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A Land of Fabulous Wealth in Gold and Silver, Exotic Fruits, and Natural Wonders: l’India e le sue bizzarre creature nella letteratura classica

l’Oriente ‘mostruoso’ dall’antichità alla fine del Medioevo

1.1 A Land of Fabulous Wealth in Gold and Silver, Exotic Fruits, and Natural Wonders: l’India e le sue bizzarre creature nella letteratura classica

Come ha più volte evidenziato Giuseppe Tardiola nel suo Atlante fantastico del medioevo, non è certo uno sforzo da poco stabilire con precisione il momento in cui, nel bacino del Mediterraneo, cominciarono a prendere forma tutti quegli ‘orizzonti onirici’ che l’uomo occidentale avrebbe collocato di preferenza in un oriente utopistico, strabordante di prodigi, ricchezze, e mostruosità.9 Se ci asteniamo dal

prendere in considerazione temi, topoi e stereotipi che, seppur con le debite attenzioni, non è erroneo ricondurre a un background simbolico comune alle diverse culture indoeuropee,10 è a Erodoto di Alicarnasso che possiamo riconoscere la

paternità della prima ‘cartina’ di quegli scenari esotici.11

Le sue celebri Istorìai, composte da nove libri, sono considerate la prima grande opera in prosa della letteratura greca e il primo grande frutto della storiografia occidentale. Con esse, infatti, l’autore prendeva le distanze dai suoi predecessori, da lui sprezzantemente definiti logogràphoi (‘scrittori di fiabe’), che, poco preoccupati di consultare fonti o di esaminare documenti, mescolavano con eccessiva ingenuità ciò che era degli uomini e ciò che questi ultimi erano soliti attribuire agli dei. Egli per primo si preoccupò di distinguere tra le cose che aveva potuto osservare con i propri occhi, quelle che gli erano state riferite dagli altri e quelle che erano frutto della sua                                                                                                                

9 Cfr. Giuseppe Tardiola, Atlante fantastico del medioevo, Anzio, De Rubeis, 1990, pp. 47-67. Di

«orizzonti onirici» parla, in un fondamentale studio al riguardo, Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, traduzione italiana di Mariolina Romano, Torino, Einaudi, 1977, pp. 257-277 (Pour un autre Moyen Âge. Temps, travail et culture en Occident. 18 essais, Paris, Gallimard, 1977).

10 Si pensi solo a draghi, giganti e mostri di ogni tipo diffusi nel folklore comune ai popoli indoeuropei,

a volte con analoghe funzioni (ad esempio, custodi di tesori oppure di principesse recluse in tetri castelli); ai popoli fantastici noti agli occidentali e da questi situati in quadranti tutt’altro che orientali (gli Iperborei per Erodoto erano abitanti dell’estremo nord). Non si dimentichi, infine, il fatto che, anche se ovviamente il problema va affrontato soprattutto alla luce della ricerca filologica, alcune delle bizzarre creature ‘indiane’ di cui si parlerà nelle pagine successive compaiono anche in contesti culturalmente non condizionati dall’immaginario greco. Gli Sciapodi (uomini dotati di un’unica gamba con un piede gigantesco con il quale ripararsi dal sole cocente) si trovano, a titolo esemplificativo, anche in alcune narrazioni islandesi e gallesi (cfr. la Saga di Eirik il Rosso, in AA. VV., Antiche saghe islandesi, a cura di Marco Scovazzi, Torino, Einaudi, 1973, pp. 140-141; Racconti gallesi del Mabinogion, in AA. VV., Saghe e leggende celtiche, 2 voll., a cura di Gabriella Agrati, Maria L. Magini, Milano, Mondadori, 1982, p. 188).

11 Lo storico greco Erodoto (484 - 425 a.C.), politicamente avverso a Ligdami II, tiranno di

Alicarnasso, che governava la città grazie all’appoggio del “Gran Re” di Persia Dario I, nel 457 a.C. circa , lasciò la sua città, per fuggire a Samo, città aderente alla Lega delio-attica, d’orientamento antipersiano. Ritornò in patria intorno al 455 a.C. vedendo così la cacciata di Ligdami. Nel 454 a.C. Alicarnasso entrò nella sfera d’influenza ateniese, divenendo tributaria della città attica. Dal 447 a.C. soggiornò ad Atene, dove conobbe Pericle, per stabilirsi, infine, nella colonia panellenica di Thurii (in Magna Grecia), alla cui fondazione collaborò intorno al 444 a.C. Qui morì nel 425 a.C., lasciando la monumentale opera Istorìai (Le Storie).

convinzione, e su tali criteri di obiettività costruì la narrazione dell’espansione dei Persiani, dalle loro origini sino alla conquista ateniese di Sesto, nel 478 a.C.12

Furono, ad ogni modo, solo le vicende strettamente collegate al proprio popolo ad essere trasmesse ai posteri con straordinaria dovizia di particolari; alle genti sottomesse qua e là nel lontano Levante, che risiedevano «verso l’aurora e il sole nascente», l’abile prosatore non dedicò che scarni accenni: è proprio in queste sintetiche descrizioni che fanno la loro comparsa più rilevante gli indiani.13

Descritti come «nomadi, [che] si cibano di carni crude» e «che si accoppiano in pubblico, come le bestie e hanno tutti lo stesso colore, molto simile a quello degli Etiopi», essi appaiono agli occhi del lettore più mostruosi per i loro barbari costumi che per il loro aspetto esteriore.14 Non è un caso che l’autore con scandalo ponga

l’accento sulla loro truce consuetudine al cannibalismo: «chi è giunto a vecchiaia lo immolano e ne fanno banchetto; ma sono ben pochi quelli che giungono a contare

                                                                                                               

12 Della sterminata bibliografia sul primo storico dell’Occidente, si segnalano solo alcuni studi

significativi sull’invenzione del metodo storiografico e sulla descrizione dell’Altro: François Hartog, The Mirror of Herodotus. The Representation of the Other in the Writing of History, Berkeley, University of California Press, 1998; Marco Donati, Le Storie di Erodoto. Etnografia e racconto, Pisa- Roma, Istituti Editoriali e Poligrafici, 2000; Rosaria Mignolo Munson, Telling Wonders. Ethnographic and Political Discourse in the World of Herodotus, Ann Arbor, University of Michigan Press, 2001; Ead., Black Doves Speak. Herodotus and the Languages of Barbarians, Cambridge, Harvard University Press, 2005; Lorenzo Miletti, Linguaggio e metalinguaggio in Erodoto, Pisa-Roma, Fabrizio Serra, 2008. È di Marco Tullio Cicerone (106-43 a.C.) la definizione di Erodoto come pater historiae (Marco Tullio Cicerone, Opere politiche. Lo stato, le leggi, i doveri, testo latino a fronte, a cura di Leonardo Ferrero e Nevio Zorzetti, Torino, UTET, 1974, I, 1, 5, p. 417: «Quinto – Capisco, fratello, che ritieni che diverse siano le leggi da osservare in una poesia e quelle della storia. Marco – Naturalmente, Quinto, dal momento che in questa (tutto) si riconduce alla verità, ed in quella il più al dilettare, per quanto anche in Erodoto, il padre della storia, ed in Teopompo vi siano innumerevoli leggende»).

13 Erodoto, Storie, testo greco a fronte, 2 voll., introduzione di Kenneth H. Waters, a cura di Luigi

Annibaletto, Milano, Mondadori, 2000, vol. I, III, 99-101, pp. 577-579. Poiché nel seguito si farà riferimento ad alcuni popoli dell’Africa Orientale come ‘indiani’, si precisa che per il mondo antico e medievale (e ben oltre) l’Etiopia fu considerata prolungamento del continente ‘indiano’, e pertanto una sua regione. Già Omero sembrava sostenere una simile identità tra le due regioni, come si evince dal suo capolavoro: «ma quando nel corso degli anni giunse il momento / che gli dei destinarono al suo ritorno in patria, / in Itaca, neppure allora sfuggì alle prove, / neppure tra i suoi cari. Ne avevano pena tutti gli dei, / tranne Poseidone, che aveva un feroce rancore / verso l’illustre Odisseo, finché non tornò in patria. / Ma lui si era recato fra gli Etiopi lontani – gli Etiopi che si dividono in due ai confini del mondo, quelli del Sole al tramonto e quelli del Sole nascente – per ricevere un’ecatombe di tori e agnelli» (Odissea, testo greco a fronte, a cura di Guido Paduano, illustrazioni di Luigi Mainolfi, Torino, Einaudi, 2010, I, vv. 16-24, p. 3). Fu necessario attendere le grandi esplorazioni rinascimentali, soprattutto quelle a opera dei portoghesi, affinché i confini fra le coste orientali dell’Africa e le lontane regioni di là dell’Oceano Indiano fossero distinti più nitidamente. A questo proposito, cfr. Jacques Le Goff, Tempo della Chiesa e tempo del mercante. Saggi sul lavoro e la cultura nel Medioevo, pp. 257- 259. Per le descrizioni delle ‘specie esotiche’ citate in questo capitolo, si rimanda alla sezione Strumenti/2 (Piccolo dizionario illustrato delle ‘razze mostruose’ esotiche), pp. 499-513.

tanti anni, dato che, prima di giungere a quel traguardo, ognuno che cade ammalato viene ucciso».15

Oltre che per questi brevi cenni etnografici, la digressione dedicata da Erodoto all’India è rilevante anche perché, per la prima volta, compare un racconto che riscuoterà un’ampia fortuna, tanto da essere ripreso, riproposto e variato per diversi secoli: la leggenda delle formiche gigantesche che scavano e custodiscono l’oro e delle astuzie umane per venirne in possesso. Vista la vitalità futura di questa narrazione, vale la pena qui riassumerla.

Per predare il prezioso metallo ai temibili insetti, «di dimensioni inferiori a quelle dei cani, ma superiori a quelle delle volpi»,16 gli indiani attendono che il sole

sia alto affinché per la calura le formiche siano costrette a nascondersi sotto terra alla ricerca di riparo e protezione. Il volontario che parte per la missione porta con sé un giogo di tre cammelli, «a sinistra e a destra, due maschi […], in mezzo una femmina. Su quest’[ultima] sale il cercatore d’oro che avrà avuto cura di aggiogarla dopo averla strappata ai figli».17 Una volta raggiunti i formicai, gli indiani caricano il loro bottino

sull’esemplare femmina e galoppano via rapidamente. Scoperta la rapina, le formiche si lanciano all’inseguimento ed è proprio in questo momento che coloro che le hanno derubate mettono in atto la seconda parte del piano: abbandonano i cammelli maschi, più lenti e goffi nella corsa, e proseguono la loro fuga a dorso delle femmine che, spronate dall’amore materno per i piccoli abbandonati, non danno segno di stanchezza. Sono i cammelli maschi a ritardare l’inseguimento delle formiche beffate e a patire la morte sotto i loro voraci morsi. In questo modo – spiega Erodoto – gli indiani possono finalmente beneficiare di uno dei doni con cui la natura li ha ricompensati in quanto abitanti di un paese dalle condizioni estreme, esattamente come i greci vengono premiati con il «clima più bello, di gran lunga il più temperato».18

Completano questo affresco dell’India alcune pennellate dedicate alla rievocazione di un personaggio, nei confronti del quale l’autore si sentiva evidentemente debitore per alcuni degli aneddoti narrati: Scilace di Carianda.19 La sua

                                                                                                               

15 Ibid.

16 Ibid., III, 102, pp. 579-581. 17 Ibid.

18 Ibid.

19 Scilace di Carianda (VI secolo a.C.), fu il primo navigatore greco ad esplorare le foci dell’Indo, tra il

519 e il 516 a.C., per conto del re persiano Dario I. Raggiunto l’Oceano Indiano navigò verso ovest giungendo fino in Egitto, per gettare infine l’ancora nei pressi dell’attuale Canale di Suez, come

relazione di viaggio, mai pervenutaci, doveva mostrarsi tutt’altro che disinteressata a quelle notizie inverosimili, e al di fuori di ogni tassonomia naturale, di cui sarebbe stata ghiotta l’età di mezzo: pare certo, infatti, che la prima testimonianza sui Panozi, così chiamati perché dotati di spropositati padiglioni auricolari, sia da ricondurre alla sua esperienza. E a questo punto non sorprende la circostanza che proprio questi ineffabili ‘Orecchioni’ siano rimessi in scena, circa mezzo secolo più tardi rispetto a Erodoto, da Ctesia di Cnido (V-IV secolo a. C.).20

Oltre a una voluminosa Storia della Persia (Persikà), egli pubblicò anche L’India (Indikà), un libricino che, al di là delle inesattezze, delle imprecisioni e di un lampante gusto per l’elemento meraviglioso, possiede l’eccezionalità di essere il primo scritto a noi noto che sia monograficamente dedicato all’omonimo paese.21

Sopravvissuto alle intemperie del tempo grazie alla meticolosa attività di recensione di Fozio (820-893), che lo incluse tra le fonti della sua Biblioteca,22 il volume si caratterizza per la contraddittorietà dei suoi contenuti: dati all’apparenza plausibili e veritieri, derivanti da colloqui che l’autore parrebbe avere avuto con ambasciatori e mercanti, si mescolano inestricabilmente con sogni e invenzioni che le generazioni future dimostreranno essere impietosamente inesistenti.23 Su un solo aspetto non

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                              attestato da Erodoto (IV, 44, p. 637). Si veda Aurelio Peretti, Il periplo di Scilace. Studi sul primo portolano del Mediterraneo, Pisa, Giardini, 1979.

20 Ctesia di Cnido (V-IV secolo a.C.) è ricordato soprattutto per aver servito con l’incarico di medico

per diciassette anni, dal 415 al 398 a.C., alla corte persiana di Artaserse II, che curò per una ferita subita nella battaglia di Cunassa. La permanenza lunga quasi due decenni è attestata dallo storico del I secolo a.C. Diodoro Siculo: «Ctesia di Cnido […] visse ai tempi delle spedizioni di Ciro contro suo fratello Artaserse; fu fatto prigioniero e il re lo tenne presso di sé per le sue conoscenze mediche, e per diciassette anni lo onorò. Ora, costui afferma d’aver indagato approfonditamente le gesta di ciascuno dei re medi nelle pergamene reali dove i Persiani secondo una certa legge tenevano il racconto dei loro antichi fatti e di aver composto la sua storia, presentandola ai Greci» (Biblioteca storica, testo greco a fronte, 2 voll., a cura di Giuseppe Cordiano e Marta Zorat, Milano, BUR, 2004-2014, vol. I, II, 32, 4, pp. 511-515). Per la biografia di Ctesia, si veda Stefano Micunco, Introduzione, in Ctesia, Storia della Persia. L’India (Fozio, Biliotheca, 72), testo greco a fronte, con la traduzione inedita di Jean-Baptiste Constantin, a cura di Stefano Micunco, Roma-Padova, Antenore, 2010, p. 10.

21 A questo proposito, cfr. John W. McCrindle, Ancient India as described by Ktêsias the Knidian. Being a Translation of the Abridgement of his “Indika” by Phôtios, and of the Fragments of that Work preserved in other Writers, with introduction, notes and index, Calcutta, Spink & Co, 1882.

22 Fozio I, detto il Grande (820 circa - 893), venerato dalla Chiesa ortodossa e scomunicato da quella

cattolica, fu due volte patriarca di Costantinopoli e in questa veste partecipò attivamente alle dispute che portarono allo scisma greco. Ma, innanzitutto, egli fu un uomo d’immensa erudizione. Leggeva instancabilmente, annotava, riassumeva. Delle sue 279 schede di lettura di testi di ogni genere, oggi per una metà circa scomparsi, si compone la sua Biblioteca, opera che come poche altre dell’antichità ci apre squarci abbaglianti su molto di ciò che del mondo classico si è perduto per sempre. Per un profilo biobibliografico sull’autore e per un quadro della sua opera, si veda Nigel Wilson, ‘Il patriarca recensore’, in Fozio, Biblioteca, a cura di Nigel Wilson, traduzione dal greco di Claudio Bevegni, Milano, Adelphi, 1992, pp. 13-51.

23 La disillusione di numerosi viaggiatori medievali sarà, infatti, inenarrabile, come si può ben cogliere

dallo slancio emotivo delle dichiarazioni di alcuni di loro. Su questo tema si veda, oltre, il paragrafo 1.7.

sembrano esserci dubbi e incertezze: nel testo, l’India è consacrata definitivamente come la terra delle meraviglie.

Realtà geograficamente indefinita, essa include prima di tutto l’area della valle dell’Indo, ma vi rientrano anche terrae incognitae, presentate e disposte secondo una specie di criterio del «tanto più lontano tanto più fantastico».24 In questo percorso, che

conduce progressivamente verso lidi sconosciuti e lande desolate, si succedono descrizioni di ogni genere: di particolarità metereologiche (l’assenza di pioggia, la potenza degli uragani), di minerali dalle virtù magiche (come il ferro in grado di stornare le tempeste), di fonti miracolose (come quella della verità), di piante esotiche (la canna indiana e l’albero dell’ambra), di animali stravaganti (reali come l’elefante e il pappagallo, leggendari come il grifone e l’unicorno), di belve semiumane terribilmente feroci come la marticora.

Nient’altro, ad ogni modo, sembra aver destato tanto entusiasmo nell’autore come le mostruose genie umane di cui egli ci mette a conoscenza. Nel cuore del paese, ad esempio, ci viene detto che vivono degli uomini dalla carnagione scura, conosciuti con l’appellativo di Pigmei: «molto piccoli di statura», hanno barbe fluenti e capelli così lunghi da poter sfruttare questa folta coltre di peli «come una vera e propria veste».25 E se da un punto di vista puramente estetico non sono

particolarmente dotati («hanno il naso schiacciato e aspetto sgradevole»), fisicamente sono stati ricompensati con la prestanza sessuale, che gli consente di riprodursi con grande facilità, e con la forza fisica, che impiegano prevalentemente nella caccia e nell’allevamento di animali, le cui dimensioni sono proporzionate alle loro.26

Sui «monti alti e inaccessibili», alle cui pendici i Pigmei hanno costruito i loro villaggi, trovano invece riparo i Calistri, il cui «gruppo […] raggiunge le centoventimila unità».27 Molto simili per abitudini e costumi ai loro ‘minuti’ vicini

delle pianure, essi hanno teste di cane, denti grandi, unghie affilate, e «una coda al di sopra delle natiche» parecchio grossa e villosa. Non sono in grado di parlare con voce umana e comunicano tra loro emettendo spaventosi latrati. Ciononostante, sono                                                                                                                

24 Dominique Lenfant, ‘Introduction’, in Ctésias de Cnide, La Perse, l’Inde, autres fragments, Paris,

Les Belles Lettres, 2004, p. CXLII.

25 Ctesia di Cnido (scheda 72), in Fozio, Biblioteca, a cura di Nigel Wilson, traduzione dal greco di

Claudio Bevegni, Milano, Adelphi, 1992, pp. 138-139.

26 Ibid., p. 139.

27 Ibid., pp. 138 e 142. Sulla collocazione delle genie mostruose su alture, come segno distintivo di una

particolare primitiva feroce barbarie, cfr. Marjorie H. Nicolson, Mountain Gloom and Mountain Glory. The Development of the Aesthetics of the Infinite, New York, University of Washington Press, 1963, pp. 39-49.

d’indole pacifica, qualità che confermano di possedere quando cercano di farsi capire dai loro potenziali interlocutori «con i movimenti delle dita e delle mani, alla maniera dei sordomuti».28 Essendo «abilissimi nel lanciare il giavellotto e nel tirare con

l’arco», non hanno problemi a procurarsi la selvaggina di cui si nutrono e sono disposti ad affrontare qualunque disagio pur di raccogliere i dolcissimi «frutti della siptachora (l’albero che produce l’ambra), dei quali sono ghiotti.29 Non scendono mai a valle, se non per praticare il baratto di alcuni prodotti (pane, farina, vesti di cotone) e prima che il sole tramonti si arrampicano nuovamente sulle loro montagne, dove trascorrono la notte alloggiati in grotte scavate nella pietra. L’interno di queste caverne è piuttosto inospitale: non ci sono letti, solo «semplici giacigli fatti di fogliame» e gli spazi sono spesso in condivisione con gli animali domestici, la cui presenza rende l’ambiente ancora più sporco e disordinato. Da quel che leggiamo, tuttavia, l’igiene personale non sembra essere una prerogativa assoluta per i padroni di casa: «le donne si lavano una volta al mese – in coincidenza del ciclo mestruale – e in nessun’altra occasione; gli uomini invece non si lavano, ma si sciacquano solo le mani».30

Per quanto spartano, il modo semplice e libero con cui essi affrontano la quotidianità garantisce loro salute e longevità: «vivono infatti centosettant’anni, ma alcuni di loro giungono a viverne duecento».31

I Cinocefali (come saranno più spesso identificati in seguito) non sono tuttavia gli unici amanti delle alture. Ancora più in alto di loro, arrampicate sulle vette scoscese delle medesime catene montuose, si sono stanziate altre due popolazioni. Poco, o quasi nulla, si sa dei membri della prima, che non mangiano cibi solidi, non bevono acqua e traggono il sostentamento dal latte. «Quando nasce loro un bambino, questi non ha ano e non evacua: le natiche, per la verità, le ha, ma sono saldate fra loro, cosicché non gli è possibile evacuare».32

Questa caratteristica anatomica non sembra invece riguardare i rappresentanti dell’altra comunità, le cui donne, però, sono uniche per un altro aspetto: «partoriscono una sola volta nella vita, e le loro creature nascono già con denti bellissimi […] e capelli e sopraccigli canuti». Celebri nella regione per la loro bellicosità e abilità con                                                                                                                28 Ibid., p. 142. 29 Ibid., p. 143. 30 Ibid., p. 144. 31 Ibid. 32 Ibid., pp. 144-145.

le armi, ogni anno il re degli indiani recluta cinquemila di loro per il suo esercito. Essi, afferma lo storico di Cnido, sono uomini dalle orecchie «così grandi da coprire le braccia fino ai gomiti e, nel contempo, avviluppano loro la schiena, giungendo a toccarsi fra loro».33 Come ha rilevato Fozio nel suo riassunto, Ctesia

racconta queste storie fantastiche e sostiene che quanto scrive è la pura verità; aggiunge che egli riferisce cose in parte vedute direttamente, in parte apprese da testimoni oculari, e che molte altre – ancor più stupefacenti di queste – ne ha tralasciate, perché chi non le ha viste non le ritenesse pure invenzioni dello scrittore. E qui termina l’opera.34

Con questa rivendicazione di veridicità, che diventerà un tòpos nella letteratura del meraviglioso orientale, si chiudevano dunque i mirabolanti racconti di Ctesia, tappa fondamentale per la creazione dell’immaginario greco sull’India come continente del fantastico. 35 Questo costrutto culturale avrà il tempo di fissarsi per più di mezzo

secolo, fino a quella vera e propria rivoluzione della conoscenza costituita dal viaggio di conquista di Alessandro Magno.

Alessandro il Macedone (356 a.C.–323 a.C.) modificò radicalmente la concezione ellenica dell’oriente.36 Figlio di Filippo II e allievo di Aristotele, sbaragliò                                                                                                                

33 Ibid., p. 148. 34 Ibid.

35 L’autoaffermata veridicità di Ctesia sarà fatta oggetto di parodia da Luciano di Samosata (125-190

circa) nel preambolo alla sua Storia vera: «per esempio Ctesia, figlio di Ctesiaco, di Cnido, il quale scrisse intorno al paese degli Indi e alle cose che si trovano in esso, cose che né egli stesso vide, né udì da altri che dicesse il vero» (Storia vera, introduzione, traduzione e note di Quintino Cataudella, testo