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I porti europei: i modelli gestionali

Nel documento La concorrenza e il settore portuale (pagine 104-109)

CAPITOLO I :L’ARTICOLO 102 E IL DIVIETO DI ABUSO DI POSIZIONE

CAPITOLO 3: CONCORRENZA E SERVIZI PORTUALI

3.2. ADEGUAMENTO DEL SETTORE PORTUALE ITALIANO AL DIRITTO COMUNITARIO

3.2.1. I porti europei: i modelli gestionali

L’assetto gestionale dei porti risulta difforme a livello europeo. Si riscontrano, difatti, differenti modelli di “Ente portuale” negli Stati membri dell’Unione Europea.

A fianco di porti in cui l’influenza e/o la presenza dei poteri pubblici è forte, esistono, come visto in precedenza, porti interamente gestiti da soggetti privati.

105 Come per la maggior parte delle infrastrutture di trasporto, l’appartenenza per così dire dei porti al settore pubblico o,viceversa, al settore privato dell’economia si è evoluta storicamente con l’evoluzione dei mercati ed il grado di concorrenza all’interno degli stessi.

Parimenti, come nel XIX secolo i grandi assi ferroviari furono realizzati prevalentemente grazie all’impulso ed al finanziamento privato per poi venire solo successivamente, all’inizio del XX secolo, nazionalizzati, anche i porti, teatro storico dell’iniziativa privata, sono stati ricondotti sotto l’ala pubblica nel secolo scorso, alla luce del generale riconoscimento della loro importanza strategica nazionale. Al contrario delle ferrovie, tuttavia, la competitività del settore portuale è cresciuta in maniera significativa nel 1900, soprattutto per alcune tipologie di traffico che hanno beneficiato in particolar modo della standardizzazione dei sistemi di trasporto intermodale e di movimentazione delle merci. La considerevole innovazione tecnologica, registrata nel secolo scorso, ha, difatti, consentito di ridurre in maniera esponenziale i costi connessi alle rotture di carico, innalzando in maniera drastica l’efficienza del trasporto marittimo. Di conseguenza, proseguendo il parallelo con il settore ferroviario, mentre quest’ultimo diveniva un mercato scarsamente redditizio e fortemente sussidiato dalla mano pubblica, i porti venivano investiti da spinte concorrenziali di carattere regionale (fenomeno che, con espressione inglese, viene denominato yardstick competition). Deve, tuttavia, segnalarsi come storicamente il porto, pur mantenendo intrinsecamente la natura di monopolio naturale, ha perso progressivamente la propria

106 connotazione locale, sviluppando notevoli capacità di networking orizzontale e verticale, ovvero di coordinamento con gli attori chiave della realtà portuale e di collegamento con il retroporto e le altre modalità di trasporto. A testimonianza di quanto da ultimo detto, basti citare l’esempio del traffico container – attualmente la tipologia di traffico tecnologicamente più avanzata e redditizia – nel quale oggi i porti italiani del Tirreno sono in diretta concorrenza con i porti del c.d. Northern Range (Rotterdam, Amburgo, Anversa, Le Havre, ecc.) per servire i mercati dell’Europa centrale.

In tutti i casi, tenuto conto della tendenziale bivalenza delle attività svolte nei porti, ossia di quelle di tipo strettamente pubblicistico, inerenti la sicurezza dell’approdo, l’ampliamento e la manutenzione delle infrastrutture, la concessione di aree demaniali, ed a quelle di carattere più prettamente privatistico, le Autorità portuali Europee – prescindere dallo status giuridico assegnato alle stesse nei singoli ordinamenti, soggetto pubblico versus privato – presentano di norma una natura sostanzialmente “mista”, la quale è caratterizzata da elementi propri sia dell’ente pubblico che dell’impresa.

Alla stregua dello specifico status giuridico e delle funzioni in concreto svolte si è soliti distinguere differenti modelli di “Ente Portuale” in relazione a quelle presenti nei singoli Stati Membri, pur ripetendo che un modello organizzativo unitario non esiste e che spesso le Autorità portuali dei diversi Paesi presentano tratti peculiari di ciascuna delle figure di seguito elencate.

a) Landlord Port: l’ente di gestione è responsabile della valorizzazione del territorio e provvede, pertanto, alla

107 realizzazione delle infrastrutture (banchine, zone di parcheggio, di carico e di scarico delle merci), affidando ai privati l’esclusiva gestione dei traffici e dei servizi portuali accessori agli stessi.

b) Tool Port: l’ente di gestione si occupa, oltre che della creazione, anche dell’utilizzo delle infrastrutture, erogando servizi accessori.

c) Operative o Service Port: il porto resta completamente in mano pubblica; l’ente di gestione provvede, altresì, a gestire e svolgere le operazioni portuali.

d) Company Port: il porto è interamente privatizzato (modello inglese).

Tradizionalmente, gli enti di gestione dei porti dell’Europa settentrionale godono di una certa autonomia dal governo centrale e sono organizzati in maniera tale da soddisfare, nella più ampia misura possibile gli interessi commerciali degli utenti dell’infrastruttura, rispondendo, in altri termini, prevalentemente ad esigenze di tipo privatistico.

Le Autorità portuali dell’area mediterranea svolgono, invece, di norma, contemporaneamente funzioni pubblicistiche e privatistiche quali, ad esempio: la programmazione territoriale, la promozione commerciale, la politica sociale.

Tali enti risultano, inoltre, essere strettamente legati allo Stato, in considerazione della natura demaniale degli scali.

Il modello gestionale introdotto dalla Legge di riforma dell’ordinamento portuale italiano è quello del Landlord Port. Le Autorità portuali italiane, infatti, gestiscono l’infrastruttura portuale, la quale fa parte del demanio marittimo statale, affidando la gestione delle operazioni e dei servizi portuali a

108 soggetti privati mediante il rilascio di concessioni (agli operatori terminalisti e per quanto attiene i c.d. servizi di interesse generale) o di autorizzazioni.

Questo modello di gestione – oltre a quello del Company Port, adottato unicamente nel Regno Unito – pare quello maggiormente in grado di consentire sia il rispetto delle connotazioni pubblicistiche dell’infrastruttura, che la valorizzazione dei segmenti di mercato operativi nell’ambito dello stesso e, dunque, di meglio coniugare i vari interessi in gioco, nella prospettiva del massimo sviluppo portuale.

Deve rilevarsi conclusivamente come nella maggior parte dei Paesi dell’Unione Europea, fatta eccezione per la Gran Bretagna, al “bene” porto venga riconosciuta natura pubblica. Tale rilievo appare, invero, più che giustificabile per tutta una serie di ragioni tra cui, in primis, la strategicità economica del settore a livello nazionale e locale.

Di recente, tuttavia, si è aperto un dibattito circa l’adeguatezza e le modalità con cui deve espletarsi l’intervento pubblico in tale settore. In particolare, ad essere messa in discussione è la capacità competitiva degli scali marittimi europei, partendo dall’assunto delle caratteristiche intrinseche del “fare impresa” in ambito pubblico, rispetto a quelle del “fare impresa”in ambito privato.

Pur non volendo trarre alcuna conclusione generale dalle considerazioni da ultimo riportate – non fosse altro per l’evidenza del più grande porto del mondo, ovvero Singapore, interamente in mano pubblica – appare indubbia la condivisibilità dell’opinione per cui l’innovazione, la flessibilità e la capacità di reagire in tempi rapidi alle mutate condizioni di

109 mercato tipiche del settore privato sono caratteristiche ineludibili nella prospettiva di assicurare adeguata competitività ai porti europei. Caratteristiche che possono, altresì, coesistere con gli interessi pubblici, che inevitabilmente sono legati agli scali marittimi, interessi che potranno continuare ad essere tutelati dagli Stati membri in un quadro che si auspica differente rispetto a quello attuale, almeno per quanto concerne l’autonomia strutturale e finanziaria degli enti di gestione portuale.

Nel documento La concorrenza e il settore portuale (pagine 104-109)

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