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2. Claudio Magris e la traduzione

2.4 La poetica della traduzione di Magris

2.4.3 Evocazione

Un’altra parola molto ricorrente nelle considerazioni di Magris sulla traduzione è

evocazione, concetto che talora pare equivalere a ritmo e talora pare differenziarsi da

quest’ultimo. Il seguente passo, tratto ancora dal saggio di Magris sulla traduzione e sul rapporto con i propri traduttori, ci è utile per chiarirci le idee:

Anche a prescindere da veri e propri errori di interpretazione, può essere in certi casi soprattutto il tono, il ritmo di una traduzione ad alterare profondamente il senso di un libro. Ad esempio, il mio Mito absburgico nella letteratura austriaca moderna – il primo libro che io abbia scritto, e pubblicato nel 1963 – nella prima traduzione tedesca aveva perso in gran parte la sua complessità. È un libro che da una parte implica un punto di vista duramente critico nei confronti della cultura austriaca, ma d’altra parte è anche un libro in cui, attraverso il filtro di questa critica, emerge il grande fascino, l’incanto di questa cultura, un fascino e un incanto che si avvertono profondamente sentiti dall’autore. Questa polarità, questa ambivalenza, che costituiscono il vero e proprio senso del libro, erano andati quasi completamente perduti nella prima traduzione tedesca, che ha reso quasi esclusivamente ciò che nel libro viene detto esplicitamente, vale a dire la componente critica negativa, il giudizio concettuale, mentre ignora l’aura evocativa che avvolge il libro e che gli conferisce un altro significato. In quel caso, la traduzione ha reso essenzialmente l’esplicito e superficiale contenuto […] ma non ha reso l’aspetto fondamentale del libro ovvero il suo ritmo, la sua musica che, nel momento in cui si formula un giudizio negativo, evocano la fascinazione e la seduzione e trasformano dunque il no in un sì. (Magris 2007b: 39)

Il problema cui l’autore accenna in queste righe, e che riguarda la traduzione tedesca del suo Mito absburgico, è già stato illustrato agli inizi del capitolo; ora ci interessa in particolare ciò che qui si chiama “aura evocativa” del testo e che in altre parti viene chiamato anche “senso poetico”, “valore evocativo”, “aura espressiva”, “forza evocativa” (cfr. Magris 2007b: rispettivamente 39, 43, 44 e 45). Tutte espressioni che rimandano alla nozione di evocazione, che pare indissolubilmente legata a quella di ritmo, salvo che mentre il ritmo coincide a sua volta con categorie come musica e tono del testo, nel caso di evocazione il focus si sposta sul piano del significato ovvero dei significati, delle singole parole come pure del testo nel suo insieme.

Indagando, sulla scia delle dichiarazioni dell’autore, la cosiddetta evocazione nel Mito

absburgico, Foschi (2006) ricostruisce l’etimologia del vocabolo evocare, ricordando come: l’italiano evocare ha mantenuto in nuce il significato originario latino (ēvŏco ‘chiamo fuori, faccio uscire qualcuno’; ēvŏcātŏr ‘evocatore delle ombre dei morti’) in espressioni “evocare gli spiriti”. Per estensione, il verbo è usato nel senso di ‘richiamare alla mente e alla memoria’ (es. “evocare il passato”) e di ‘suscitare, ricreare in maniera suggestiva’ (es. “questo passo evoca la sensazione tragica dell’ineluttabilità dell’essere”): l’ultimo esempio mostra come la parola evocazione si presti a descrivere il “suggerire senza dire” del testo poetico. (Foschi 2006: 54)

Il valore evocativo del testo letterario viene pertanto messo in relazione con il “fattore di liricità altrimenti definito ‘densità espressiva’, modalità espressiva del ‘dire con poche parole’” (Foschi 2006: 64). Qualcosa di vago e sfuggente, insomma, che però conferisce al testo letterario una pluralità di significati; gli conferisce cioè quella qualità propria dei testi poetici che Michel (2001: 148) chiama “Überschuß an Information”45, ‘eccesso di informazioni’, o anche “‘Mehr an Bedeutung’”, ‘surplus di significati’, rimandando alla seguente definizione di Lotman:

jenes bekannte Phänomen, wonach bei der Umcodierung eines künstlerischen Systems in eine nicht-künstlerische Sprache jeweils ein ‘unübersetzter’ Rest bleibt – eben jene Mehrinformation, die nur im künstlerischen Text möglich ist.46 (Lotman 1981: 83, cit. in Michel 2001: 148)

Una definizione che calza molto anche al nostro caso, perché ciò che Magris afferma in merito alla traduzione del Mito – e che trova conferma nelle analisi che sono state fatte di quella traduzione – è proprio una perdita di quel “Mehr an Bedeutung” del testo originale. La traduzione pone l’accento su un significato del testo, attutendone altri, il che dal punto di vista traduttivo corrisponde a operazioni di standardizzazione e neutralizzazione, cui si accennava poc’anzi parlando delle traduzioni di Danubio.47 E in effetti, anche in quel caso alcune traduzioni hanno evidentemente privato il testo, almeno in parte, del suo valore evocativo (nel senso che qui si dà al termine).

È bene ricordare come i testi di Magris siano spesso caratterizzati da una sostanziale ambiguità anche sul piano del genere testuale. Vale per i testi di Magris germanista, in cui la “Wisenschaftssprache”, ‘il linguaggio scientifico’, dello studioso si mescola, come già si diceva, con la penna del saggista, ma anche, talora, con quella dello scrittore, e vale allo stesso modo (o anche di più) per i testi di Magris scrittore, spesso in bilico fra saggistica e narrazione, fra riflessione critica e racconto.48 I suoi testi narrativi – in particolare Danubio,

Un altro mare e Microcosmi – sono per questo motivo di difficile etichettatura, come ben

riassume Guagnini (1997), riflettendo sulle caratteristiche testuali di Un altro mare:

Un libro [Un altro mare, B.I.] che venne – editorialmente – presentato come un romanzo, che è in sostanza anche una biografia, ma che in realtà è una somma e un concentrato (o

45

Evidenziato nel testo originale.

46 [quel fenomeno noto per cui nel passaggio dal codice di un sistema artistico in una lingua non artistica rimane

sempre un resto ‘non tradotto’ – quell’informazione in più per l’appunto che ci può essere solo in un’opera d’arte.]

47 Cfr. 2.4.1.

48 Si veda soprattutto Pellegrini (2003), che rilegge tutta l’opera di Magris sullo sfondo di tale dicotomia e che

apre il suo testo con un capitolo dal titolo “Dal saggismo alla narrativa: ‘Fra Tolstoj e Kafka’” (cfr. Pellegrini 2003: 17-24), in cui riporta le voci della critica italiana in proposito.

intersezione) di forme e di modi di scrittura diversi: dietro e dentro quella prosa c’è anche la saggistica, anche la saggistica narrante (secondo il modello appena collaudato – 1986 – di “Danubio”), anche momenti di forte tensione lirica.

Ciò che lo studioso chiama “saggistica narrante”, altrove viene definito anche saggismo (Pellegrini 1993), un termine interessante se non altro perché non attestato nei dizionari di lingua italiana, che riportano saggio e saggistica, ma non saggismo (cfr. Devoto/Oli 2004; De Felice/Duro 1993; Zingarelli 1999). Se n’è accorto il traduttore olandese di Magris Anton Haakman, il quale ha interpellato in merito l’autore, ricevendone, come riporta, la seguente risposta:

Un modo indiretto, obliquo di avvicinarsi alle cose, alla vita ed ai problemi da trattare… prendere a pretesto qualcosa per parlare anche e soprattutto di qualcosa d’altro, avere la consapevolezza che, soprattutto nell’età contemporanea, non è possibile affrontare direttamente i grandi problemi o la ricerca della verità e del significato, ma è possibile soltanto alludere ad essi indirettamente, obliquamente, parlando di altri scrittori che ne hanno parlato o prendendo lo spunto da qualche occasione che rimanda a quei massimi problemi che non si possono trattare direttamente ma solo indirettamente, con la peripezia obliqua del saggista. (Magris in Haakman 1993: 185)

Il saggismo corrisponde dunque a un preciso modo di vedere e di leggere il mondo, basato su più giudizi o punti di vista parziali piuttosto che su una visione ferma e totalizzante della realtà. La rappresentazione di questa realtà si traduce in una scrittura che oscilla tra il dire e il non dire, tra l’esplicitazione e l’allusione, tra pietas e ironia. Sono questi i tratti distintivi della scrittura di Magris ed è qui che ha origine il suo ritmo, quel ritmo che tanta importanza assume nello scambio fra l’autore e i traduttori.

Per i traduttori, ma anche per chi analizza la traduzione come pure per i critici letterari, si pone naturalmente la domanda come – con quali mezzi linguistici e testuali – si realizza quella scrittura e dunque quel ritmo. Anche da questo punto di vista lo scambio tra i traduttori e l’autore appare interessante, perché rivela una certa insistenza dell’autore sul piano della (morfo)sintassi. In particolare, Magris concentra la sua attenzione su quelle costruzioni che permettono di concentrare e condensare al massimo il significato. Pensiamo alle apposizioni, a determinate strutture binarie (aggettivali, nominali o verbali) e così via. Ecco allora l’invito, molto frequente, ai traduttori a evitare tutte quelle soluzioni traduttive che portano allo scioglimento di queste strutture, come può essere, per esempio, il ricorso a una frase causale o a una frase relativa per rendere ciò che nel testo originale viene espresso mediante apposizione o con un aggettivo usato in funzione appositiva, e a mantenere invece le apposizioni anche “nella loro forma immediata e brutale” (Magris 2007b: 45). Magris stesso spiega nelle sue riflessioni le ragioni di queste esortazioni ai traduttori:

C’è talvolta la tendenza a sciogliere in un’esplicita frase causale o in una frase relativa ciò che nel testo originale è stato espresso con una apposizione, con un aggettivo usato quale apposizione, che conserva ed esprime una forza evocativa. Questa va perduta se si scioglie l’apposizione in una specificazione, che suona pedante e inutile; un conto è dire, per esempio, “Sorpreso, egli si alzò”, un’altra cosa è dire “X, che era sorpreso (informazione e specificazione che non ci interessano) si alzò”. In questo caso va perduto l’essenziale, proprio quella forza che consiste in un nesso indissolubile e non sempre razionalmente del tutto spiegabile di diverse parti del discorso. (Magris 2007b: 45)

Anche nelle prime righe delle “Indicazioni per i traduttori di Un altro mare”, l’autore si sofferma su un esempio analogo:

[…] direi di eliminare il più possibile le frasi relative, che rischiano di spiegare. Ad esempio, nell’ultima riga a pagina 9, “a lui più familiari dell’italiano e perfino del tedesco”, è una frase che, in una delle traduzioni in corso, era stata resa con una frase relativa – “che gli sono più familiari dell’italiano e perfino del tedesco.” In questo caso, ho detto al traduttore, se possibile, di eliminare il “che” e di lasciare invece l’inciso. Non si tratta cioè di specificare, come dando un’informazione, che gli aoristi gli sono più familiari dell’italiano, ma si tratta di evocare semplicemente un’associazione. (“Indicazioni traduttori AM”: 1)

La categoria dell’evocazione rimanda dunque a certe scelte linguistiche che, quando particolarmente ricorrenti, costituiscono i tratti stilistici del testo. E ci pare di poter concludere – nel capitolo successivo si citano altri esempi che lo confermano – che Magris attribuisca un’importanza centrale alle caratteristiche morfosintattiche del testo. Non mancano tuttavia riferimenti al piano lessicale, in particolare ai giochi di parole e a quel miscuglio di varietà e di registri linguistici cui si è già accennato. Anche attraverso queste scelte si suggeriscono significati e dunque si conferisce quel “Mehr an Bedeutung” che sta alla base del valore evocativo del testo, così come descritto finora.

Entrambe le categorie, evocazione e ritmo, chiamano infine in causa pure il piano delle scelte e delle tecniche narrative del testo e quindi aspetti quali la presenza (o assenza) del narratore, la mediatezza (o immediatezza) della narrazione, le forme di rappresentazione del discorso e così via. Che le modalità narrative concorrano nella creazione del ritmo di un testo, lo dimostra l’esistenza del termine (e del concetto) di Erzählrhythmus, ‘ritmo narrativo’ o ‘ritmo della narrazione’, che Zuschlag (2002: 107)49 così definisce: “Alternieren verschiedener Grundformen des Erzählens wie Bericht, Beschreibung, Kommentar (Formen

49 Zuschlag (2002) mette in relazione il concetto di (in)varianza quale tratto essenziale della traduzione con i

concetti base della narratologia. La studiosa considera l’insieme dei tratti narrativi di un testo come l’invariante per eccellenza e, partendo da questo presupposto, si chiede in quale misura il passaggio tra due lingue (e culture) che ogni traduzione implica, incida sul discorso narrativo. L’analisi merita attenzione, anche e soprattutto perché si muove tra Literatur-, Sprach- e Übersetzungwissenschaft, ‘scienza della letteratura, della lingua e della traduzione’, dimostrando la necessità, per l’analisi della traduzione, di avvalersi di tutti e tre gli ambiti disciplinari.

des telling), szenische Darstellung, reiner Dialog (Formen des showing)”.50 Il ritmo dunque come conseguenza dell’intersecarsi e del sovrapporsi di modalità narrative diverse. Una definizione questa che pare particolarmente calzante nel caso del nostro autore, i cui testi sono spesso caratterizzati da una commistione di forme narrative diverse e che proprio per questo motivo sono, come già si è sottolineato, difficili da definire sul piano dell’appartenenza a un genere testuale. Ciò riguarda soprattutto alcune opere, tra cui Microcosmi, su cui ci soffermiamo nel capitolo successivo.

50 [Alternanza di diverse forme del narrare quali il resoconto, la descrizione, il commento (forme del telling), la