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D I NUOVO IN I TALIA

L’ ESTATE 1943 1 Alla fine di luglio

Firenze, sera di domenica 25 luglio 1943: Franco Fortini va a trovare un amico che abita in una “casa modestissima di periferia” ed è “immobilizzato da una pericolosa malattia […] sotto un lenzuolo soltanto, perché fa molto caldo e le finestre sono spalancate”. La mamma e la sorella di Fortini sono andate al cinema; il padre è a casa, come al solito “resta sotto la lampada a guardare il giornale fino a che non è ora di innestare alla radio le spine di una sua cuffia e cercare sul vecchio apparecchio i colpi del segnale di Radio Londra”. È lui che telefona per avvisare il figlio al telefono con la notizia

È la notizia, l’incredibile. Le dimissioni di Mussolini.

In quante case d’Italia sarà successo come in quella casa! Sembravamo ed eravamo tutti impazziti. Una gioia quasi paurosa.

Ci si abbraccia, si stappano bottiglie […]. Parole, risate, occhi lustri: la fine, la libertà, la pace! Poi tutti alla radio. «La guerra continua» naturalmente; ma sarà per prendere le opportune precauzioni contro i tedeschi. Il tono littorio delle ultime parole del proclama di Badoglio è deludente. Ma quando alle prime note della Marcia reale non seguono più, come sempre, quelle di «Giovinezza», scompaiono gli ultimi dubbi: è finita davvero1.

L’annuncio è arrivato troppo tardi – solo poco prima delle 23 – perché l’entusiasmo possa invadere subito tutta la città. C’è appena la possibilità di piccole manifestazioni, assembramenti, grida di gioia, canti, abbracci senza più prudenza, anche tra persone che non si conoscono tra loro.

Il comunista Gianfranco Benvenuti arriva a Firenze col primo treno dal vicino borgo di Compiobbi; scende alla stazione di Campo di Marte: lo accoglie un quartiere deserto, ma appena si addentra nel rione di Santa Croce, tutto cambia all’improvviso “d’un colpo proprio”.

Nella Via dei Macci vi è gente, molte finestre sono spalancate, qua e là v’è luce; gente si muove e cammina in una sola direzione, da dove cioè provengono voci alte, come in coro. All’angolo con Via dell’Agnolo sono in strada centinaia di persone, le finestre sono aperte e illuminate, è una festa, sono grida, sono canti e sberci […] la festa è tutto un commento ad alta voce, urlato, imprecato. E quel coro pur nel frastuono, viene fuori, scandito, “Ba..do..glio. Ba..do..glio”, disordinatamente, interpuntato da voci singole, urlanti, “Sudicio”, “Pezzo di merda”, dirette a lui, al duce, uomo tutto, uomo, ora, incredibilmente finito. E intanto c’è chi si chiama da distanza, chi parla da finestra a finestra, è una baraonda, ci stanno di tutti i tipi lì in mezzo, anche puttane, anche ubriachi.

All’improvviso sono mancate i segni quotidiani del regime: le squadre notturne e le ronde militari; il circolo fascista del rione è l’unico edificio con le luci spente.

Risalgo verso i Viali, la festa resta alle spalle, il clima si quieta, giungo a casa, Via Ghibellina 24, la gente è rada, parla animosamente, ma non urla. Ho la testa frastornata. Oltre il portone, ritrovo il buio e il silenzio di sempre.

Ancora rumori lontani, qualcuno continua a manifestare, i pochi organizzati vanno subito al carcere delle “Murate” a reclamare la liberazione dei detenuti politici2.

Per molte persone comuni, per i detenuti, per i soldati nelle caserme “il 25 luglio” significa 26, per qualcuno 27 o persino 30. La mattina del 26 ci si raduna nelle piazze per le manifestazioni, alcune spontanee, altre organizzate dai partiti antifascisti che nel corso degli ultimi mesi si erano riorganizzati e ormai svolgevano un’intensa attività politica. A Firenze si notano i tricolori alle finestre sin dal mattino presto. Si comincia a lavorare di scalpello, per abbattere busti, stemmi, effigi. Dalle varie parti della città, isolati o a gruppi uomini e donne, molti giovani, confluiscono nell’allora piazza Vittorio Emanuele, l’attuale piazza della Repubblica, per formare un unico grande corteo.

Un altro comunista, Gino Tagliaferri, riesce a rientrare a Firenze solo la mattina del 26, e sa dove andare: in piazza Vittorio incontra i compagni e i leader del partito rimasti in città. Si decide di partire di nuovo verso il carcere per reclamare quanto la sera prima non era stato ottenere: le scarcerazioni dei detenuti, sia i politici che i comuni.

Ci mettemmo in testa al corteo molto numeroso e rumoroso, ma quando arrivammo alle Murate trovammo schierato attraverso via Ghibellina un folto cordone di militari col fucile bilanciato verso i dimostranti. Gli ufficiali ci gridarono: «Indietro, indietro! Abbiamo ordine di far fuoco».

Fui tra quelli che si avvicinarono e tentai di spiegare agli ufficiali, fra le urla e le minacce, che loro dovere era di stare con il popolo e di permettere la liberazione delle vittime del fascismo. Alla fine ritenemmo opportuno non insistere, perché ci rendemmo conto che facevano sul serio e noi non volevamo aver vittime3.

Il critico d’arte americano Bernard Berenson non ha lasciato l’Italia con lo scoppio della guerra, e raccoglie notizie nella sua villa a Settignano, nei pressi di Firenze.

Ieri mattina venne il barbiere e mi raccontò le scene di gioia avvenute a Firenze: come la gente si abbracciava per strada senza conoscersi e come i deboli tentativi di reazione da parte dei fascisti erano stati frustrati. Egli stesso appariva ebbro di felicità. Nel corso della giornata appresi che la caduta di Mussolini era stata accolta ovunque con acclamazioni come la liberazione da un incubo e che a tutte le finestre sventolavano bandiere in segno di allegrezza.

[…] Le case del Fascio sono già state chiuse, e le iscrizioni fasciste cancellate, o scalpellate via da muri e facciate. La rivoluzione in breve, come tutte le rivoluzioni – comprese quella francese e quella sovietica – incomincia con rose e fiori, e quasi senza spine. Mi auguro con tutto il cuore che proceda incruenta pacifica e ordinata com’è incominciata.

Berenson accoglie senza preoccupazioni i nuovi annunci radiofonici del 26: proclamazione dello stato d’assedio e del coprifuoco, ordine di tenere i portoni aperti e illuminati per tutta la notte. La sua fiducia nel governo Badoglio non vacilla nemmeno

2 G. Benvenuti, Ghibellina 24. Memorie per un contributo alla storia della Resistenza fiorentina,

Nuovedizioni Enrico Vallecchi, Città di Castello 1974, pp. 13-15.

3 G. Tagliaferri, Comunista non professionale. Lotta clandestina a Firenze, La Pietra, Milano 1977, p.

100. Sulle manifestazioni, i tricolori, le effigi scalpellate, il ritrovo in piazza Vittorio, si vedano anche Francovich, La Resistenza a Firenze cit., p. 16, e Benvenuti, Ghibellina 24 cit., p. 17.

quando alcuni amici gli dicono indignati che non sono state revocate le leggi razziali, e nemmeno il divieto di ascoltare radio straniere.

La gente non capisce che il primo dovere del nuovo governo è di assicurare l’ordine e di prevenire ogni ribellione da parte degli elementi fascisti più violenti, contando sulla resistenza passiva degli altri da un canto, e dall’altro sulla giustizia popolare eseguita sommariamente nei riguardi dei più malefici membri del caduto regime. Non soltanto Igor e Alda e altri amici ma gli Alleati stessi dovrebbero capire ciò, capacitarsi che il nuovo governo sa quello che sta facendo, e aver pazienza4.

Per mantenere l’ordine pubblico, viene mobilitato l’esercito. Il giovane studente universitario Italo Calvino, chiamato alle armi come allievo ufficiale, in quei giorni scrive ai genitori, che si trovano a Sanremo, dal campo di Mercatale di Vernio. La compagnia attende ordini.

A quanto ci fanno capire noi saremmo adibiti al mantenimento dell’ordine pubblico. Secondo le solite voci che circolano rimarremmo qui ancora cinque o sei giorni; se entro questo tempo ci saranno ancora disordini a Firenze o in altre città dei dintorni – ci sono scioperi a Prato – ci manderebbero là; se no ci manderebbero a casa5.

Anche tra quei soldati, la notte del 25 luglio è stata entusiasmante:

La notizia del ritorno di Badoglio – allora si seppe solo quello – giunse al campo mentre dormivamo e tutti uscimmo dalle tende a cantare Fratelli d’Italia. Nelle altre giornate c’è stato più nervosismo e ansiosità che entusiasmo: una parte degli allievi cui l’educazione fascista ha tolto ogni aspirazione alla libertà, si trova triste e smarrita, impreparata com’è agli avvenimenti. Ci sono invece, esultanti, alcuni studenti dell’università di Pisa, appartenenti a partiti liberal-socialisti e comunisti. Ciononostante gli incidenti e i litigi sono irrilevanti, temperati come sono dalla divisa. Per ora non abbiamo che una aspirazione: tornare a casa.

4 B. Berenson, Echi e riflessioni (Diario 1941-1944), Mondadori, Milano 1950, pp. 137-138.

5 I. Calvino, Lettere 1940-1985, a cura di L. Baranelli, introduzione di C. Milanini, Mondadori,

La musica e le canzoni segnano quelle giornate. I canti e gli inni patriottici prendono un significato diverso oppure, per qualcuno, riprendono il valore che avevano prima di essere integrati nell’immaginario fascista. Soprattutto, si riprendono a cantare le canzoni di lotta e di opposizione al regime, prima fra tutte “Bandiera rossa”6. La

polizia, indifferente o poco reattiva ai cambi di regime e di clima politico, registra come al solito questi episodi. Sembra che ci sia una preoccupazione in particolare: anche i soldati cantano senza ritegno “Bandiera rossa”.

La prefettura di Firenze riferiva che episodi simili avevano cominciato a verificarsi sin dal 20 luglio:

in frazione S. Miniatello nel Comune di Montelupo Fiorentino, si è sparsa la voce che alcuni militari transitanti da colà verso mezzogiorno su cinque autocarri targati R. E., avevano cantato l’inno comunista «Bandiera rossa»7.

Lo stesso accade il 27 luglio tra Savona e Genova:

mentre una colonna di cinque autocarri carichi di alpini, transitava da Albissola diretta verso Genova, da militari montati sul terzo autocarro veniva cantata «Bandiera rossa». Non si è potuto accertare il reparto cui appartenevano detti militari. L’Autorità Militare è stata informata8.

Il primo agosto, a Torino, finisce in rissa l’alterco tra due caporali del I Reggimento Genio, di stanza in città, Felice Dezzato e Giovanni Ardizzone che cantavano “Bandiera rossa”, e i “civili che avevano loro imposto d’interrompere il canto”. I due soldati erano stati riconosciuti ubriachi, come regolarmente accadeva per aggiustare questi casi, e quindi ricondotti al loro reparto9.

6 “Bandiera rossa – ha scritto Cesare Bermani – è l’unico inno della classe operaia italiana che possa

considerarsi come un vero canto popolare di tradizione orale” (C. Bermani, La razionalizzazione del canto sociale. Le origini di “Bandiera rossa”, in Introduzione alla storia orale, a cura di Id., II, Esperienze di ricerca, pp. 147-176, la cit. a p. 147).

7 ACS, Ministero dell’Interno, PS 1943, b. 50, fasc. “Firenze”, nota firmata dal prefetto, Firenze, 3

agosto 1943.

8 Ivi, fasc. “Savona”, nota firmata dal prefetto, Savona, 3 agosto 1943.

9 Ivi, fasc. “Torino”, sottofasc. “Dezzato Felice fu Carlo e Ardizzone Giovanni”, nota firmata dal

I casi si moltiplicano, in ogni parte d’Italia: i soldati cantano “Bandiera rossa” per strada, a piedi, in bicicletta, nelle marce, nelle osterie, nelle caserme, nei treni tradotta. Tardo pomeriggio del 31 luglio, sosta allo scalo ferroviario di Bolzano: “alcuni militari 4 Reggimento Genio battaglione autieri, provenienti da Castello di Fiemme (Trento) su treno tradotta” intonano l’“inno sovversivo” “Bandiera rossa”10. Ad Arma di Taggia, i

carabinieri arrestano alcuni uomini che, richiamati alle armi, andavano al distretto militare di Savona cantando “Bandiera rossa” da un’auto pubblica11.

A Genova, addirittura in maggio era scoppiato un battibecco tra alcuni soldati che nella notte avevano attaccato il canto “Bandiera Rossa” e alcuni “civili” che affacciati alle finestre, dopo essere stati svegliati dai rumori, avevano intimato – o forse consigliato –: “Tacete ragazzi; svegliate la gente!”12. Segnalazioni di maggio anche dal

bresciano: due militari che rientrano a piedi ad Ospitaletto, si fermano a parlare due altri due “individui, montati su un’unica bicicletta, i quali cantavano ad alta voce «bandiera rossa trionferà»”13.

Sempre nel maggio ’43, Miro, il marito dell’Anna protagonista del romanzo di Carlo Cassola, Fausto e Anna, approfitta di qualche giorno per raggiunge la famiglia, sfollata in un paesino della montagna volterrana. I discorsi finiscono per girare intorno alla guerra, e sottovoce, perché il suocero fascista non senta, Miro rassicura Anna: la guerra finirà presto,

le raccontò che nel Nord erano avvenuti degli scioperi e che si aspettava da un momento all’altro lo scoppio della rivoluzione. Aggiunse che lì al Distretto i soldati erano tutti socialisti, e che in una camerata si erano messi a cantare Bandiera rossa, ed era stata fatta un’inchiesta, ma non era a approdata a nulla14.

Le segnalazioni della polizia confermano che i segni della crisi del regime e dell’esasperazione per la guerra si potevano ascoltare almeno dalla tarda primavera del

10 Ivi, fasc. “Bolzano”, sottofasc. “Militari 4 Reggimento Genio Battaglione autieri”, nota firmata dal

prefetto, Bolzano, 31 luglio 1943.

11 Ivi, fasc. “Imperia”, sottofasc. “Panizzi Pietro di Gio Batta ed altri”, nota firmata dal prefetto,

Imperia, 12 agosto 1943.

12 Ivi, fasc. “Genova”, sottofasc. “Soldati del III Reggimento Artiglieria Alpina – canto Bandiera

rossa”, nota datata 12 giugno 1943.

13 Ivi, fasc. “Brescia”, sottofasc. “Zogno Giulio ed altro”, nota firmata dal prefetto, Brescia, 10 giugno

1943.

14 C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, Torino 1952, pp. 187-188 (il passo non subirà modifiche nelle

1943. Il 29 maggio, a Malo (Vicenza), Pietro Fin “d’anni 20 ivi residente soldato furente esonero quale minatore, dopo aver accompagnato con la propria fisarmonica l’inno «Vincere» cantato da alcuni militari in licenza reduci dal fronte russo e riuniti predetto esercizio, pronunciava seguente frase: Ed ora cantiamo «perdere» […]”15.

Negli stessi giorni, a Trento, sei ragazzi della classe 1925 che avevano appena fatto la visita di leva rientravano cantando per la strada. Un ufficiale dei bersaglieri al comando di un reparto che andava per la stessa strada riconosce i versi «trecento lire si pigliavano, avanti popolo alla riscossa, bandiera rossa trionferà» e poi «Giovinezza, adesso che si canta Giovinezza, abbiamo debolezza». Altri cinque iscritti alla leva del 1925 furono sorpresi a cantare “avvinazzati”: «Mussolini ha perso l’intelletto perché chiama alle armi la classe 1925 che piscia ancora a letto»16.

Nel luglio 1943, nel vicentino, giovani uomini e giovani donne italiane solidarizzano con otto prigionieri sudafricani mandati a lavorare i campi. Cantano “canzonette anglo-americane e quelle popolari «Lili Marlen» e «La campagnola»”; i ragazzi del posto ci mettono l’accompagnamento di una chitarra e di una spinetta a fiato17.

In tutte le città italiane, l’annuncio dell’allontanamento di Mussolini fu seguito da manifestazioni simili – almeno nelle forme – a quelle che accadono a Firenze. Nei racconti di molti testimoni, sembra naturale che i cortei dovessero puntare alle carceri. In alcuni casi, la confusione favorì delle evasioni di massa. Tra le più importanti c’è quella dal carcere di Regina Coeli, a Roma, dove i detenuti comuni e politici si unirono ai tumulti in corso nelle vie circostanti, danneggiarono 139 celle e, aiutati anche dalla folla, riuscirono a fuggire in 1349: poco meno della metà dei reclusi. Anche il detenuto politico Lucio Lombardo Radice ricorda di aver avuto l’occasione di scappare: era uscito dal carcere, aveva trovato i suoi familiari nella folla, e spiegato la situazione a chi lo circondava. Poi però era rientrato a Regina Coeli per riprendere il suo posto nel comitato di autogestione formato assieme la sera prima insieme ad altri compagni, tra i

15 ACS, Ministero dell’Interno, PS 1943, b. 50, fasc. “Vicenza”, sottofasc. “Fin Pietro di Giacomo”,

nota firmata dal prefetto, Vicenza, 4 giugno 1943.

16 Ivi, fasc. “Trento”, sottofasc. “Gruppo iscritti leva classe 1925 – canto inni sovversivi”, nota firmata

dal prefetto, Trento, s d.; l’episodio avvenne il 20 maggio 1943.

17 Ivi, fasc. “Vicenza”, sottofasc. “Signorini Bruno di Italo ed altro”, nota firmata dal prefetto,

quali Ernesto Rossi e Mario Alicata. Il comitato attendeva la liberazione “legale”, ossia che le autorità emanassero un provvedimento di scarcerazione per i “politici”.

Rossi uscì il 30 luglio. Lo venne a prendere il compagno Eugenio Colorni che la notte del 25 aveva improvvisato un comizio in piazza Venezia e – ricorda Rossi – aveva cercato di spingere la folla a “impossessarsi del palazzo del capo del governo, per impedire che venissero trafugati i documenti che in esso certamente si conservavano. Non vi riuscì perché venne a mancare la luce”.

Quando, cinque giorni dopo, mi venne a prendere alla uscita del carcere di Regina Coeli, mi mostrò ridendo il distintivo fascista che aveva portato all’occhiello per tutti i mesi che aveva circolato illegalmente per Roma. «Sono ormai anch’io – mi disse – un fascista onorario»18.

Rossi venne arrestato di nuovo solo poche ore dopo, in una retata contro un giornale clandestino, ma riuscì a convincere la polizia che c’era stato un equivoco; venne rilasciato subito19. Alicata lasciò il carcere il 6 agosto, dopo un supplemento

d’attesa che l’aveva snervato: “Non capisco proprio questo ritardo nelle nostre pratiche di scarcerazione, e soprattutto non capisco questo dire e non dire, questo fare e non fare da parte dell’autorità”, scrisse in una lettera di qualche giorno prima. E proseguiva:

L’impazienza aumenta perché ci si sente abbandonati dall’opinione pubblica: perché i giornali non denunciano il fatto che alle promesse ripetute ufficialmente già una settimana fa, niente di concreto è seguito?

È giorni e giorni che da Regina Coeli escono truffatori, ladri, ecc. e non esce

nessun politico.

Questa, concluse, è “una offesa per tutto il popolo italiano”20.

A Milano, Pietro Ingrao fu tra gli oratori di un comizio improvvisato a Porta Venezia, il pomeriggio del 26 luglio. Poche ore prima, si era ritrovato insieme ad altre

18 E. Rossi, Eugenio Colorni, “L’Avvenire dei lavoratori”, quindicinale socialista di Zurigo, 15 luglio

1944, ora in Un democratico ribelle. Cospirazione antifascista, carcere, confino, scritti e testimonianze a cura di G. Armani, Guanda, Parma 1975, pp. 187-192, le cit. a pp. 190-191.

19 Si veda il ricordo di Ada Rossi, moglie di Ernesto: Vita con Ernesto, in Rossi, Un democratico

migliaia di persone davanti al carcere di San Vittore; poi tutti, in corteo, si erano mossi verso il centro, raccogliendo altri manifestanti sul percorso: a Porta Venezia “eravamo già un mare”.

Non ricordo se il comizio era già finito quando spuntarono i carri armati. Da principio la folla non capì. Si levarono applausi, grida: pace, pace, abbasso il fascismo! Dietro la lunga colonna dei carri armati era la truppa, che veniva a disperdere la manifestazione.

Dopo uno stallo durato un tempo indefinito, la soluzione venne da una donna, Anna Gentili Cazzuoli: “Si staccò dalla massa, corse verso un carro armato che era fermo nel centro della strada, con un atto deciso, diretto, si arrampicò su di esso. Fu il segnale”. A quel punto la folla si rovesciò sui carri armati, li circondò, fece uscire i soldati e si confuse con loro. La truppa abbandonò la piazza. Nella notte intervennero i carabinieri, a casa di Elio Vittorini: portarono via il padrone di casa e altri due compagni, “individuati come coloro che avevano affittato l’auto e i microfoni per il comizio di Porta Venezia”21.

Insomma, il 26 luglio 1943 non tutti furono scarcerati, e gli arresti continuarono, sia per reati comuni che per reati politici. Dopo la liberazione, il giornale anarchico “Umanità nova”, che aveva ripreso le pubblicazioni a Firenze su iniziativa del tipografo Lato Latini, denunciò spesso quando accaduto nell’estate del 1943: “Badoglio non liberò gli anarchici, bensì li mandò al campo di concentramento”. Molti erano stati internati nel campo di Ranicci d’Anghiari (Arezzo)22.

20 M. Alicata, Lettere e taccuini di Regina Coeli, prefazione di G. Amendola, introduzione di A.

Vittoria, Einaudi, Torino 1977, pp. 180-182.

21 Cfr. P. Ingrao, Parlai dal tetto dell’auto, “Vie Nuove”, 28 febbraio 1963, parzialmente ripubblicato

in Vittorini, I libri, la città, il mondo cit., pp. 249-250.

22 Cfr. Un episodio al tempo di Badoglio, “Umanità nova”, a. IV, n. 345, 24 settembre 1944; si veda

anche il volume La Resistenza sconosciuta. Gli anarchici e la lotta contro il fascismo. I giornali anarchici clandestini 1943-1945, Edizioni Zero in Condotta, Milano 1995, che contiene anche una ristampa anastatica dell’edizione fiorentina di “Umanità nova”.

2. Carlo Levi è libero

Scalpiccio, battimani, voci che diventano canto: la sera del 25 luglio Levi è svegliato “nel primo sonno (in carcere ci si deve addormentare presto)”.

Tutti i rumori, anche i più comuni e insignificanti, sembrano importantissimi in prigione, in quello strano mondo dove il prigioniero isolato è costretto al silenzio e quasi a dimenticarsi del suono della voce; e per il quale perciò ogni suono, ogni voce, anche la più lontana e confusa, evoca una immagine, e acquista il rilievo dell’attenzione, dell’attesa, della immaginazione.

La sorpresa è tale da non rendersi conto che si tratta di una folla che si avvicina al