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I NSEGNANTI , G IORNALISTI E G EOGRAFI : IL N OVECENTO

Hester Donaldson Jenkins: nazionalismi e stereotipi etnici

Scorrendo il numero dell’ottobre del 1915 della celebre rivista americana National Geographic Magazine, alla pagina 329, Hester Donaldson Jenkins introduce il suo articolo intitolato “Armenia and the Armenians” con una breve riflessione, dal tono retorico, ma non per questo scontata:

“Armenia is a word that has widely different connotation for different peoples. To us Americans it means a vague territory somewhere in Asia Minor; to the makers of modern maps it means nothing — there is no such place; to the Turks of a few years ago it was a forbidden name, smacking of treason and likely to bring up that bugaboo “nationalism” than which Abdul Hamid II feared nothing more, unless it were “liberty”; but to nearly two millions of Russian, Persian, and Turkish subjects it is a word filled with emotion, one that sends the hand to the heart and calls up both pride and sorrow” [329].

L’introduzione di Jenkins mette in rilievo, in poche righe e in maniera con- vincente, il contrasto tra una questione di appartenenza culturale e una di ap- partenenza nazionale, o meglio ancora porta a galla la questione di esistenze culturali e individuali sia oltre che all’interno di quelle culture nazionali. Ma quali sono i riferimenti, le motivazioni e i sottintesi per cui Jenkins sente di do- ver prendere posizione fin dall’inizio del suo articolo?

Come anticipato, l’articolo è pubblicato nel 1915, lo stesso anno in cui l’amministrazione ottomana, adducendo la motivazione di sgomberare la popo- lazione civile dalle zone di guerra delle province orientali, cominciò ufficial- mente e sistematicamente la deportazione degli armeni ottomani verso sud e in seguito a ovest (Zürcher, 2007: 141), impossessandosi di tutti i beni dei depor- tati (Akçam, 2012: 226) — preannunciandone dunque il mancato ritorno a ca-

sa.1 Pur non essendo le comunità armene le uniche ad essere quasi annientate in questi anni (da segnalare i cristiano-assiri più a sud), la loro presenza era la più evidente sul territorio del Sultano e nello specifico ai confini orientali ot- tomani e nell’Altopiano dell’Arasse. “Alla vigilia della Prima Guerra mondia- le, in Turchia c’erano probabilmente più di 1.500.000 armeni; qualche anno più tardi, in seguito ai massacri, alle deportazioni e agli esili, se ne censiranno solo 70.000” (Dumont, Georgeon, 1989: 671). Indipendentemente dal nome con cui ci si riferisce a questi eventi, le loro conseguenze furono drastiche: l’aspetto, la vita, la composizione del territorio ottomano e del Caucaso meridionale sareb- bero stati definitivamente rivoluzionati. In questo contesto i territori zaristi al confine con l’Impero ottomano, e in particolare quello dell’Altopiano del- l’Arasse, benché fossero devastati dalle battaglie locali, dall’alternarsi delle conquiste, dal banditismo a-politico che coinvolgeva armeni, curdi, greci, e musulmani ottomani (Akçam, 2012: 143) e dal continuo passaggio degli eserci- ti, erano allo stesso tempo una delle poche vie per gli armeni ottomani per evi- tare la morte certa (Dumont, Georgeon, 1989: 670). L’iniziale giustificazione alle deportazioni degli armeni, cioè quella del tradimento in favore dei russi, in cui effettivamente molti armeni avevano riposto le proprie speranze di indipen- denza o quantomeno di pace e tranquillità, quindi delle possibili insorgenze irredentiste, che vedevano coinvolta anche I#dır, nota ai turchi come centro russo di armamento di alcuni gruppi di armeni e curdi (Akçam, 2012: 142),

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1 La questione del genocidio degli armeni è ancora oggi una fonte di dibattito e scontri e di

conseguenza è trattata con molta cautela dagli storici che si occupano dell’Impero ottomano o della Turchia moderna o dagli altri studiosi che, come nel mio caso, se ne occupano solo colla- teralmente. La maggior parte degli storici esce dall’impasse (a mio avviso storiografica, non storica) elencando i fatti, quindi proponendo le motivazioni delle due posizioni contrastanti (quella pro e contro l’uso del termine, dunque quella pro e contro l’esistenza di un genocidio). Un esempio di questo comune “atteggiamento storiografico” può essere trovato sia in Paul Dumont e François Georgeon (1989: 670) che in Erik J. Zürcher (2007, 142-3). Altri autori come Stanford J. Shaw e Ezel K. Shaw (1977) parlano esplicitamente di deportazioni –"ridu- cendo consapevolmente il problema ad una questione di numeri e non di intenzioni. Un testo specialistico che affronta in maniera intelligente la questione del genocidio è “Nazionalismo Turco e Genocidio Armeno” dello storico turco Taner Akçam (1992). Nel libro (edito origina- riamente in Turchia) Akçam cerca di mostrare l’eventuale impatto che l’ammissione del geno- cidio degli armeni potrebbe avere sulla Turchia: ben i rapporti con gli armeni, influirebbe nega- tivamente sulla storia e la storiografia ufficiale turca, dunque sul mito di fondazione e sui miti- ci fondatori dell’identità nazionale turca, e comporterebbe probabilmente dei gravosi risarci- menti materiali (per un quadro storico più completo e aggiornato si veda Akçam, 2012).

trovava ora una traduzione pratica grazie alle azioni congiunte dell’esercito ottomano, degli hamidiye e di diversi bey curdi (idem: 147).

Il 1915 era stato l’anno in cui l’incalzare della violenza era diventato irre- versibile. I primi massacri delle popolazioni non musulmane, dunque anche di quelle armene, risalivano già ai due decenni precedenti, quando l’Impero era sotto il controllo di Abdülhamid. Tuttavia, per quanto la situazione dal tempo di Sykes si fosse più o meno normalizzata, l’attrito, la tensione e la violenza tra armeni e curdi non erano mai venuti meno (Zürcher, 2007: 140-1). Infine, a partire simbolicamente dall’invasione Russa dei territori ottomani orientali del novembre 1914, tutti i territori al centro della nostra attenzione sarebbero dive- nuti per quattro anni almeno il campo di battaglia di un intreccio di lotte e vio- lenze che coinvolgeva le potenze imperiali così come le diverse comunità sul territorio: una guerra internazionale e civile allo stesso tempo, con tutte le te- mibili conseguenze del caso. Le insorgenze nazionaliste e le politiche giacobi- ne dei Giovani Turchi, che avevano preso il potere e deposto Abdülhamid (Dumont, Georgeon, 1989: 637-45; 657-64), sommate alle sconfitte sul fronte orientale subite dalla Russia avevano trasformato le marcia turca per l’indipen- denza nella questione armena, durante la quale Jenkins si trova a scrivere. Inol- tre i territori del Caucaso meridionale, della Georgia, ma anche della Persia, sembravano coltivare le stesse ambizioni nazionaliste e politiche giacobine dei Giovani Turchi, ambizioni che, infatti, non avrebbero tardato ad esprimersi su ogni fronte (Atabaki, 2002).

La prospettiva di Jenkins a riguardo non è nascosta nel suo articolo. Il sag- gio della scrittrice americana, che si conclude con una lode all’impegno della sua nazione per salvaguardare gli armeni, si schiera contro il governo ottomano di Abdülhamid, ma a favore dei Giovani Turchi, per l’autrice (ma non per la storia) progressisti in cerca di una nazione che accogliesse sia i musulmani che i cristiani. Il saggio di Jenkins è una testimonianza fondata sulla sua esperienza personale, al di là dell’ideologia politica. Da quanto si apprende dall’articolo del National Geographic Magazine, Hester Donaldson Jenkins è una scrittrice e insegnante statunitense, autrice di altre opere, impiegata a inizio Novecento nel liceo femminile americano di Istanbul. Una nota riportata poco sotto il titolo ricorda al lettore che la stessa autrice aveva pubblicato nella primavera dello stesso anno, sempre sul National Geographic Magazine, un articolo che mo- strava uno spiccato interesse per la situazione femminile: “Bulgaria and its Women”. I due titoli rivelano due interessi e una prospettiva: la scelta di una

questione nazionalista che, come quella armena, minava il potere ottomano in quegli anni; e la posizione dell’autrice a tal proposito, che rivendicava il diritto di ogni popolo ad un territorio nazionale, nel senso moderno. L’interesse per la situazione femminile era stato anche al centro di un’altra sua opera sulla socie- tà ottomana, un libro in cui ricostruì e commentò l’esperienza di vita di un’ipo- tetica e tipica giovane donna di Istanbul.2 Il volume, uno tra i contributi stranie- ri e femminili di inizio Novecento su quella che fu la Belle Epoque ottomana (Dumont, Georgeon, 1989: 628), ricorda tra l’altro le donne armene, le sue al- lieve e le amiche conosciute nella scuola americana e conferma tra le righe la passione dell’autrice per l’onda rivoluzionaria dei Giovani Turchi.

Ad ogni modo l’articolo proposto da Jenkins sul National Geographic Ma- gazine del 1915 ricalca almeno in parte quel tipo di saggistica divulgativa fon- data sulla curiosità, ma anche sul consolidamento e la contestazione di alcuni degli stereotipi creati dai viaggiatori precedenti. Il resoconto della sua espe- rienza dei territori abitati dagli armeni è rubricato come se rispondesse a canoni enciclopedici più che ad un filo rosso della narrazione. Alcuni dei titoli dei sin- goli paragrafi sono, in questo senso, particolarmente significativi: Larger than Germany and France; No Brief Civilization; The Armenian Church; Resem- blance to the Jew; Armenians as Student; Typical Towns; An Armenian Village. Ad accompagnare il testo c’è un ampio uso di fotografie e illustrazioni, la cui composizione e i cui contenuti seguono grossomodo lo stesso principio enci- clopedico (e musealizzante) della scrittura: vi si ritrovano scatti in posa di nu- clei famigliari davanti a casa, di studentesse nel cortile della scuola, di alcune persone importanti di un villaggio qualsiasi, immobili, spalle ad un muro; nel mucchio c’è anche qualche scatto rubato, come la veduta di una strada cittadina o di una carovana di armeni in processione verso una chiesa.

Al di là della forma assunta dal lavoro di Jenkins, che rispondeva anche ai canoni della rivista e non solo alla moda letteraria del tempo o all’indole del- l’autrice, vale la pena di citare la didascalia di una foto apparentemente non tra le più significative, ma che permette di restituire il clima dell’impero in quegli anni, così come lo percepiva la Jenkins. Sotto l’immagine che raccoglie un gruppo di soldati e le loro tende d’accampamento, l’autrice scrive: “In Costan- tinople all parks and open places are now used for the military” [358]. L’affer- mazione è inequivocabile e, se inserita nel contesto ricavato dal diario di

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2 JENKINS Hester Donaldson, 1911. Behind Turkish Lattices: The Story of a Turkish Woman’s Life. London: Chatto & Windus.

Sykes, rende l’idea della militarizzazione della società civile ottomana di inizio secolo che, ora, accomunava la capitale imperiale ai territori periferici e isolati del confine orientale.

La questione armena è uno dei punti centrali per la Jenkins. L’autrice ame- ricana sostiene la sua posizione legittimando anzitutto gli armeni in quanto raz- za: “Before we turn to the history of the Armenians, let us consider their race and characteristics” [334]. Quindi, dopo averli descritti sommariamente come “definitely eastern” [ibidem], come fecero altri autori sposando appieno lo spi- rito del tempo, Jenkins propone il paragone tra armeni ed ebrei, tentando di dimostrare una doppia affinità, sia a livello fisico che culturale [334-5].

Nell’associare due categorie piuttosto distanti, Jenkins svela gli orizzonti in cui si forma l’immaginario della società occidentale: una forma di alterità poco nota, quella rappresentata dall’armeno, è ricondotta ad una conosciuta, quella ebraica. In questa nuova associazione, dominata dalle (di)visioni razzia- li, la familiarità religiosa fondata sulla fede cristiana proposta da Porter e, an- cora con lo stesso valore, rigettata da De Bianchi, è finita in secondo piano, per lasciare il posto ad un dogma più importante: quello politico dell’etnia e della nazione, attualizzato nel caso specifico dal problema di un’etnia (quella armena come quella ebrea) che non possiede in maniera esclusiva un proprio territorio, una propria patria.

“Heigoohee was touching in her expression of the joy that it gave her after the revolution of 1908 to be able to say «My country», for she had always felt so lonely when among girls who had countries of their own, such as the English and Turkish girls.” [339]

L’intero saggio della Jenkins si basa, oltre che sulla sua vita a Istanbul, sul- l’esperienza diretta delle regioni orientali, ottomane e russe, in cui abitavano armeni e curdi. L’itinerario della sua scoperta del mondo armeno, in cui l’asso- ciazione tra remoto e passato di Porter sarà in parte riproposta, non è esplicita- to. Tuttavia, le informazioni più o meno nascoste nel testo permettono di sup- porre che, essendo di stanza a Istanbul, Jenkins si sia mossa da ovest verso est, viaggiando in larga parte all’interno dei territori ottomani, lungo itinerari simili a quelli di De Bianchi. Una volta raggiunto l’Altopiano, quindi Yerevan, il per- corso di Jenkins si è diretto verso nord, questa volta con ogni certezza lungo un itinerario a noi noto.

“It is hard to conceive a more wonderful journey than that over the Georgian road from the Georgian-Armenian city of Tiflis up into the fast-

nesses of the mountains, culminating in a face-to-face view of superb glacier-clad Mt. Kasbek, then down through the historic Gorge of Dariel to the plains once more.” [334]

Jenkins si muove come gli altri viaggiatori lungo “circuiti in larga misura prestabiliti” (Clifford, 1997: 47), che sembrano essere diventate vie agevoli, percorsi sicuri e consolidati di cui si nota solo il panorama che richiama alla memoria la visione paradisiaca di Porter.

“Russian Armenia consists of the provinces of the Caucasus, and fur- ther south the sun-baked plains leading to the base of Mount Ararat, where, in the midst of fields, vineyards, and cultivated fields, lies Echmi- adzin.” [330]

La descrizione continua nell’ammirazione dell’Altopiano, per l’autrice una sorta di casa, di patria, degli armeni. Al tempo di Jenkins, benché non sia men- zionata, delle sun-baked plains fa parte anche I#dır, ancora sotto la dominazio- ne zarista. Il paragrafo in cui si trova questa breve descrizione è intitolato “No brief civilization” [330]: il testo preso in esame associa ad un luogo lontano, potenzialmente esotico, il termine e il concetto di civilizzazione, non nell’uso sarcastico che ne aveva fatto Sykes, ma ancora una volta in quello romantico e (meno) etnocentrico di Porter.

La lettura del contributo di Jenkins trasmette ininterrottamente, in maniera anche esplicita, l’idea dell’autrice di una cultura armena che conserva i caratte- ri di fondazione, i valori del passato, la tradizione di una antica e meritevole storia, fondata sulla cultura scritta (l’“Armenia’s Golden Age” della letteratu- ra). A questo atteggiamento di nobile conservazione delle radici, si somma l’ot- tima capacità armena di mantenere una cultura autonoma e indipendente dal giogo delle varie potenze a cui era rimasta legata, come le ingerenze della Rus- sia [357]. L’abile operazione di salvataggio etnografico e legittimazione politi- ca iscrive la cultura armena nella mitologia delle culture che non si arrendono al tempo, che hanno il merito di avere preservato la propria integrità nella sto- ria, rifuggendo da ogni possibile contaminazione. Siamo quindi di fronte ad una descrizione opposta a quella degli armeni di De Bianchi, che in parte ci aiuta a bilanciare i pregiudizi dell’ufficiale italiano, in parte ne propone di nuo- vi — e di riciclati.

Nonostante l’inclinazione al pensiero nazionalista, l’etnocentrismo della Jenkins si esprime su un piano religioso. Il contributo della Jenkins – che narra di una società meritevole che in quel momento, come era ben noto, era straziata

dai soprusi – parrebbe la cartina tornasole di un’opinione pubblica statunitense che stava sviluppando il mito della cultura armena (a scapito, in maniera indi- stinta, dei turchi), basandosi sulla mitizzazione dei cristiani che, più di chiun- que e proprio come all’inizio dei tempi, erano stati martirizzati in territori ne- mici per difendere la (propria) causa universale (Daniel, 1959: 254). L’inter- vento di Jenkins mette in gioco una polarizzazione estrema degli schieramenti che richiama direttamente lo scoppio della prima guerra mondiale e che, su un piano religioso, non sarebbe mai tramontato.

Ad ogni modo, la situazione dell’Altopiano, come la si può dedurre dal lavoro di Jenkins, è ancora una volta quella di una terra di confine caratterizza- ta dalle continue migrazioni.

“The Armenians of Turkey, noting the improved conditions of their brothers in Russia, are emigrating thither in flocks, and at the outbreak of the present war in Europe [la prima guerra mondiale, ndr] many went over the frontier to offer their service to Russia, and many more are watching with eager hope the progress of the Allies at the Dardanelles.” [357]

L’avanzata nei Dardanelli a cui Jenkins fa accenno (un’informazione che colloca temporalmente la stesura dell’articolo) è la stessa che culminerà in un disastro umano: pur segnata da perdite ingenti da entrambi i lati, l’incauto at- tacco dell’Intesa e la scellerata resistenza dell’esercito ottomano, porta alla ri- balta il coraggio del giovane colonnello Mustafa Kemal, mentre la flotta ingle- se affonda e assieme a lei rischia di affondare l’altrettanto giovane Primo Am- miraglio dell’esercito britannico, Winston Churchill (Dumont, Georgeon, 1989: 669). Ciononostante, sul fronte orientale, i fenomeni migratori tra i territori ot- tomani e il Caucaso meridionale non si fermano, anzi, sembrano favoriti dal- l’instabilità politica così come, nel 1896, 1897 e nel 1909, erano stati incentiva- ti da apici di violenza nei confronti dei sudditi ottomani di religione cristiana, come la Jenkins sottolinea riportando le testimonianze delle sue allieve raccolte subito dopo la rivoluzione dei Giovani Turchi [337-41].

La situazione precaria e la militarizzazione dei territori dell’Impero e della parte musulmana della società ottomana si trasforma in tutte le province orien- tali in scontri violenti e soprusi nei confronti delle minoranze, indipendente- mente dalla loro appartenenza politica o dall’eventuale militanza. Un senso dif- fidenza e di paura cresce nella popolazione, dando vita ad autoindotte migra- zioni verso oriente, in particolare delle comunità armene, che sperano di trova-

re una situazione migliore nella Russia zarista. Ad inasprire questo fenomeno di lungo corso, il cui inizio era già stato raccontato da De Bianchi più di cin- quant’anni prima, si aggiunge nel 1915, anno di pubblicazione del saggio di Jenkins, quell’improvvisata urgenza di evacuare la popolazione civile delle zo- ne di guerra ottomane vicine al fronte russo (Dumont, Georgeon, 1989: 669), che, dopo anni di tensioni e lotte fomentate dalla propaganda nazionalista e razzista, si trasformerà in men che non si dica nella tragedia della deportazione e di un massacro sistematico dagli effetti devastanti.

Melville Chater: le strade ferrate, la guerra mondiale e la fine dell’esotismo A quattro anni di distanza dalla pubblicazione di Jenkins, nel novembre del 1919, appare sulle pagine del National Geographic Magazine un altro articolo che si occupa delle regioni al confine turco-russo. Il contributo di Jenkins è ri- chiamato non solo dalla coincidenza del territorio di indagine, ma più diretta- mente anche dall’introduzione, in particolare nell’uso della stessa formula reto- rica — benché reinterpretata in maniera meno ideologica e più autocritica.

“Ask the average American what he knows about the Transcaucasus, and he will probably draw from his boyhood memories the fact that it produced those blonde-haired beauties who used to be headline curiosi- ties in dime museums. And if you particularize in Transcaucasian topog- raphy by asking «What do you know about Georgia?» it is ten to one that he will answer promptly, «Sherman marched through it».

( And so, it was not without curiosity that I, as an average American, caught from a British transport’s deck my first glimpse of those mountain-ringed shores which the maps of one’s childhood depicted as a pea-green isthmus lying between the Black and Caspian Seas.” [393]3

L’autore di queste righe è Melville Chater, uno dei pionieri dei reportage fotografici. L’articolo si intitola “The land of the stalking death: a journey through starving Armenia on an American relief train”.

Chater incarna perfettamente la figura del giornalista corrispondente alla fine dalla prima guerra mondiale. I suoi contributi sono brevi diari, strutturati sulla prospettiva dell’average American, che guardano con curiosità ed etno- centrismo alla società locale e che saranno pubblicati con continuità sul Natio-

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3 Se non altrimenti indicato le citazioni rientrate si riferiscono a: CHATER Melville, 1919. “The

Land of the Stalking Death: A Journey through Starving Armenia on an American Relief Train”. National Geographic Magazine, 36/5, pp. 393-420.

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