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l’Oriente ‘mostruoso’ dall’antichità alla fine del Medioevo

1.3 The Marvels of the East, ovvero le mirabili corrispondenze

A capostipite della letteratura teratologica del Medioevo, si pone il De rebus in Oriente mirabilibus, una «lettera» – come la definì il filologo francese Edmond Faral – diffusa da un originale in lingua greca (di cui si congettura solo l’esistenza), tradotto in latino non più tardi degli inizi del VI secolo.75 Il documento ci è pervenuto, oltre

che negli ampi stralci riconoscibili all’interno degli Otia imperialia di Gervasio di Tilbury (XIII secolo), attraverso tre testimoni, redatti tra il VII e l’VIII secolo: la Epistola Premonis regis ad Traianum imperatorem, la Epistola Fermetis Divo Adriano, e il De rebus in Oriente mirabilibus, titolo con il quale è più comunemente conosciuto. Vale la pena tuttavia accennare ai due testi meno noti, che chiamano in causa niente meno che gli imperatori Traiano e Adriano quali destinatari del testo. In tal modo, l’anonimo autore costruiva una cornice parastorica, legittimando così l’epistola come una sorta di dispaccio dalla periferia al centro dell’Impero. Si avviava quindi un viaggio ideale attraverso tappe obbligatorie, per avere un assaggio di quelle meraviglie che l’immaginario dell’epoca associava ormai automaticamente a luoghi e percorsi orientali.

Ciò che differenzia un’operetta come questa dall’immane sforzo enciclopedico affrontato da Agostino o da Isidoro è l’assoluta mancanza di indagine gnoseologica e precisione geografica, rimpiazzate invece dal puro gusto per il dato mirabile. Questo aspetto è esemplificato da un itinerario improbabile, che manifesta un’idea di viaggio tanto più evanescente quanto meno legata a tappe verosimili: balzando senza criterio apparente da Babilonia al Mar Rosso, alla Persia e poi di nuovo all’Egitto, quindi in Armenia e poi sulle coste dell’Oceano, l’ignoto compilatore mitiga appena il disordine espositivo precisando, di tanto in tanto, le distanze tra i luoghi: «Di là sino a Babilonia fanno centosessantotto stadi, corrispondenti a centoquindici leghe. […] Trecento stadi dividono la zona di Colonia dalla stessa Babilonia, mentre fanno duecento leghe da Archemedia».76 Tuttavia, non sfugge al lettore attento che, al di là

di questa patina pseudoscientifica, il cuore del libretto è l’elemento fantastico, nel quale hanno ampio spazio le razze mostruose: i Cinocèfali (capitolo VII), le Blemmie                                                                                                                

75 Cfr. Edmond Faral, ‘Une source latine de l’histoire d’Alexandre: la Lettre sûr les merveilles de

l’Inde’, Romania, XLIII, 1914, pp. 199-215 e 353-370.

(X), le donne barbute (XII), i Catini (XIV), i Donestri (XVI). Non mancano neppure riscritture di topoi ormai classici sull’India mirabilis, come la leggenda delle formiche che scavano l’oro:

È qui che nascono le formiche grandi come cani, dalle zampe di locusta, rosse e nere, dedite allo scavo dell’oro; lo raccolgono di notte sotto terra sinanche all’ora quinta del giorno, e lo portano alla luce. I coraggiosi abitanti del luogo mirano sempre a sottrarre quell’oro, e fan così: si prendono fra i cammelli i maschi e le femmine coi loro piccoli; tengono poi questi legati al di là del fiume Gargulo, e caricano le femmine del prezioso materiale. Spinte dall’amore per la prole, le cammelle volano verso i figli mentre i maschi restano sul posto. Le formiche iniziano quindi la caccia, li trovano e li divorano. Così, mentre le formiche sono impegnate nella carneficina dei maschi, le femmine riescono a riattraversare il fiume con le guide. Tale è la velocità dell’azione che sembrano volare.77

Ormai l’immaginario sull’Oriente è consolidato, e continua a rimbalzare da un’opera all’altra, come vuole la viziosa circolazione dei materiali tra testi affini, che si snodano lungo un percorso che è sempre lo stesso, e che spesso trova un potente tratto unificante nelle formidabili imprese di Alessandro Magno. Le gesta del condottiero Macedone costituiscono, infatti, sovente l’estremo appiglio di verosimiglianza per i fatti più strani e incredibili:

Altre donne di qua hanno denti di cinghiale e capelli sino ai piedi; code bovine spuntano da dietro e risulta che siano alte quindici piedi, splendide con quella loro pelle bianchissima; mostrano pure zampe di cammello e zampe asinine. Per via del loro orrido aspetto furono sterminate in massa dal nostro Alessandro il Grande di Macedonia: non essendo riuscito a catturarle vive, le uccise anche perché rappresentavano uno spettacolo osceno e ripugnante.78

In questo modo l’autore del De rebus in Oriente mirabilibus, oltre ad accentuare le sue pretese di storicità, collocava il suo libello nel novero delle opere medievali che riverberavano l’epopea di Alessandro Magno. Protagonista di questi testi, il grande generale appariva non soltanto come la figura storicamente attestata del conquistatore,                                                                                                                

77 Ibid. IX, p. 31. 78 Ibid. XIII, p. 35.

ma anche come esploratore e soprattutto difensore dei confini, baluardo contro il dilagare in Occidente delle creature mostruose di cui sempre più si temeva l’imminente avanzata.79

Emblematico, a questo riguardo, è un altro celeberrimo resoconto di viaggio: l’Epistola Alexandri ad Aristotelem magistrum, una lettera apocrifa redatta nel VII secolo da un’anonimo autore, che raccoglieva, amplificava e arricchiva di elementi fittizi materiali storicamente verificabili, tratti dalla corrispondenza tra il Macedone e il suo maestro.80

L’Epistola si presenta ancora una volta come un rapporto dalla periferia del regno verso il suo centro; tuttavia questa volta a scrivere non è un comune funzionario che informa il suo sovrano, ma il re stesso che racconta in prima persona la grande impresa, rendendo partecipe l’unica persona che reputi degna di ricevere le sue impressioni, quell’Aristotele che, grazie anche a questa lettera, si affermerà come uno dei massimi sapienti dell’antichità:81

Sempre memore di te anche fra le dubbiose sorti delle mie imprese, maestro carissimo, nel mio cuore secondo solo alla madre e alle mie sorelle e la cui brama di sapere non ha veramente confini, ho deciso di informarti sulle contrade d’India, sullo stato del cielo e sulle infinite razze di serpenti, di belve e di uomini, perché con la conoscenza di nuove meraviglie il tuo studio e il tuo ingegno possano diventare più grandi.82

La sconfitta del re persiano Dario spalanca le porte dello Sconosciuto, e da qui in poi comincia uno straordinario repertorio di stranezze animali e umane: immani serpenti, giganteschi ippopotami, scorpioni, granchi, leoni, pipistrelli dai denti umani, topi dal                                                                                                                

79 Sulla sopravvivenza del De rebus in Oriente mirabilibus nelle opere dei secoli successivi, e nello

specifico, nelle grandi enciclopedie dei secoli XII e XIII, cfr. Marcello Ciccuto, ‘Le meraviglie d’Oriente nelle enciclopedie illustrate del Medioevo’, in Michelangelo Picone (a cura di), L’enciclopedismo medievale, Ravenna, Longo, 1994, pp. 79-116.

80 Abbiamo notizia dello scambio di missive tra Aristotele e il suo allievo grazie a Giulio Valerio,

storico latino del III secolo d.C., che fu autore delle Res gestae Alexandri Magni, in tre libri. L’opera traduceva e ampliava, a sua volta, una biografia greca coeva del Condottiero, inaugurata da Callistene (370-320 a.C.), e, in seguito alla sua morte, completata da un autore anonimo oggi convenzionalmente identificato come Pseudo-Callistene.

81 Cfr. Jacques Le Goff, Gli intellettuali nel Medioevo, traduzione italiana di Cesare Giardini, Milano,

Mondadori, 1985, pp. 55 e sgg. (Les intellectuels au Moyen Âge, Paris, Seuil, 1957).

82 Anonimo, Lettera di Alessando il Macedone al suo maestro Aristotele suo sul viaggio in India e su

quel paese, in AA. VV., Le meraviglie dell’India (Le meraviglie dell’Oriente, Lettera di Alessandro ad Aristotele, Lettera del Prete Gianni), a cura di Giuseppe Tardiola, in appendice i testi latini, Roma, Archivio Guido Izzi, 1991, p. 63.

morso fatale, e uno strano ibrido con la schiena ricoperta di scaglie, il petto di coccodrillo e due enormi teste, di cui una zannata come di elefante. Superate tutti questi ostacoli, Alessandro si addentra nell’oscura India interior ed è qui che affronta gli Ittiofagi, i Cinocefali e le donne acquatiche.

Ma l’esperienza più sconvolgente è senz’altro la conoscenza anticipata del proprio destino, rivelata – su indicazione di due anziani incontrati per puro caso lungo il tragitto – dall’albero del Sole e da quello della Luna. Interrogato per primo, l’albero del Sole profetizza la morte prematura del Condottiero:

Proprio allora vedemmo le sommità degli alberi investite dai fulgenti raggi di Febo, nella luce del tramonto; il sacerdote ci esortò: «guardate tutti in alto, e ciascuno pensi in silenzio dentro di sé a quelle cose su cui intende consigliarsi». […] Pensavo se, vinto il mondo intero, potessi ritornare trionfante alla patria, a Olimpiade mia madre, alle sorelle carissime, e subito l’albero, come bisbigliando, rispose in indiana favella: «Alessandro, mai sconfitto in guerra, come hai domandato, sarai il solo signore di tutto il mondo, ma non tornerai vivo in patria; così hanno stabilito i fati della tua vita».83

Superato l’iniziale sgomento, Alessandro chiede sul far della sera ulteriori delucidazioni all’albero della Luna:

Chiedo dove sarei morto: al primo raggio di luna, accarezzato sulla punta e ricevuta luce, l’albero risposte, in greco: «Alessandro, giungi ormai alla fine della tua vita: morrai l’anno venturo, nel mese di maggio, in Babilonia. Riceverai morte da chi meno sospetti. […] Se ti rivelo il nome del traditore, tu cambieresti facilmente il destino che incombe sul tuo capo; con me si adirerebbero anche le tre sorelle, Cloto, Lachesi, Atropo, poiché con la mia rivelazione impedirei le loro trame. Pertanto, fra un anno e sette mesi morirai in Babilonia, non di ferro, come immagini, né di oro, né di argento, né di alcun altro metallo, ma di veleno. Tua madre, in una fine orribile e miserevole, verrà tempo che giacerà sulla strada senza sepoltura, pasto di uccelli e                                                                                                                

fiere. Le tue sorelle, invece, divenute come te, saranno a lungo felici; tu, infine, sta’ certo che, pur nel breve tempo che ti resta da vivere, diverrai re di tutto il mondo. Ora guardati dal chiederci altro».84

Su queste oscure note di morte la lettera si chiude, ma prima di cominciare un ritorno che non potrà compiersi, Alessandro erige due solidi pilastri d’oro di cento piedi e magnifici altari a Libero e ad Eracle. Questi monumenti e i riti di consacrazione a loro legati hanno una doppia funzione: da un lato segnare il nuovo confine raggiunto, dall’altro offrirlo alle proprie divinità, e farlo diventare una barriera magico-religiosa che imprigioni le mostruosità oltre il limes.85

Ma presto il costruttore di questo muro simbolico, come preannunziato dai due alberi sacri, verrà meno: allora il muro stesso potrà perdere la sua forza oppositiva e i mostri potranno crearsi un varco e penetrare senza controllo in Occidente.

Col suo cupo finale, l’operetta dichiarava quindi un’angoscia contemporanea, diventando il grido di paura di un’intera civiltà, che cercava di dare una spiegazione a un disordine percepito come incomprensibile. Dal suo scriptorium carico di libri, l’anonimo monaco probabile autore dell’Epistola contemplava fantasmi mostruosi antichi di mille anni, che non potevano non apparirgli come tetre anticipazioni del demoniaco. Erano mostri nati tra le righe dei libri, ed egli stesso conosceva un’unica arma capace di respingerli: la luce della parola. L’esito a cui approdò fu di rinchiuderli in una prigione letteraria: una lettera fittizia di un fittizio Alessandro Magno a un altrettanto fittizio Aristotele.