo psichico all’organico, ma Weizsäcker riconosceva in questo caso quanto fosse importante la partecipazione del soggetto alla malattia, che è sua personale e privata, fa parte della sua biografia e l’andamento di essa dipende da come egli la vive e da come la interpreta. Una malattia fisica può

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Ivi, pp.77-78. Nota57: il caso A viene descritto nello studio dal titolo Körpergechehen und Neurose, in Weizsäcker (GS VI p.129).

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trasformarsi in una nevrosi ma un senso di colpa a sua volta può trasformarsi in una patologia organica. Il corpo può essere un portatore di senso spesso più importante della coscienza. In questo caso l’angina era intervenuta nel momento in cui il paziente si rendeva conto dell’origine della sua ansia e cercava di liberarsene. Durante l’interruzione della terapia avvenne il miracolo, con la malattia somatica il sintomo di origine nevrotica scomparve.

Queste considerazioni ci portano a vedere con occhi diversi il significato della malattia. In questo caso la patologia ritenzione urinaria non si giustificava con un meccanismo fisiopatologico, ma occorreva proprio la psicanalisi per portare alla coscienza del malato il vero senso della malattia, racchiuso nell’inconscio. Il senso di colpa si trasformò in rancore verso il padre che lo aveva educato a considerare peccato soddisfare ogni stimolo sessuale e non poter amare si era tradotto in non poter urinare. L’angina era stata l’occasione che aveva placato finalmente la sua ansia nevrotica.7

La malattia è un evento critico nella biografia di un individuo, che può causare conseguenze spesso negative ma talvolta anche modificare in meglio una condizione statica. Il medico deve approcciare il paziente non considerando la malattia come un oggetto di indagine, ma pensando che l’approccio deve essere rivolto a tutto l’uomo, al suo essere un’unità di anima e corpo, i cui sintomi possono essere espressione di ineffabili segreti. La caratteristica strutturale dell’essere

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Il caso A è descritto e discusso con dovizia di particolari in S. Spinsanti, Guarire tutto l’uomo, cit., pp.50-65.

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umano è la sua paticità, che rende l’uomo vulnerabile perché sempre sottoposto ad una “crisi”, intendendo per crisi una perdita dell’equilibrio tra il soggetto e il proprio ambiente, ma la reazione biologica sarà sempre quella di cercare di ripristinare un equilibrio anche se ad un diverso e nuovo livello funzionale. Il soggetto, presa coscienza di far parte del proprio mondo biologico, quindi, dopo aver instaurato una relazione con se stesso, in un certo modo si potrà sentire responsabile della propria salute e della propria malattia. Per riconoscere questo un essere umano in preda ad una crisi ha bisogno di un aiuto, di un incontro con un altro essere umano, che prendendolo per mano instauri una relazione di reciproco riconoscimento e curi la sua patologia.

Quella tra il paziente e il suo terapeuta, per Weizsächer è un esempio paradigmatico di come intende una relazione tra soggetti in quanto l’intersoggettività è strutturale per l’essere umano, corrisponde alla sua paticità ed è centrale in un programma di antropologia medica. Definire l’uomo patico significa definirlo, in base alle categorie patiche, un diveniente in continuo mutamento e in continua relazione. L’uomo prima si scopre avere una doppia personalità e sa di essere in relazione con se stesso (l’altro di sé), poi avverte la necessità di aprirsi ad un’altra relazione esterna (l’altro da sé), e questo altro non potrà riconoscerlo come un oggetto ma come un altro soggetto, come un tu, quindi eticamente come un fine e non come un mezzo. Si comprende così che l’antropologia medica non può che avere uno scopo terapeutico, pertanto sarà indirizzata a difendere la vita recuperando e mantenendo lo stato di benessere psico-fisico. L’antropologia

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medica sarà la scienza che si occupa dell’uomo malato in relazione con il suo terapeuta. Entrambi si occupano della malattia.

Ma che cosa è la malattia? La malattia è una scissione dell’Io e spesso si manifesta con il dolore, per cui si deve intervenire per scoprire cosa può aver provocato questa scissione tentando di ripristinare l’unità tra psiche e corpo. Ecco perché diventa fondamentale il colloquio tra medico e paziente alla ricerca nella biografia del malato di qualche evento che possa giustificare la scissione. Questa relazione è di tipo dinamico per entrambi i soggetti coinvolti, si basa sulla reciproca fiducia perché il percorso terapeutico li renderà ugualmente responsabili l’uno dell’altro.

L’Antropologia medica che propone Weizsäcker non è una semplice accettazione di regole etiche valide universalmente, ma si basa su un incontro, su un esperienza individuale, che si compie contemporaneamente per entrambi i soggetti protagonisti di questo incontro e li modifica in modo imprevedibile. Il medico prende le sue decisioni in completa autonomia e se ne rende responsabile, ma sempre nel rispetto della volontà del paziente, poiché per prima cosa egli si occupa di un ascolto “io sono malato”8, poi sceglie il da fare in base alle proprie conoscenze, ma anche dopo aver cercato di capire come considera il paziente la sua propria malattia. I due soggetti si influenzano a vicenda e agiscono in base alla loro paticità, per cui la responsabilità di ogni decisione terapeutica sarà sempre di entrambi. Questo non significa che non potranno esserci momenti di scontro, di

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Cfr. V.v. Weizsäcker, Questioni fondamentali di antropologia medica, a cura di M. Anzalone, cit., p.52.

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paura, di stanchezza da parte del paziente, ma se la fiducia è alla base del loro rapporto e se il medico saprà giustificare con argomenti validi tutte le sue scelte terapeutiche, cercando con pazienza di sciogliere i dubbi e di infondere coraggio, il rapporto si manterrà proficuo per entrambi. In ogni relazione di questo tipo, vuole insegnarci Weizsäcker, entrambi i componenti si modificheranno e sarà una crescita dal punto di vista spirituale, perché ogni rapporto medico-paziente è un’esperienza irripetibile e fruttuosa.

Il programma di un’antropologia medica venne già timidamente espresso da Weizsäcker negli anni della pubblicazione della rivista Die Kreatur con i suoi tre articoli pubblicati nella rivista ma anche altri scritti di quegli anni lo confermano. Tra gli altri vi è uno scritto intitolato Über medizinische Anthropologie, che è il testo di una relazione ad un convegno nel 1927 su invito di Max Scheler.9 In questa relazione egli dimostrò chiaramente l’intento di modificare il metodo della medicina, incidendo in maniera significativa nella relazione medico-paziente. L’interesse del medico si inverte, non bisogna più mettere al centro dell’attenzione la malattia ma l’uomo malato, l’essere umano con tutte le sue caratteristiche psichiche e certamente anche fisiche, ma valutate insieme globalmente, dando importanza anche alle esperienze sia del malato che del medico. Tutto questo si riunisce in un unico detto: “introdurre il soggetto nella biologia e quindi anche nella medicina”. Era un’idea rivoluzionaria che si opponeva a quell’approccio paternalistico del medico verso il malato, considerato semplicemente un caso

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Il testo si trova in trad.it. Cfr. V.v. Veizsäcker, Antropologia medica, a cura di O. Tolone, cit., pp.29- 60.

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clinico da risolvere secondo le regole di una medicina come scienza esatta. Questo modo di pensare e di agire portava il paziente a farsi un’idea, secondo Weizsäcker, sbagliata della terapia in quanto il percorso terapeutico doveva portare alla completa restitutio ad integrum e su questo non era d’accordo. Così vissuta la malattia è un qualcosa di incomprensibile e inaccettabile e causa un rifiuto psicologico che aggrava il malessere, anche perché il malato si sente messo ai margini da una società che non accetta la sua inefficienza.

Una caratteristica dell’antropologia medica di Weizsäcker è quella di dare importanza all’aspetto sociale della malattia, in quanto il paziente può sentirsi abbandonato, svalorizzato, soprattutto se avverte la sensazione di essere incurabile. Questi sentimenti sono spesso responsabili di sintomi nevrotici per cui, egli dice, non possiamo più contentarci di una spiegazione organica di tutti i disturbi che il paziente dichiara, perché sintomi nevrotici e sintomi somatici possono essere molto simili. Occorrerebbe perciò un’unica teoria generale della malattia.10

Certamente sono tre i protagonisti di questo percorso, medico, paziente e malattia che agiscono in autonomia ma si intrecciano e si condizionano. Il rapporto medico- paziente è una relazione che corrisponde ai criteri del Gestaltkreis nel senso che c’è un continuo rimando fra medico e paziente, se l’uno riceve qualcosa dona anche qualcosa. Se il malato cede la sua fiducia affidandosi al medico questi nel riceverla si arricchisce e accresce la fiducia in se stesso.

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Si può anche dire che è un rapporto delicato che può rompersi facilmente ma alla base vige la reciprocità. Ogni terapia deve essere discussa insieme e sbaglia il medico se considera un consiglio terapeutico come un ordine, perché il paziente lo accetterà se già fa parte della sua decisione. Quando il medico si trova di fronte ad un malato incurabile non deve credere di comprenderlo perché, pur essendo il malato il più debole sia fisicamente che psicologicamente, sarà superiore al medico nell’ambito della sua esistenza metafisica. Infatti egli sta lottando per la sua esistenza ad un livello metafisico superiore, ne è consapevole e orgoglioso.11 Il medico deve ammettere la propria inferiorità metafisica e non può pretendere di immedesimarsi e comprendere il dolore che prova il malato, questo è impossibile e sarebbe presunzione. Dovrà invece riconoscere che ogni uomo ha in sé una propria forza, che senz’altro sfrutterà al massimo.

Con questa consapevolezza il medico non deve cercare in tutti i modi di raggiungere, come risultato del suo intervento terapeutico, la piena guarigione: infatti il suo compito di medico non è quello di spingere ma di rendere possibile una scelta fosse anche quella di accettare un destino crudele. La riuscita di una cura non dipende dal medico «Perché egli non è né guida né interprete né saggio, bensì medico…egli non è al di sopra delle decisioni, bensì si trova con il malato nelle decisioni»12. In modo incisivo Weizsäcker dice anche che il medico non è una persona mossa da compassione e che «la compassione psichica del medico è naturalmente una assurdità e non è oggettiva. Con questo sentimento commette

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Cfr. Ivi, p.55.

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una infrazione contro le regole del rispetto»13. Se il paziente viene fatto oggetto di conoscenza da parte del medico in questo caso c’è una distanza incolmabile fra di loro, il paziente invece tende ad avvicinarsi il più possibile al medico fino ad identificarsi con lui quando si tratta di mettere in atto una determinata decisione

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