cento a oggi: bagitto ‘giudeo-livor-
nese’, gambero ‘ladro’, goio ‘sciocco’”,
in Lingua nostra, LXXII n.3-4, (2011),
pp. 106-115.
L’autore propone in quest’articolo una dettagliata ricognizione sulla genesi e la storia (dal primo Ot- tocento a oggi) di tre voci di origine giudeo-ita- liana, ovvero bagitto (‘giudeo-livornese’), gam-
bero (‘ladro’) e goio (‘sciocco’). Per quanto ri-
guarda il primo di questi elementi, Franceschini sottolinea come, rispetto alle altre varietà giudeo- italiane, il giudeo-livornese presenti tratti partico- lari, quali l’assenza di forme tipiche del livornese e la presenza, invece, di caratteri provenienti da
un lato dal sistema giudeo-italiano centromeridio- nale, dall’altro da quello ibero-romanzo. La pe- culiarità del giudeo-livornese verrebbe appunto confermata dal fatto che si tratta dell’unica par- lata, nel panorama di quelle giudeo-italiane, a es- sere designata da un apposito glottonimo, ovvero
bagito o bagitto. L’autore presenta a questo punto
una ricostruzione delle varie attestazioni di questa voce, in primis un’opera del 1832, La Betulia li-
berata in dialetto ebraico, che costituisce la più
significativa testimonianza ottocentesca del giu- deo-livornese ed è probabilmente attribuibile a Luigi Duclou, insegnante di francese a Livorno. Qui bagitto viene impiegato col significato pro- priamente etnico di ebreo, mentre in lavori più tardi (risalenti cioè al primo Novecento) sarà pos- sibile trovare bagito (con la dentale scempia) im- piegato non solo come etnico ma anche come glottonimo; nell’articolo si citano in particolare i sonetti giudeo-livornesi di Guido Bedarida, nella cui Introduzione l’autore stesso avanzava due pro- poste in merito all’etimo di questa voce, una se- condo cui bagito sarebbe da associare al termine
vagito (per via della cadenza strascicata della par-
lata giudeo-livornese, che ricorderebbe un piagni- steo infantile) e l’altra che invece ipotizzava una sua discendenza dallo spagnolo bajito (diminutivo di bajo, ‘basso’, nel senso di popolare, parlato dalla plebe). Quest’ultima ipotesi appare in gene- rale più solida, anche tenendo conto del consenso che ha raccolto presso diverse studiose (Massa- riello Merzagora, Bellucci), le quali l’hanno letta in chiave sociolinguistica assegnando al termine
bajito la funzione di designazione di una low va- riety. Franceschini si discosta però da questa in-
terpretazione, sottolineando come non ci siano at- testazioni in giudeo-spagnolo o in ibero-romanzo del diminutivo bajito utilizzato in tal senso, men- tre ritiene più probabile uno sviluppo espressivo di questa voce a partire dalla sua funzione avver- biale, che mostra lo slittamento semantico dal si- gnificato di ‘bassino’ (proprio dell’aggettivo) a quello di ‘pianino, sommessamente’: infatti, i ri- chiami piuttosto evidenti, già in spagnolo, a un’intimità evocata dal ‘parlar sommesso’ pos- sono aver favorito un impiego del termine per in- dicare la dimensione intima, gergale e sotterranea delle parlate ebraiche. Il fenomeno fonetico del rafforzamento della dentale sarà poi da attribuirsi a una reazione, nel gergo ebreo-livornese, all’op-
posta tendenza alla degeminazione consonantica, presente sia nello stesso giudeo-livornese che in ambito sefardita. Passando all’analisi del secondo termine, gambero con valore di ‘ladro’, l’autore illustra innanzitutto le prime attestazioni di questo uso gergale del termine, dopodiché si sofferma su una sua probabile connessione con l’ebraismo non adattato gannàv (‘ladro’), con plurale ganna-
vìm, da cui discendono verbi come ganavià(re) o (n)ganaveà(re) a Firenze e Livorno, ganaviar a
Venezia ecc., voci passate anche ai gerghi dei non ebrei (negli ambienti degli ambulanti o del malaf- fare). Anche la forma gambero ha origine, con ogni probabilità, da una simile evoluzione, a cui vanno aggiunti da un lato l’operazione semantica (frequente nei gerghi) di ridefinizione del signifi- cato dell’omonimo gambero, dall’altro l’uscita in -ero che si ripete anche in altre voci con signifi- cato simile (ganaverre, ‘ladruncolo’ sempre in li- vornese e ganfer ‘ladro’ nel Rotwelsch, il gergo dei vagabondi tedeschi). Di notevole interesse, in- fine, anche la storia dell’ultimo dei tre termini presi in esame da Franceschini, ovvero goio col significato di ‘gonzo, sciocco’. In questo caso, la forma primaria è da individuare nella voce del- l’ebraico post-biblico goy, le cui varie derivazioni hanno raggiunto sia lo yiddish che il giudeo-por- toghese e il giudeo-spagnolo, come pure le varietà giudeo-italiane, dalle quali si sono diffuse anche alle parlate circostanti, al punto che sono riscon- trabili nelle opere di autori del calibro di Leo- pardi, Pirandello, Sciascia, Primo Levi ecc. Nel corso di questi passaggi, si assiste anche a una graduale fissazione del significato della forma femminile goià in ‘serva, fantesca’ (nelle famiglie ebraiche l’unica cristiana in casa era appunto la serva), mentre il valore semantico della forma maschile gòi diventa gradualmente quello di ‘sciocco, gonzo’, probabilmente per influenze le- gate al mondo del commercio e quindi alla sfera della truffa e dell’inganno (esistono numerose at- testazioni in questo senso, provenienti da varie parti d’Italia). L’autore suggerisce però di non tra- scurare la presenza di voci parallele nell’Italia mediana, quali gójjo ‘matto, bizzarro, sciocco’ a Viterbo, gògiolo ‘stupido’ a Città di Castello, e ancora gójjo ‘pazzo’ e ‘stupido’ a Orvieto ecc. In letteratura, queste voci sono state associate a una famiglia lessicale rappresentata nella Toscana orientale e meridionale da bóglio, bógliolo, bó-
gliulo oppure góglio, gógliolo gógliulo, che risal-
gono a un deverbale dal latino BULLIRE (BUL- LJO) e rimandano a significati come ‘uovo mal covato, barlaccio’, oppure ‘fico mal maturato’ ecc. o, se riferiti all’uomo, ‘debole, fallito, sterile ecc.’; tuttavia, dato che resta ancora senza una spiegazione definitiva la questione il passaggio a
g- da b- originario, Franceschini propone (ricor-
dando che a Viterbo, ad esempio, fino al 1569 ri- siedette una nutrita comunità ebraica, con le na- turali conseguenze di interferenza linguistica) di considerare la possibilità che le forme del tipo
gójjo dell’Italia mediana possano essere connesse
o addirittura derivanti dall’ebraismo gòio, in at- tesa di conferme risolutive.
Si conclude così questa breve incursione nel pa- norama linguistico giudeo-italiano, evocato con i suoi intrecci e influssi socio-culturali mediante la vita di tre parole che, come sempre, ci restitui- scono l’immagine in divenire delle comunità lin- guistiche viventi e parlanti. [Maria Teresa Ven-
turi].