fondamentale esperienza di rivista letteraria, «Campo di Marte», diretta da
Enrico Vallecchi
435e redatta da Alfonso Gatto
436e Vasco Pratolini, che pur
Bonsanti Bilenchi ha dedicato anche Grande Sandro, uno dei capitoli di Amici (Torino, Einaudi, 1976), nel quale rievoca l’inizio della loro amicizia, ma anche del sodalizio intellettuale, nato nei caffè letterari di Firenze (le Giubbe Rosse, Paszkowski e il Caffè San Marco). Riguardo alla collaborazione di Romano Bilenchi alle riviste e ai quotidiani, si rimanda alla bibliografia curata da Ernestina Pellegrini (Per una bibliografia di Romano Bilenchi, «Il Vieusseux», III, 8, maggio-agosto 1990, pp. 47-65), la quale ha individuato tre momenti fondamentali nella collaborazione di Romano Bilenchi alle riviste degli anni Cinquanta: Il primo (1931-1937) corrisponde alle collaborazioni a riviste e giornali di impostazione fascista («Il Selvaggio» di Mino Maccari, «Universale» di Berto Ricci, «Il Bargello» di Alessandro Pavolini, «Critica fascista» di Giuseppe Bottai), il secondo (1935-1940), corrispondente anche alla stesura di Anna e Bruno (Firenze, Parenti, 1938) e Siccità (Firenze, Edizioni di Rivoluzione, 1941), coincide con la partecipazione alle riviste postsolariane («Circoli» e «Letteratura») e ermetiche («Campo di Marte»), oltre alla fedeltà a «Primato». L’ultima fase corrispose agli anni della guerra, dell’impegno antifascista e della militanza clandestina, durante i quali lavorando alla «Nazione del popolo» e poi dirigendo il «Nuovo Corriere» divenne uno dei protagonisti indiscussi del giornalismo democratico in Italia (nel 1945-1946 fondò inoltre «Società» e collaborò a «Letteratura», «La Nazione» e al «Corriere della Sera».
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Enrico Vallecchi (Firenze, 25 marzo 1902 – 4 gennaio 1990), affiancò il padre nella Casa editrice Vallecchi nella direzione della tipografia e nell’azienda editoriale poco dopo aver terminato gli studi secondari. Grazie all’amicizia con i principali protagonisti della nuova letteratura fiorita nel decennio seguente alla fine della Prima Guerra Mondiale, riuscì a promuovere riviste come «Il Frontespizio» di Piero Bargellini, «Campo di Marte» di Alfonso Gatto e Vasco Pratolini e «Letteratura» di Alessandro Bonsanti. In un periodo di profonda crisi per l’attività editoriale, culminato nel 1946 con la morte del padre Attilio, assunse la direzione della Casa editrice collaborando con la sua attività alla ripresa culturale dell’Italia. A seguito di una nuova crisi agli inizi degli anni Settanta, affidò la gestione editoriale a Geno Pampaloni e, rimasto in minoranza a seguito dell’acquisizione di nuovi soci, fu costretto a ritirarsi dall’azienda, ma non dall’editoria, rilevando l’Editoriale Olimpia e creando le Nuove Edizioni Enrico Vallecchi. Negli anni Ottanta riuscì a tornare in possesso dell’azienda familiare. Per i dieci anni dalla morte di Vallecchi, la rivista «Caffè Michelangelo» (V, 3, settembre – dicembre 2000) dedicò un numero alla personalità di Enrico Vallecchi con tre contributi di Giorgio Luti: La casa degli scrittori (pp. 4-13), Le voci più alte: Enrico Vallecchi e il Novecento (p. 7) e Enrico Vallecchi: le opere e i giorni (p. 11). Un breve, ma partecipato profilo biografico di Enrico Vallecchi è stato pubblicato da Giorgio Luti sulla rivista «Diana» nel 2004: «Enrico Vallecchi è stato un gentiluomo toscano e un intellettuale vero, l’ultimo nume tutelare della letteratura sentita come grande valore universale, da difendere anche a costo di entrare in
169 contrasto con i tempi e pagare di persona. […] Enrico aveva un fiuto eccezionale, un vero talento nello scoprire i giovani scrittori alle prime armi. Capiva a prima vista se uno scrittore aveva genio o no, che meritasse valorizzare e lanciare. A lui si deve, tra gli altri, la scoperta di Gadda, Pratolini, Bilenchi, Luzi. Il suo metodo era quello di stabilire subito un forte rapporto di amicizia, non imprenditoriale. con le sue scoperte. […] Con il boom economico inizia un lento declino. Anche l’editoria diventa soprattutto business, si sposta verso le grandi zone industriali: Milano, Torino, Roma. La grande editoria industriale prende il sopravvento e molti autori scoperti e valorizzati da Enrico Vallecchi passano alle grandi case editrici del nord. Enrico vive questo fatto inevitabile come un tradimento. Lui che non ha mai cercato il “colpo” editoriale ma ha guardato solo alla qualità dei testi, si trova improvvisamente spiazzato. […] Aveva fiducia nella capacità della grande letteratura di porsi e di affermarsi in ogni tempo. […] Enrico non è mai stato un commerciante del libro, non è mai riuscito a pensare a un volume come ad un prodotto soltanto da vendere. Ha sempre concepito l’editoria come una scoperta, un’avventura continua, un impegno per l’arte e per la poesia. Ed è sempre rimasto fedele all’idea che l’editoria non si dovesse mai piegare alle richieste del mercato, alle mode, alle formule di comodo, ma che doveva essere proprio l’editoria a creare il mercato del libro, un mercato alto e qualificato. Per lui l’editoria doveva essere libera da ogni condizionamento, attività in primo luogo propulsiva e creativa. Aveva una visione molto nobile e molto elevata del suo lavoro che concepiva come un grande artigianato» (GIORGIO LUTI, Enrico Vallecchi. Intellettuale e artigiano, «Diana», 4, ottobre 2006, p. 40). Tra le carte di Giorgio Luti è conservato un saggio inedito, un manoscritto di sei carte, dal titolo Ricordo di Enrico Vallecchi scritto nel gennaio del 1990, nel quale Luti ricorda così l’amico: «Ai primi di Gennaio è scomparso Enrico Vallecchi, grande editore e grande amico. La lunga malattia non gli aveva impedito di continuare a dirigere la sua casa editrice, la Vallecchi, con l’impegno e la fede di sempre. Tornato alla guida della Vallecchi nel 1983, dopo un lungo periodo di lontananza, aveva saputo dare in questi ultimi anni nuovo impulso alla sua casa editrice riproponendone l’antica fisionomia letteraria, ma anche tracciando nuove linee di sviluppo, nuovi progetti e nuove prospettive culturali e editoriali. Ho già detto di lui quello che pensavo, e cioè che Enrico Vallecchi era un vero gentiluomo toscano e un intellettuale vero, l’ultimo nume tutelare della letteratura sentita come grande valore universale, da promuovere e da difendere a tutti i costi. La nostra è stata una lunga e affettuosa amicizia durata più di trenta anni, cresciuta senza alcuna ombra fino a questi ultimi giorni. La sua grande casa sulle colline fiorentine, il suo studio prima in Viale dei Mille e poi in Viale Milton, sono stati per molti scrittori ed intellettuali un eccezionale punto d’incontro, un luogo da cui si usciva sempre arricchiti dalla sua parola, dal suo temperamento battagliero e polemico, dalla sua straordinaria disponibilità al colloquio sull’arte e sulla letteratura. Con lui scompare una grande epoca della nostra era letteraria, e con lui certo scompare anche una parte importante della mia vita privata, ma resta ben ferma nella memoria la sua storia di editore coraggioso, il suo lungo e avventuroso percorso tra i libri che contano nel nuovo secolo. Soprattutto per lui contava la scoperta di un nuovo scrittore, seguirne la nascita e l’affermazione, coglierne subito il valore e poi seguirlo da vicino nella crescita e nel successo, fino a stabilire un rapporto di valori a cui è stato sempre fedele. In questo Enrico aveva un fiuto
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