Sommario: 3.1 Il padre lavoratore. – 3.1.1 Dalla famiglia patriarcale al congedo di paternità. – 3.1.2 L’evoluzione verso la condivisione della responsabilità. – 3.2 La direttiva 96/34/CEE. – 3.3 I congedi e il padre lavoratore. – 3.3.1 Dall’astensione facoltativa al congedo parentale. – 3.3.2 La legge n. 53/2000. – 3.3.3 Il T.U. n. 151/2001. – 3.3.4 Genitori adottivi e affidatari. - 3.4 Gli interventi più recenti. – 3.4.1 La riforma Fornero. – 3.4.2 I voucher baby-sitting. – 3.4.3 Il Jobs Act. - 3.5 La giurisprudenza comunitaria. – 3.6 I padri lavoratori autonomi e liberi professionisti.
3.1 Il padre lavoratore.
3.1.1 Dalla famiglia patriarcale al congedo di paternità.
Le politiche italiane, riferite alla maternità ed alla paternità, hanno conosciuto negli anni uno sviluppo diversificato. In passato, l’uomo, nelle vesti di marito e padre, rappresentava la figura del capo famiglia, principale responsabile del reddito familiare. Le prime politiche sociali rivolte alla famiglia risalivano al regime fascista, con la previsione dell’erogazione di premi di natalità e assegni familiari che, per la prima volta, riconoscevano il costo dei figli come gravoso sul nucleo famigliare. Questo primo riconoscimento, tuttavia, consisteva in un’erogazione monetaria principalmente rivolta ai padri e, in alternativa, alle madri nubili (solo per finalità demografiche). Inoltre, il godimento di un periodo di assenza per maternità e della relativa indennità spettavano solo a limitate categorie di lavoratrici, escludendo quelle dedite all’agricoltura, al lavoro a domicilio ed alle attività domestiche254.
Il matrimonio era il principale mezzo di allocazione delle responsabilità familiari che, per lo più, erano di competenza femminile, mentre all’uomo spettava svolgere il lavoro retribuito. Già all’epoca, si notavano delle incongruenze: mentre una
254 C. Saraceno – M. Naldini, Mutamento della famiglia e delle politiche sociali in Italia, 2003, p.
91
moglie occupata poteva in ogni caso far diminuire le ore di lavoro del marito, alleggerendolo dalla necessità di ricercare una seconda occupazione, l’uomo continuava comunque ad essere poco collaborativo nel contesto familiare, probabilmente influenzato dall’ideologia di genere diffusa in quegli anni255.
Difatti, almeno fino agli anni 50, lo svolgimento di attività extradomestiche da parte delle donne era cosa piuttosto limitata, specialmente se si trattava di mansioni che richiedevano alte qualifiche. In aggiunta, nonostante un primo sviluppo di politiche rivolte alle condizioni della madre lavoratrice, la tutela si dimostrava essere ambivalente: pur adottando misure a sostegno della maternità, accrescevano la visione secondo cui il ruolo della donna era in maniera imprescindibile anche quello della moglie e della madre256.
Con il passare del tempo, il tema delle responsabilità familiari è divenuto centrale, portando all’approvazione di politiche sociali più innovative. Questo passaggio in Italia non è stato così immediato: la nostra società si basava su un diffuso modello solidale caratterizzato da rapporti di dipendenza all’interno della famiglia, sulla base di legami intergenerazionali257; inoltre, soprattutto in passato, la diffusione dei
servizi pubblici era piuttosto limitata, pur rappresentando da sempre un valido strumento per alleviare il carico di cura delle madri. Anzi, in alcune aree del Paese, si è assistito ad un fenomeno di “deresponsabilizzazione pubblica”, senza contare che l’accesso a questi servizi richiedeva alle madri uno sforzo di adattamento (riguardo ai tempi ed alle modalità previste). Tendenzialmente allora, l’accudimento dei bambini da 0 a 3 anni era ancora di esclusiva competenza delle madri258.
Basti pensare che, fino al 1971, nel caso di un numero di lavoratrici coniugate superiore a 30, le aziende avevano l’obbligo di istituire delle camere di allattamento e asili nido: sicuramente questa previsione aveva l’intento di supportare la maternità ma, allo stesso tempo, sembrava disincentivare fortemente l’assunzione delle
255 C. Saraceno- M. Naldini, op. cit., 2003, p. 72. 256 C. Saraceno- M. Naldini, op. cit., 2003, p. 75.
257 M. Naldini, Le politiche sociali e la famiglia nei Paesi mediterranei. Prospettive di analisi
comparata in Stato e mercato 2002, fascicolo 1, p. 87-88.
92
donne, soprattutto nelle piccole-medie imprese; questo contribuiva ancora una volta a rafforzare l’idea che i figli fossero una responsabilità della madre e non del padre. Allora, la distribuzione del lavoro di cura nella famiglia italiana appariva ancora fortemente influenzata dagli stereotipi di genere e, questo, ha trovato riscontro anche nei primi studi259 condotti a partire dagli anni 80, preceduti da ricerche di carattere locale dei movimenti femministi, secondo cui l’ impegno dei padri nell’accudimento dei figli era piuttosto limitato e sembrava aumentare solo nei casi di separazione, come conseguenza della volontà di non voler interrompere i legami con i propri bambini260. La situazione non sembrava migliorare quando la donna lavorava e, questo, ha trovato conferme anche nella successiva Indagine Multiscopo del 1987-1991261.
L’avvento della Repubblica aveva comunque introdotto delle innovazioni rispetto al passato: sono stati eliminati tutti gli ostacoli che limitavano l’accesso al lavoro da parte delle donne e hanno cominciato a ritenersi illegittimi discriminazioni e licenziamenti a causa di matrimonio, gravidanza o maternità. Tuttavia nelle aziende, a volte, non sono mancate scelte tese a favorire il lavoro dei padri: laddove ci fosse stato bisogno di collocare dei dipendenti in cassa integrazione, ad esempio, un padre di famiglia sarebbe comunque stato scelto a seguito dei lavoratori celibi e delle donne, trascurando il fatto che anche lo stipendio ricevuto dalle madri poteva essere un mezzo di sostentamento per la famiglia262.
“Conciliare” ha assunto un diverso significato nel tempo: all’inizio degli anni 70’ corrispondeva al prendere atto che le lavoratrici, su cui gravavano anche le responsabilità familiari, potevano essere soggette a discriminazioni sul lavoro in virtù del loro doppio ruolo; dal 1975, con la diffusione della “teoria della conciliazione dei ruoli” in Europa, si è cominciato a parlare di condivisione che,
259 In riferimento ai primi dati ufficiali italiani del 1983 ed alla prima Indagine sulle strutture e i
comportamenti familiari dell’Istat (1985). C. Saraceno- M. Naldini, op. cit., p. 71.
260 C. Saraceno- M. Naldini, op. cit., 2003, p. 71.
261 Indagine che studiava i comportamenti dei componenti della famiglia, i cui dati sono stati
utilizzati poi per una successiva ricerca dell’Istat nel 1993; i risultati evidenziavano che una donna, sposata ed occupata, lavorava in media un mese in più all’anno rispetto al proprio marito. C. Saraceno- M. Naldini, op. cit., 2003, p.72.
93
alla luce del principio di uguaglianza, comprendeva sia i diritti che le responsabilità di ambo i genitori, cercando di eliminare ogni forma di discriminazione263.
Queste nuove politiche prendevano in considerazione anche i mutamenti demografici, lo sviluppo economico, la stabilità dell’occupazione e della famiglia nel tempo. Era chiara l’influenza reciproca tra le politiche della famiglia e quelle del lavoro264.
È venuta meno così la figura del capofamiglia destinatario delle tutele dirette e indirette rivolte ai familiari: se inizialmente, in virtù di un rapporto subordinato, gli spettavano provvidenze economiche e previdenziali di cui beneficiavano anche gli altri familiari, con le politiche di conciliazione, attraverso il coinvolgimento di altri soggetti, questo sistema è mutato. Il passaggio fu progressivo: dapprima si è assistito alla diffusione di misure rivolte alle madri che, a seguito di una loro rinuncia, potevano essere estese anche ai padri; poi si è passati alla diffusione di politiche di ridistribuzione: le nuove normative regolavano al meglio gli orari di lavoro, consentendo un maggiore equilibrio tra lavoro retribuito e lavoro di cura per ambo i sessi265. L’obiettivo era quello di realizzare la conciliazione tra la vita privata
e il lavoro in virtù del principio di uguaglianza sostanziale; da qui, il riconoscimento della funzione e della tutela della paternità nel contesto europeo e nazionale, secondo una concezione polisenso:
- la paternità in senso stretto, riconoscendo al padre un diritto intrasferibile ad assentarsi (previsto dall’ art 28 del T.U n. 151/2001);
- la paternità in senso lato, compresa in un progetto di cura parentale (così come previsto dalla direttiva 96/34/CEE e dall’art. 32 del T.U n. 151/2001). In entrambi i casi si attribuivano al padre dei diritti potestativi266.
Nonostante questo, le donne italiane spesso continuano ad abbandonare il lavoro alla nascita del primo figlio: in realtà si tratta tendenzialmente di una scelta provvisoria ma, gli orari di lavoro in concreto poco amichevoli, la scarsa diffusione
263 L. Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004, p. 253.
264 C. Saraceno, Politiche del lavoro e politiche della famiglia: un’alleanza lunga e problematica in
Lav. e dir. 2001, fascicolo 1, p. 39-42.
265 D. Gottardi, Lavoro di cura. Spunti di riflessione in Lav. e dir. 2001, fascicolo 1, p. 122-123. 266 L. Calafà, Paternità e lavoro, Bologna, 2007, p. 27-28.
94
dei servizi e l’aumento delle responsabilità familiari rendono difficile il mantenimento del posto di lavoro267.
3.1.2 L’evoluzione verso la condivisione della responsabilità.
I cambiamenti sociali, senza dubbio, implicano dei processi di trasformazione nell’ambito del diritto: il superamento del vecchio sistema di welfare attento alla sicurezza ed alla protezione sociale, la tutela dei diritti di cittadinanza e l’evoluzione del diritto di famiglia in un’ottica egualitaria tra uomini e donne, hanno contribuito ad abbandonare il vecchio stereotipo della donna casalinga e madre. Questa spinta innovativa ha fatto sì che le donne ricercassero una maggiore autonomia, innalzando il loro livello di istruzione e aumentando la loro presenza nel mondo del lavoro. A partire dagli anni 70’, si è sviluppato allora il modello della <<doppia presenza>>, così come teorizzato da Balbo: l’uomo e la donna erano entrambi occupati nel mercato del lavoro e si prospettava una nuova concezione del rapporto tra carriera professionale e vita familiare268.
Con la successiva diffusione dei lavori atipici e una maggiore flessibilità nell’organizzazione del lavoro e nei contratti, si è avuto il superamento del vecchio modello fordista e si è assistito ad un netto aumento della domanda di lavoro da parte delle donne269.
A seguito della riforma sul diritto di famiglia del 1975270, cominciò a svilupparsi l’idea di una piena parità e responsabilità dei genitori nell’accudire ed educare i figli. Affinché questo potesse realizzarsi, occorreva una ridistribuzione dei compiti familiari nella coppia genitoriale: si prospettava allora la possibilità di mettere a disposizione del padre alcuni strumenti giuridici nati per favorire la conciliazione vita-lavoro della madre. Attribuire tali benefici ai padri significava superare l’idea
267 C. Saraceno, La conciliazione di responsabilità familiari e attività lavorative in Italia: paradossi
ed equilibri imperfetti in Polis 2003, fascicolo 2, p. 207-208.
268 L. Calafà, Paternità e lavoro, Bologna, 2007, p. 260-261. 269 L. Calafà, op. cit., 2007, p. 261.
270 In riferimento alle leggi n. 39 e n. 151 del 1975 che apportarono delle modifiche sostanziali al
diritto di famiglia italiano prevedendo, inoltre, pari responsabilità genitoriali ed uguaglianza tra i coniugi.
95
di un rapporto naturale e indispensabile tra la madre e il bambino, senza comportare per loro particolari sacrifici, rendendo in ogni caso meno oneroso il lavoro femminile271.
Secondo Paola Di Nicola272, la condivisione delle responsabilità familiari tra padri e madri poteva svilupparsi come:
- un’alternativa al mercato del lavoro, assimilando le attività di cura ad un lavoro retribuito e professionale, senza superare la divisione dei ruoli in base al sesso.
- una compresenza al mercato del lavoro, promuovendo lo sviluppo di nuove politiche sui tempi della prestazione, rivolte sia agli uomini che alle donne. In un Paese come il nostro, dove era piuttosto diffuso il modello male
breadwinner273, si è scelto di seguire, sotto l’influenza dell’Unione Europea, la
seconda opzione: le politiche cominciarono così ad essere rivolte ad entrambi i sessi, vedendo innanzitutto l’estensione di alcuni istituti ai padri e poi l’attribuzione dei congedi, volti a favorire una migliore organizzazione tra la famiglia e il lavoro274.
Un primo passo verso la condivisione lo si individua all’art. 7 della legge n. 903/77: al padre lavoratore, anche se adottivo o affidatario, si riconosceva la possibilità di usufruire dell’astensione facoltativa e dei permessi per malattia del bambino, sia in alternativa alla madre lavoratrice subordinata, sia quando i figli erano affidati al padre. L’accudimento del bambino, almeno nei primi tre mesi di vita, rimaneva compito esclusivo della madre e, solo a seguito di una sua rinuncia, i diritti spettavano al padre che, secondo quanto previsto dai commi 2 e 3 del suddetto articolo, doveva presentare al datore due dichiarazioni:
- la rinuncia esplicita della madre;
271 R. Del Punta, Il codice civile “commentario” artt. 2110-2111, la sospensione del rapporto di
lavoro. Malattia, infortunio, maternità, servizio militare, Milano, 1992, p. 743-744.
272 L. Calafà, op. cit., 2007, p.265.
273 Modello principalmente diffuso in passato nei Paesi Mediterranei, caratterizzato da una rigida
divisione dei ruoli nel nucleo famigliare, in cui, sul presupposto della piena occupazione maschile, le donne erano le principali responsabili del lavoro di cura.
96
- l’attestazione da parte del datore di lavoro dell’avvenuta rinuncia della donna, entro 10 giorni.
Questo non precludeva comunque al padre la possibilità di presentare al datore ulteriori requisiti al fine del godimento del diritto. Inoltre, l’accesso del padre ai riposi giornalieri ha comportato il superamento di quelle concezioni che li vedevano da sempre legati ad esigenze fisiologiche, come l’allattamento, rendendoli così complementari all’esercizio dell’astensione facoltativa275.
L’estensione comprendeva sia il formale affidamento al padre, sia quello conseguente al decesso o alla grave infermità della madre, facendo così l’interesse esclusivo del bambino abbandonato276.
L’ipotesi di un maggiore coinvolgimento dei padri nelle attività di cura è stata rafforzata da due sentenze successive della Corte costituzionale:
- la sentenza n. 1/1987 che si è occupata di operare un’estensione verso il padre per i casi di decesso e infermità della madre: sulla base di alcuni articoli277 della Costituzione, è stato dichiarato illegittimo l’art. 7 della legge
n. 903/77, nella parte in cui escludeva l’astensione obbligatoria e i riposi giornalieri a favore del padre lavoratore, nell’eventualità di un decesso della madre o una grave infermità certificata. Secondo la Corte, invece, l’estensione ai padri era necessaria, anche nei casi in cui la madre non era una lavoratrice subordinata, così come riportato da una successiva ordinanza correttiva che ha sostituito il riferimento alla lavoratrice madre con <<madre lavoratrice o meno>>278.
- la sentenza n. 341 del 1991 che ha riconosciuto il diritto all’astensione obbligatoria del padre in caso di rinuncia della madre: la Corte ha ritenuto illegittimo l’art. 7 comma 1 nella parte in cui non permetteva al padre, affidatario provvisorio del minore, di godere, in alternativa alla moglie,
275 R. Del Punta, op. cit., 1992, p. 745-746. 276 R. Del Punta, op. cit., 1992, p. 749.
277 Artt.: 3 (principio di uguaglianza), 29 comma 1 (la famiglia, in quanto società naturale fondata
sul matrimonio, richiede anche un dovere di assistenza tra i coniugi), 30 comma 1 (dovere e diritto dei genitori di istruire ed educare i figli), 31 (sostegno alla genitorialità), 37 comma 1 (parità di retribuzione tra uomini e donne).
97
dell’astensione obbligatoria nei 3 mesi successivi all’ingresso del bambino in famiglia. Si prospettava allora la promozione di una partecipazione paritetica di entrambi i coniugi alla cura ed all’ educazione dei bambini279.
Queste sentenze, assumendo carattere additivo, inevitabilmente hanno contribuito ad influenzare lo sviluppo delle successive politiche di conciliazione. Tuttavia, il primo mutamento della posizione giuridica del padre lavoratore lo si è avuto con la legge n. 53/2000, attraverso il riconoscimento di un diritto autonomo ed intrasferibile al godimento di un congedo parentale280, in attuazione della direttiva 96/34/CEE. Secondo il legislatore italiano, l’unico limite all’esercizio di questo diritto era l’onere di preavviso al datore; quest’ultimo poteva al massimo rinviarne il godimento per esigenze attinenti all’attività di impresa.
Questa previsione ha segnato definitivamente il superamento delle misure che tutelavano le esigenze biologiche e fisiologiche legate alla maternità (tipiche della legislazione degli anni 70), attraverso una rivalutazione del ruolo paterno, con il solo fine di tutelare l’interesse del bambino. La successiva Circolare n. 109/2000 dell’INPS ha poi chiarito che << il padre e la madre possono utilizzare l’astensione facoltativa anche contemporaneamente>> e che <<il padre la può utilizzare anche durante i primi tre mesi di astensione obbligatoria post-partum della madre>> ed anche <<durante i periodi nei quali la madre beneficia dei riposi ex art. 10 della legge n. 1204 del 1971>>281.
Inoltre, nel successivo T.U. n 151/2001, all’art. 28, è stata riconosciuta al padre la possibilità di astenersi dal lavoro non solo nei tre mesi successivi al parto, ma per tutta la durata del congedo spettante alla madre, nel caso in cui questa sia impossibilitata ad assistere il figlio. Tuttavia, ancora una volta, il ruolo del padre appariva sussidiario rispetto a quello della madre che continuava ad essere tendenzialmente insostituibile nei primi mesi di vita del bambino282.
In realtà, il congedo di paternità avrebbe dovuto trovare ragione nel bisogno di cura del minore e quest’idea, a seguito di un aumento nell’offerta dei servizi e di una
279 R. Del Punta, op. cit., 1992, p. 755-756.
280 M. Miscione (a cura di), I congedi parentali, 2001, p. 40. 281 L. Calafà, Congedi e rapporto di lavoro, Padova, 2004, p. 85. 282 L. Calafà, op. cit. 2004, p. 85-87.
98
rinnovata attenzione all’attività di cura, ha portato all’affermazione di nuovi valori nella cultura giuslavoristica283.
Da qui, il riconoscimento con la legge n. 92/2012 di un vero e proprio congedo di paternità, comprensivo di un giorno di astensione obbligatoria e della possibilità di ulteriori due giorni di astensione facoltativa, in sostituzione alla madre, nei cinque mesi successivi al parto. Seppur la previsione appariva minima, questa si estendeva anche agli anni successivi, fino al 2015284. Nel 2016, infatti, attraverso la legge di stabilità285, il congedo di paternità è stato prorogato prevedendo inoltre due giorni di astensione obbligatoria. Infine, la legge di bilancio del 2017286 ha ulteriormente prorogato questa possibilità, estendendola anche ai padri adottivi e affidatari ed ha previsto, per l’anno solare 2018, un congedo di paternità della durata di 5 giorni, di cui 4 obbligatori ed uno facoltativo.
3.2 La direttiva 96/34/CEE.
La direttiva 96/34/CEE, emanata il 3 giugno del 1996, dava attuazione all’Accordo quadro europeo sul congedo parentale, concluso il 14 dicembre 1995.
Quest’accordo era frutto di una maggiore attenzione del diritto comunitario alla conciliazione tra i tempi di vita e di lavoro e ha visto la partecipazione delle maggiori organizzazioni interprofessionali europee:
- UNICE per le imprese del settore privato; - CEEP per le imprese del settore pubblico; - CES per i lavoratori;
La previsione mirava ad un’azione comunitaria tesa alla conciliazione della vita familiare con quella lavorativa, favorendo sia gli uomini che le donne attraverso
283 L. Calafà in D. Gottardi, Conciliazione delle esigenze di cura, vita e di lavoro, Torino, 2016, p.
42.
284 D. Gottardi, Maternità e paternità per la riforma Fornero in Il lavoro nella giurisprudenza 2012,
n.10, p. 973.
285 In riferimento alla Legge n. 208/2015. 286 In riferimento alla Legge n. 232/2016.
99
una ripartizione più equa delle responsabilità genitoriali e una ridistribuzione del lavoro di cura287.
Il principio cardine della divisione delle responsabilità familiari e professionalitra gli uomini e le donne era stato già individuato, precedentemente, dalla Raccomandazione del Consiglio sulla custodia dei bambini n. 92/241/CEE288: l’obiettivo era incoraggiare gli uomini a svolgere il lavoro di cura, assicurando una ripartizione più equa e una presenza maggiore delle donne nel mercato del lavoro; inoltre i congedi erano considerati veri e propri diritti sociali289.
Su questa linea allora, la direttiva 96/34 rappresentava un incentivo alla redistribuzione del lavoro di cura nella coppia genitoriale.
Questa direttiva disciplinava i congedi parentali individuando290: - la forma temporale del congedo;
- le condizioni di accesso;
- le conseguenze della naturalità o meno dell’evento; - le determinazioni di utilizzo;
- i limiti;
- la flessibilizzazione per le piccole imprese.
Innanzitutto si distinguevano i congedi di maternità, connessi all’evento della nascita e volti alla tutela della salute della madre e del bambino, e i congedi
287 R. Nunin in M. Miscione (a cura di), I congedi parentali, Milano, 2001, p. 13.
288 Il documento attuava le previsioni della Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei
lavoratori del 1989; in particolare, all’art. 16, terzo comma, prevedeva, l’opportunità «di sviluppare misure che consentano agli uomini ed alle donne di conciliare meglio i loro obblighi professionali e familiari». Gli Stati erano chiamati ad intervenire in quattro settori: a) l’organizzazione di servizi di custodia di bambini quando i genitori lavorano; b) la concessione di congedi speciali ai genitori che lavorano e sono responsabili della custodia dei bambini; c) l’adozione di misure in materia di ambiente, strutture ed organizzazione del lavoro tali da adeguare questi ultimi alle esigenze dei lavoratori con figli; d) la divisione fra uomini e donne delle responsabilità professionali e di quelle familiari e di educazione risultanti dalla custodia di bambini.
289 R. Nunin, in op. cit., 2001, p. 15.
100
parentali, attribuiti sia alla madre che al padre per assicurare l’assistenza e le cure necessarie alla crescita del bambino291.
Il congedo parentale era riconosciuto come un diritto individuale e non trasferibile