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F OTOGRAFIE E D ISEGNI : R EALTÀ E R APPRESENTAZIONE

“In short, I cannot but repeat the old French proverb: a beau mentir qui vient de loin.”

Monsignor Olinen, Corrispondenza privata1 Paesaggi e carovane: le fotografie di Sykes

Dei tre resoconti presi finora in esame, il testo di Sykes è il primo ad essere corredato da delle riproduzioni fotografiche. Porter aveva fatto inserire tra le pagine dei Travels numerose stampe dei suoi disegni, realizzate grazie ai cliché di legno; De Bianchi una sola mappa di grande formato, una litografia allegata in fondo al volume e piegata quattro volte su se stessa.

Le immagini di Sykes non sono numerose né, si potrebbe dire, particolar- mente significative. Debbo premettere, così come premette l’autore, che gli scatti pubblicati sono solo una parte limitata delle pose realizzate, a causa di un incidente nella fase di sviluppo: un tecnico causò l’incendio di alcune tra le pellicole del viaggiatore. Anche la tecnica di presa di quel tempo condizionava seriamente la scelta del soggetto, il cui movimento non doveva essere percepi- bile: di fatto le fotografie di Sykes riproducono immagini estranee alla quoti- dianità, composte sul momento e ritratte in posa; oppure panorami colti da lon- tano e che richiamano una distanza oltre che fisica, intellettuale. Il fotografo seleziona quanto osserva, lo raccoglie e lo riordina a suo piacimento, dopodi- ché se ne appropria — creando bacheche per musei di persone, abiti, differen- ze, visi ed espressioni: nuove narrazioni. L’immagine e la fotocamera utilizzata per riprendere sono un mezzo per la conservazione immanente della realtà os- servata (la musealizzazione). Questo genere di immagine per raccontare il lon- tano, il diverso, l’esotico, l’altro in senso generico, si può ritrovare realizzata allo stesso modo ancora nei reportage etnografici degli anni 1970.

L’introduzione della documentazione fotografica e alla riproduzione mec- canica è la trama di una rivoluzione dell’informazione costruita principalmente con due fili. Il primo filo rappresenta la documentazione fotografica come te- stimonianza dell’itinerario compiuto dal viaggiatore, l’autorevolezza dell’espe-

1 Trascrizione di una lettera privata indirizzata da tale Mons. Olinen a Porter, che la pubblica

rienza. Le fotografie sono una forma apparente di garanzia della presenza del viaggiatore nei luoghi da lui descritti. Per accrescere questo effetto di autentici- tà, oltre ad una riproduzione del proprio passaporto, Sykes inserisce all’inizio del libro un’immagine di lui e di un abitante di uno dei luoghi visitati e una ri- presa da lontano della sua carovana che procede nei territori desertici tra Da- masco e Baghdad. Le fotografie di Sykes, testimonianze oggettive di una storia raccontata come una cronaca romanzata, si legano dunque al rapporto proble- matico del resoconto di viaggio con il vero, il finto e il falso, già diffuso a quel tempo. Il secondo filo, che si intreccia e si unisce al primo, riguarda in maniera più specifica il rapporto tra l’osservazione e la riproduzione, l’immagine e la fedeltà al vero: cosa condiziona la scelta dei soggetti presenti e di quelli esclu- si, su quale metro è stata costruita e dovrebbe essere composta un’immagine. Un ottimo esempio di questa seconda problematica sollevata dal rapporto tra realtà e rappresentazione, un cruccio nato ben prima dell’invenzione della fo- tografia, lo si trova nell’introduzione al primo dei diari di viaggio trattati, quel- lo di Porter.

“Draw only what you see”: i disegni di Porter

Nella prefazione ai Travels, Porter (in terza persona, per lui il trascrittore) avvisa innanzitutto il lettore di non aver messo mano o fatto rivedere il mate- riale tratto dai suoi diari (Porter, 1821: v): è questa una formula di introduzione frequente nelle pubblicazioni di diari e resoconti di viaggio in quel periodo, che contiene il valore simbolico di una ricerca del vero legata all’esperienza. Poco oltre, la prefazione riporta alcuni passaggi di una lettera ricevuta prima della partenza dall’amico e cugino dell’autore, Sua Eccellenza Monsignor Olinen.2 Tale Monsignor Olinen, secondo quanto indicato nel testo, era il Segretario di Stato dell’Impero Russo, nonché Presidente dell’Accademia di Belle Arti (ibi- dem). Il soggetto del testo di Olinen, che Porter evidentemente scelse di pub- blicare nella prefazione al suo libro (trattandosi di corrispondenza privata, la scelta deve essere stata sua personale), riguarda lo studio di un’iscrizione fune- bre dell’antica Persia. Olinen, nella lettera, propone un’accurata copia di pro- prio pugno delle rappresentazioni di un celebre bassorilievo persiano di Nakshi Rustam fatte da tre viaggiatori precedenti: il francese Chardin, l’olandese Van Bruyn, il danese Niebuhr (idem: VI). “Here, you may observe the same figures

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2 Non sono stato in grado di stabilire se la dicitura “Friend and Cousin” in questo testo (1820,

of the same Persepolitan bas-relief, transmitted to us in three perfectly different forms of outline” (ibidem), scrive Olinen. Il diverso aspetto nelle rappresenta- zioni del frammento offre, secondo Olinen, un esempio edificante per Porter sulla necessità di una riproduzione oggettiva che passi attraverso il medium neutrale della vista senza essere intaccata dalla mente dell’autore. Così, dopo aver illustrato e dimostrato l’infedeltà al vero dei tre autori e delle loro rappre- sentazioni, Olinen si spinge oltre, invitando direttamente Porter a riflettere su quello che sarà il suo compito durante il viaggio e, implicitamente, su quello che ogni forma di rappresentazione porta con sé oltre la volontà dell’autore (idem: VII).

“In conclusion – scrive Olinen –, I repeat, draw only what you see! Correct nothing; and preserve, in your copies, the true character of the originals. Do not give to Persian figures a French tournure, like Chardin; nor a Dutch, like Van Bruyn, (Le Brun); nor a German, or rather Danish, like Niebuhr; nor an English grace, like some of your countrymen; in your portraits of the fragments at Nakshi-Roustam” (idem: VIII).

La richiesta di Olinen è accettata senza indugi da Porter, così come riporta- to nella prefazione (idem: IX). L’autore dei Travels non solo condivide il sugge- rimento di Olinen, ma lo rende l’argomento centrale su cui sviluppare la pro- pria prefazione. L’ambizione del viaggio per Porter – viaggiatore e illustratore, studioso e produttore di conoscenza – diventa la rappresentazione del vero. A cavallo tra le due rivoluzioni industriali inglesi, l’oggettività della riproduzio- ne, della rappresentazione perfetta, è una caratteristica del proprio lavoro di studioso e illustratore documentarista che Porter ha piacere di indicare, tramite la lettera di Olinen, come marcatore della differenza tra se stesso e i suoi pre- decessori e contemporanei. Porter si appropria così del potere dell’oggettività e dell’ambizione all’oggettivo, alla rappresentazione del vero, e benché a quel tempo non esistesse un metro di confronto per valutare la sua illustrazione del bassorilievo – se non altre illustrazioni dello stesso – Porter testimonia il suo impegno, l’obiettivo raggiunto, con una nota a fondo pagina, alla fine della let- tera di Olinen, che indica la collocazione nel volume dei Travels della sua ri- produzione del bassorilievo persiano di Nakshi Rustam.

Nella pubblicazione dei suoi diari di viaggio, l’autore esordisce dunque con una sorta di dichiarazione, anzi, una vera e propria testimonianza dell’au- tenticità con cui l’opera è stata redatta, della fiducia che il lettore può avere du- rante la lettura dei suoi diari e nella realtà da essi rappresentata, nel senso eti-

mologico del termine, di “rendere presenti cose passate o lontane: quindi esporre in qualsiasi modo dinanzi agli occhi del corpo o della mente figure e fatti”.3

Un patto sulla realtà e la sua rappresentazione

Al di là della capacità di evidenziare i problemi del rapporto tra realtà e rappresentazione, le fotografie di Sykes e i disegni di Porter sono utili in questo contesto perché mettono in luce come il problema dell’oggettività della rappre- sentazione sia una questione che ciclicamente emerge, in maniera più o meno esplicita, nel pensiero europeo — e che è del tutto assente, o soffocata, ad esempio, nell’opera di De Bianchi. In questo senso l’avvento della fotografia è degno di nota e introduce una falsa rivoluzione. Apparentemente sembra annul- lare la distanza tra la realtà e la rappresentazione: in realtà può solo ridurre quella tra la rappresentazione e la riproduzione — esattamente come aveva fat- to ogni altro strumento tecnico dell’uomo, come la macchina da stampa.

Tuttavia questo secondo aspetto non sarà quello tenuto in considerazione e la meccanizzazione della ripresa fungerà invece da quadro di interpretazione per l’uso della fotografia fatto da Sykes, così come dai viaggiatori che lo segui- ranno. Questo uso che potrebbe essere considerato naïf – ingenuo nei confronti dello sguardo che diventa descrizione e in quello che diventa immagine – con- dizionerà a lungo la cultura europea positivista, consacrando definitivamente la vista come senso dominante del sapere oggettivo (Ingold, 2000: 155), rendendo insolubile l’intreccio di visione e comprensione (Pennacini, 2005: 19), ai cui effetti si è già accennato in precedenza.

Affascinati dalla tecnica, la fotografia e le nuove tecniche di riproduzione saranno considerate la (fallace) soluzione del rapporto tra realtà e rappresenta- zione, che troverà il proprio risultato nell’unicità e nella riproducibilità della verità, due qualità che fino a quel momento erano (logicamente) considerate contraddittorie. Questa nuova prospettiva sulla realtà e sulla sua riproduzione era evidentemente destinata a influenzare il modo di pensare ogni genere di rappresentazione – quella visiva come quella testuale – senza, tuttavia, portare ad una reale revisione dei paradigmi della comprensione. L’ascendente della tecnica fotografica era comunque molto forte: la pittura, ad esempio, quella paesaggistica in particolare, in quel periodo prende sempre più le distanze dalla

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3 Definizione tratta da Ottorino Pianigiani, “Vocabolario Etimologico della Lingua Italiana”.

rappresentazione oggettiva della realtà, dalla riproduzione tecnica del mondo osservato e sviluppa tecniche narrative sincroniche e linguaggi astratti. Come anticipato, perché una visione critica della macchina da presa fosse messa in atto in maniera diffusa e accettata, sarebbe dovuto trascorrere quasi tutto il No- vecento.

Di fatto, proprio nell’ultimo quarto del secolo le implicazioni dell’utilizzo narrativo, documentaristico e scientifico della macchina da presa, sia essa foto- grafica o filmica, sono state dibattute in maniera aperta (cfr. Pennacini, 2005) – senza che, tuttavia, i risultati di questi dibattiti e le problematiche sollevate sia- no state assimilate in maniera condivisa nel sistema culturale delle società oc- cidentali. L’antropologia visiva ha subito particolarmente questa mancata emancipazione della ricerca dalla tecnica: antesignana di una critica dello sguardo, e non del mezzo o del metodo di osservazione, può essere però consi- derata l’opera filmica di Jean Rouch. Nonostante Les maîtres fous"(1955) non sia un lavoro innovativo dal punto di vista narrativo e tecnico, la scelta del soggetto di Rouch è lucida e capace di precorrere i tempi. L’occhio di Rouch segue la realtà per focalizzare il cambiamento: Les maîtres fous restituisce in questo modo al rituale studiato, un rituale religioso, i legami e le influenze del presente. Nell’analisi di Rouch la violenza della dominazione europea in Africa è al centro della vita quotidiana e religiosa dei praticanti del culto degli Hauka immigrati ad Accra (Ghana), in un rituale che mostra la loro doppia capacità di assimilarsi e resistere al potere coloniale belga. Rouch riporta lo sguardo etno- grafico alla vita contemporanea e per farlo sceglie un caso di studio considera- to ai tempi poco significativo per descrivere quelle comunità. Così facendo, sfruttando tutto il potenziale della tecnica cinematografica del tempo senza la- sciarsi sopraffare, ripropone al nostro sguardo la complessità, il continuo cam- biamento e le contraddizioni imprescindibili alla realtà e dunque, alla sua rap- presentazione.

Ciononostante, la dominanza della tecnica rimane ancora oggi largamente inviolata, come dimostra il successo dei reality show, riproduzioni di vita quo- tidiana messe in atto con gli stessi strumenti e tecniche della più classica fiction televisiva e che traggono la loro autorità, in fin dei conti, da un patto di verità del tutto arbitrario implicitamente sottoscritto da autore e spettatore: niente di diverso dal patto sottoscritto duecento anni fa da Porter e Olinen. Il problema dell’oggettività della rappresentazione è allora una questione destinata ad emergere continuamente in ambienti diversi e che, in particolare in quelle os-

servazioni in cui sia coinvolta una qualsiasi forma di umanità, non può trovare una soluzione nella tecnica (disegno, fotografia, video o scrittura), ma solo nel- la consapevolezza, come ne Les maîtres fous.

CAP.5

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