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lavoro in équipes

te importanza attribuita al fattore collettivo dalle diver­ se ideologie politiche ha con­ dotto gli educatori a svilup­ pare la vita sociale nella classe, tanto che il lavoro in équipes trova oggi realizza­ tori appartenenti ai regimi più diversi, per opposti che siano in apparenza.

D ’altra parte, con sor­ prendente coincidenza, colo­ ro che in pratica si preoccu­ pano di rispettare l’attività spontanea del bambino e di modellare i metodi della pe­ dagogia sui dati della psico­ logia infantile, sono stati condotti anch’essi all’idea del lavoro in équipes, perché il bambino, giunto ad un certo grado di sviluppo, ten­ de da sé alla vita collettiva ed al lavoro in comune. Si può dire dunque che il fio ­ rire dei sistemi di lavoro in équipes — i quali, è da no­ tarsi, sono nati indipenden­ temente, in buona parte, gli uni dagli altri — è dovuto alla congiunzione dei fa tto ­ ri sociologici relativi allo adulto e dai fa ttori psico­ logici relativi al bambino.

Sono questi ultimi che l ’A. vorrebbe analizzare breve­ mente. Dopo aver rilevato le principali relazioni psi­ cologiche in gioco nel lavo­ ro in équipes, cercherà di mostrare in che cosa questi meccanismi spieghino i risul­ tati del metodo.

L ’A . enuncia quali sono i compiti che la scuola per lungo- tempo si è proposta, cioè di « trasmettere al bam­ bino le conoscenze acquisite dalle generazioni preceden­ ti,... ammobiliare la sua me­ moria e avviare l’allievo al­ la ginnastica intellettuale »,

per il fatto che la struttura mentale del bambino era considerata come identica a quella dell’uomo fatto e per­ ciò bisognosa soltanto di es­ sere esercitata. In una s if­ fatta concezione l’unica re­ lazione sociale indispensabi­ le è quella che intercorre fra il maestro e gli allievi, men­ tre « ogni contatto intellet­ tuale dei bambini tra loro non comporta che perdita di tempo e rischi di deforma­ zioni o di errori ».

Ma tre tipi di osservazioni sono venuti a complicare questa visione semplicista dei compiti dell’insegnamen­ to e della educazione intel­ lettuale, e ad imporre nello stesso tempo la necessità di collaborazione degli allievi tra loro.

La prima osservazione ri­ guarda la difficoltà per il maestro « di farsi compren­ dere dagli allievi ». Un simi­ le problema si era fatto già sentire quando a ll’insegna­ mento individuale del Medio­ evo succedette l’insegnamen­ to simultaneo, ossia impar­ tito a classi numerose di coe­ tanei ; sorsero allora i moni­ tori nel « mutuo insegna­ mento » di Bell e Lancaster.

Tuttavia con la psicologia sperimentale si è veramen­ te compresa la portata del problema. Il bambino non è un essere passivo di cui si debba riempire il cervello, ma un essere attivo, la cui ricerca spontanea ha biso­ gno di a lim e n t i. N e l l a « scuola attiva » la lezione, pur sussistendo, viene ad avere la funzione più mode­ sta di risposta alle domande che l’allievo si pone. Ma allo­ ra, nella misura in cui si fa posto al lavoro personale, sorgono il lavoro in comune e la formazione di gruppi,

perché solo la recezione pas­ siva suppone l’isolamento in­ tellettuale degli allievi, men­ tre la ricerca comporta la collaborazione e lo scambio. In secondo luogo ci si è accorti come la razionalità non è una qualità del pen­ siero innata nel bambino. L a logica costituisce una morale per il pensiero, vale a dire essa non consiste in meccanismi innati che si im­ pongono secondo un deter­ minismo i n e lu t t a b ile , ma piuttosto in regole che si propongono alla coscienza intellettuale e alle quali es­ sa può sottomettersi o op­ porsi. Il bisogno di prova e di verificazione, l’obietti­ vità nell’osservazione e nel­ l’esperienza, la coerenza fo r ­ male nelle osservazioni e nei ragionamenti, in breve la di­ sciplina sperimentale e de­ duttiva, ecco a l t r e t t a n t i ideali che il barnbino deve conseguire perché non li possiede fin da principio. Ora, basta l ’autorità del maestro ad imporli? Oppure essa si lim ita a sostituire una verità bella e fatta, cioè un mezzo errore, alla fan ­ tasia individuale, una etero­ nomia intellettuale alla ano- mia prim itiva? Qui si pone nuovamente il problema del lavoro in gruppi. In effetti, la verità, come ogni altro be­ ne morale, non si conquista che con il libero sforzo, ed il libero sforzo ha nel bam­ bino come condizione natu­ rale la collaborazione e lo aiuto reciproco.

Soprattutto infine ci si è resi conto — e questa terza osservazione completa neces­ sariamente le altre due — che la ragione implica un elemento sociale di coopera­ zione. Da un lato, lo studio delle società adulte ha mo­ strato ai sociologi quanto il vigore e le forze del pensie­ ro variino da un ambiente collettivo ad un altro. Ora è precisamente questo dato fondamentale della sociolo­ gia del pensiero che i pratici della pedagogia hanno

ritro-vato quando, dopo aver sta­ bilito che il bambino non è affa tto passivo ma attivo e che la ragione, lungi dal­ l’essere innata nell’indivi­ duo, si va formando a poco a poco, essi hanno scoperto che la vita del gruppo è lo ambiente naturale di questa attività intellettuale e la cooperazione lo strumento necessario alla formazione del pensiero razionale. Giun­ giamo così al vivo del pro­ blema. Se è esatto che la cooperazione è indispensabi­ le alla elaborazione della ra­ gione, il metodo del lavoro in équipe appare fondato sui meccanismi essenziali della psicologia del bambino. Di­ versamente esso non potreb­ be pretendere di costituire altro che un comodo ausilio per l ’azione del maestro sul­ l’allievo. Cerchiamo dunque di analizzare b r e v e m e n t e questa questione.

E g li crede opportuno a questo punto, per fa r com­ prendere cosa sia l’individuo indipendentemente dal grup­ po, dissipare l’equivoco cor­ rente, che «tu tte le grandi personalità per creare qual­ cosa di nuovo hanno dovuto lottare contro la collettività che tentava di soffocarle ». P er prima cosa la realtà so­ ciale che gli spiriti costrut­ tori hanno dovuto combatte­ re è stata « la costrizione dell’opinione e della tradi­ zione » e non la cooperazio­ ne, che « caratterizza la so­ cietà che si fa ed implica la reciprocità dei rapporti fra i lavoratori », mentre le pri­ me due non sono che « la cristallizzazione della società già costituita ».

D’altra parte la perso­ nalità non ha di per sé nien­ te d’opposto alle realtà so­ ciali, poiché, al contrario, essa costituisce il prodotto per eccellenza della coope­ razione. Per cogliere l ’indi­ viduale in ciò che esso pre­ senta di anteriore o di estra­ neo al sociale, è necessario cercarlo nell’io anarchico ed

egocentrico. L a personalità è al culmine della socializza­ zione.

L ’A . mette poi in eviden­ za tre punti, la compren­ sione dei quali è necessaria per giudicare i metodi del lavoro in équipes.

In primo luogo l ’indivi­ duo, chiuso in un primo mo­ mento nell’egocentrismo in­ cosciente che caratterizza la sua prospettiva iniziale, non scopre se stesso che nella misura in cui egli apprende a conoscere gli altri. È sor­ prendente come la coscienza di sé non sia un dato della psicologia individuale, ma c o s t it u is c a una conquista della condotta sociale.

Il bambino attua questa conoscenza di sé rapportan­ dosi agli altri sia sul piano fisico che su quello psicolo­ gico. Dal punto di vista dell’educazione intellettuale ciò significa dunque che la presa di coscienza del pro­ prio pensiero, con tutto quel­ lo che questo implica dal punto di vista della padro­ nanza di sé, è stimolata dal­ la cooperazione, mentre il semplice rapporto tra l ’ego­ centrismo mentale dell’allie­ vo e l ’autorità del maestro non basta a condurre l’indi­ viduo alla attività perso­ nale.

In secondo luogo, la coo­ perazione è necessaria per la conquista dell’obiettivi­ tà. In fa tti il bambino, non appena ha superato lo sta­ dio delle relazioni puramen­ te pratiche proprie dell’intel­ ligenza s e n s o r io - m o t r ic e

(prima del linguaggio), ten­ de subito a soddisfare il proprio io, « cioè a rimpiaz­ zare l’adattamento dei desi­ deri al reale con un’assimila­ zione del reale ai desideri. Di qui il gioco d’immagina­ zione, la tabulazione, 1 a pseudo-menzogna e tutte le form e infantili del pensiero, da cui è assente l’obietti­ vità, perché la loro funzione è la soddisfazione immediata degli interessi ».

Anche in seguito, quando il bambino cerca di com­ prendere la realtà, lo fa se­ condo schemi acquisiti nella fase precedente, schemi che intralciano la sua obietti­ vità. N ella cooperazione lo individuo comincia a vedere le cose anche dal punto di vista degli altri e così im­ para a rinunciare ai propri interessi in vista di una realtà comune; inoltre la cooperazione lo conduce « si­ no a quell’atteggiamento, proprio delle forme scienti­ fiche più semplici, che con­ siste nel dissociare il reale dalle illusioni antropocentri­ che ».

In terzo luogo, la coo­ perazione è essenzialmente fonte di regole per il pen­ siero. La logica costituisce in effetti un insieme di re­ gole e di norme. Ora queste regole non sono innate in quanto tali. I n f a t t i , dice l’A., qualche abbozzo di coe­ renza si nota anche nei pri­ mi anni di vita. Ma il fun­ zionamento individuale della intelligenza non è ancora normativo, nel senso che es­ so rimane semplicemente im­ manente ad ogni attività e può piegarsi ai bisogni più diversi senza costituire ob­ bligo di verità per il pensie­ ro. A l contrario, il pensiero razionale presenta questo di nuovo, che la sua coerenza ed i suoi sistemi di concetti e di relazioni obbligano l ’io e acquistano così un valore normativo capace di discipli­ narlo. Il passaggio dal pri­ mo al secondo di questi stati, si spiega con la socializza­ zione del pensiero correlati­ vo allo sviluppo, della ri­ flessione e dell’oggettività. Dal momento in cui si pensa in funzione di tutti e non più di se stessi soltanto, la coe­ renza richiesta non è più solamente quella unità orga­ nica di tendenza e di opera­ zioni che è il carattere spe­ cifico dell’intelligenza prati­ ca individuale, ma quella sorta di principio morale che è il principio di noncontrad­

dizione : necessità di rim a­ nere fedeli alle proprie a f­ fermazioni, di essere in ac­ cordo con se stessi nella discussione, insomma di es­ sere intellettualmente onesti nella condotta del pensiero. Del pari, per pensare in comune, è necessario che un sistema di concetti con d efi­ nizioni fisse, che costituisca­ no i significati convenuti dei termini del linguaggio, rim ­ piazzi necessariamente il si­ stema degli schemi pratici dell’azione : anche qui un in­ sieme di regole obbligatorie si sovrappone dunque alle a r t i c o l a z i o n i semplici del pensiero individuale.

Si vede così che la cqo- perazione non agisce soltan­ to sulla presa di coscienza dell’individuo e sul suo sen­ so dell’obiettività, ma per­ viene infine alla costituzio­ ne di una struttura norma­ tiva e completa senza dub­ bio il funzionamento della intelligenza individuale. Si può ben dire dunque, che la cooperazione è veramente creatrice, o, ciò che ha lo stesso significato, che essa costituisce la condizione in­ dispensabile al completamen­ to della ragione.

N ella seconda parte del­ l ’articolo, l’A . passa a con­ frontare i dati dell’inchiesta fa tta nelle scuole francesi dai suoi « corrispondenti » con i dati della psicologia del pensiero già richiamati.

Innnanzi tutto viene po­ sta la questione dell’età. La inchiesta dice che prima dei sette-otto anni i bambini hanno solo contatti superfi­ ciali con i loro coetanei; per­ ciò non si può ancora par­ lare di gruppi. Dagli otto ai dieci anni si nota una m ag­ giore tendenza a lavorare e a giocare insieme, ma la coo­ perazione e soprattutto il mutuo controllo non sono ta­ li da garantire Desistenza di una équipe durevole; tutta­ via le regole dei loro giochi si unificano almeno per la durata di una partita. È solo verso i dieci-undici an­

ni che il rispetto della regola conduce ad una cooperazione veramente completa. E ffe t ­ tivamente è a questa età che l’osservazione delle regole del gioco mostra un’inversio­ ne di senso quanto alla co­ scienza della regola, giacché questa cessa di essere una realtà esteriore per acqui­ stare il valore di un’obbli- gazione interiore ed autono­ ma. È l ’età in cui la vita collettiva si mostra insieme possibile e feconda, poiché i suoi progressi determinano quelli della ragione e sono di rimando determinati da essi.

L ’A., dopo aver notato il parallelismo tra i risultati della pratica e quelli della o s s e r v a z io n e psicologica, passa ad oservare il proble­ ma dei leaders. Secondo i collaboratori del P iaget che hanno condotto l’inchiesta, i bambini prima dei nove an­ ni accettano senza discutere la presenza di un capo, an­ che se imposto; è dopo gli undici-dodici anni che un capo si mantiene solo in gra ­ zia del suo prestigio e se non è impósto dal maestro.

Questo svilupparsi delle reazioni si spiega agevol­ mente in funzione dell’evolu­ zione sociale cui s’è prima accennato.

Basta, a questo riguardo, che si capisca come prima dello sbocciare della coope­ razione tra bambini, l’ego­ centrismo dei piccoli non è affatto incompatibile con la soggezione ai più grandi o agli adulti, e che questi due termini costituiscono al con­ trario i due poli di una stes­ sa realtà; rinlandando le re­ gole esterne all’io, vi è con­ temporaneamente sottomis­ sione esterna e persistenza di atteggiamenti propri di ciascuno. Quando invece la cooperazione si sviluppa, le regole si interiorizzano, gli individui collaborano vera­ mente e i capi non sono più riconosciuti a meno che non incarnino, per il loro valore

personale, l’ideale del grup­ po stesso.

Il problema dei capi con­ duce a quello dei diversi tipi di carattere; infatti l’A . no­ ta che in ogni classe vi sono allievi che presentano delle d i f f i c o l t à perché t im id i, chiusi in se stessi, instabili e agitati, poco o troppo do­ tati; su questi ragazzi quale è l’influenza esercitata dal gruppo e quale quella del maestro? Ognuno sa quan­ to sia malagevole per l’inse­ gnante dedicarsi compieta- mente a tutti, in una classe numerosa, e qual’è dunque il rischio per i deficienti di ogni genere di ancorarsi ad un atteggiamento che spesso persiste per tutto il periodo della scolarità.

Bisogna però arrendersi all’evidenza; quando si ana­ lizzano individualmente la maggior parte di questi casi di inadattati al lavoro sco­ lastico, risulta trattarsi qua­ si sempre di casi di inadat­ tamento sociale. Oppure, di fatto, il difetto dell’allievo dipende interamente da sen­ timenti ingiustificati di sfi­ ducia in se stesso, da quel famoso c o m p le s s o di infe­

rio rità descritto da Adler

e di cui i genitori, i fra ­ telli m aggiori o gli edu­ catori sono così spesso re­ sponsabili (1); o v v e r o si tratta di deficienze dipen­ denti dalla costituzione psi­ co-fisiologica del bambino, ma, anche in questo caso, mancanza di comprensione da parte dell’entourage e di confidenza da parte del sog­ getto vengono quasi sempre a complicare lo stato ini­ ziale. In breve, la grande maggioranza dei pigri, dei passivi, di quelli che si chia­ mano in blocco “ cattivi al­ lievi ” , sono dei dubbiosi e degli insoddisfatti, che una m iglior c o m p r e n s io n e da parte dell’ambiente

bastereb-(1) Cfr. Claparède, Le sentiment d’i n f é r i o r i t é .

« Cahiers de l’Institut des Sciences de l ’Education » , numéro 1, Ginevra.

be a trasformare. È in que­ sto che i sistemi pedagogici fondati sulla vita collettiva dei bambini stessi rivelano la loro specifica virtù. Mol­ to spesso, in e ffetti, il cat­ tivo allievo che non può ce­ dere davanti al m a e s tr o (perché l’amor proprio del bambino è impegnato, per­ ché il sentimento di inferio­ rità è sorto in funzione del­ l’adulto, o per qualunque al­ tra ragione), si trova così n a t u r a lm e n t e immesso in una équipe di lavoro, e le sue inibizioni spariscono a poco a poco. Non si ricorde­ rà mai abbastanza agli edu­ catori che è il successo, an­ che in parte fittizio, che guarisce i bambini come gli adulti dalle turbe della vo­ lontà, dell’attività lavorati­ va e, come conseguenza di queste, dell’attività intellet­ tuale stessa.

Naturalmente il succèsso è più facile in un gruppo di coetanei che in un rapporto con il maestro, e questi pic­ coli successi possono risul­ tare veramente salutari per questi tipi d’allievi.

Quanto agli allievi supe­ riori alla media, la nostra inchiesta ha sufficientemen­ te dimostrato le possibilità d’iniziativa e di sviluppo che o ffre loro il lavoro in équi- pes, perché sia utile insiste­ re ancora su di esse.

L ’A . viene ora alle que­ stioni fondamentali che i me­ todi del lavoro in équipes pongono dal punto di vista della formazione della ragio­ ne; l ’impiego di questi meto­ di favorisce effettivamente lo sviluppo intellettuale, e, in caso affermativo, questo può spiegarsi con i processi psi­ cologici ricordati nella pri­ ma parte dell’esposizione?

È molto malagevole ri­ spondere alla prima questio­ ne in modo preciso, isolando cioè sufficientemente i fa t­ tori in gioco. Di fatto è im­ possibile dissociare comple­ tamente gli e ffe tti della vita del gruppo, come tale, da quelli dei procedimenti di­

dattici in uso nelle scuole prese in considerazione.

Il lavoro in équipes è es­ senzialmente attivo, ossia de­ ve essere mosso da interessi reali e intrinseci al gruppo; ora, se noi imponiamo il la­ voro dal di fuori, volendo perseguire i fin i tradiziona­ li, cioè risolvere il m aggior numero possibile di problemi, preparare bene un esame se­ condo i dettami del mini­ stero, ricordare il m aggior numero di dati, certo non possiamo fa re un vero con­ fronto tra i risultati di un gruppo e quelli ottenuti con l ’organizzazione del lavoro individuale in una classe ben c o n d o t t a . Ma, n e l l a misura in cui l’ideale è fo r ­ mazione del pensiero e in cui il lavoro vero, cioè la ricerca personale o attività, è posta al disopra delle con­ dotte semplicemente recetti­ ve, la vita di gruppo è la condizione in d is p e n s a b ile perché l’attività individuale si disciplini e sfugga alla anarchia : il gruppo è, di volta in volta, lo stimolante e l ’organo del controllo.

Tuttavia si presentano su­ bito due obiezioni, intorno alle quali si è voluto cono­ scere il parere dei corrispon­ denti : le conoscenze acqui­ site sono altrettanto nume­ rose nel lavoro in équipes quanto in quello individuale, e non c’è forse il rischio per l ’allievo di levatura media di accogliere degli errori che si radicheranno nel suo cer­ vello? Se torniamo qui su questi due punti già discus­ si precedentemente, è perché la pratica delle prove psico­ logiche ci insegna a consi­ derare queste questioni da un punto di vista un po’ di­ verso da quello dei commis­

sari d’esame.

In fa tti per questi ultimi vengono c o n s id e r a t e come realmente acquisite tutte le notizie che gli allievi sono in grado di ricordare in sede d’esame, mentre le indagini hanno mostrato come dopo poco tempo ci sia un note­ vole calo nella cultura dei

ragazzi, e che le notizie che rimangono e che perciò sono da considerare come le sole veramente acquisite, siano quelle che corrispondono ai reali interessi degli allievi

Ciò che svanisce, al con­ trario, è ciò che è stato sem. plicemente ricevuto dal di fuori, ciò che è stato regi­ strato e memorizzato senza movente attivo, senza inte­ resse se non quello affa tto estrinseco di piegarsi al co­ stume scolastico o anche di superare l ’esame. Ora, se è facile per un commissario intelligente discernere gli individui capaci del primo di questi due tipi di attività, è impossibile durante l ’esa­ me stesso sapere se una ri­ sposta che testimonia una certa somma di conoscenze, ne implichi la solidità e la

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