SOMMARIO: SEZIONE I - IL CONCETTO DI “FALSO”: 1. Introduzione. – 2. Il
concetto di “falso”. – 3. La dimensione “umana” e “psicologica” del falso. – SEZIONE II - IL “FALSO” NELL’ORDINAMENTO GIURIDICO E LA RATIO SUA INCRIMINAZIONE: 4. La dimensione “giuridica” del falso. – 4.1. Il “falso” nella legge penale. – 4.2. – (Segue) Il “falso” nel pensiero della dottrina. – 5. Le ragioni dell’incriminazione del falso. – 6. Il “formalismo” delle fattispecie di falso. – 6.1. (Segue) …e la necessità di una loro interpretazione “tipizzante” e “teleologica”. – 6.2. (Segue) La colpevolezza nei delitti di falso: il “dolo” e il suo oggetto. – SEZIONE
II-LA “FEDE PUBBLICA”: FINE DI UN DOGMA?: 5. Il concetto di “fede pubblica”: dalle
origini al Codice Zanardelli del 1889. – 5.1. (Segue) La fede pubblica nel Codice Rocco e le posizioni della dottrina. – 5.2. (Segue) Le posizioni della giurisprudenza. – 6. La nostra posizione. – 7. Quale destino per i delitti contro la fede pubblica? Le prospettive de jure condito. – 7.1. (Segue) Le prospettive de jure condendo.
S
EZIONEI
IL CONCETTO DI “FALSO”
1. – Introduzione.
Che la tematica del falso sia considerata una delle più complesse e tormentate del diritto penale è cosa risaputa. Non v’è trattazione sull’argomento che non premetta tale assunto(296). Quando si parla di “falsità”, invero, si parla
(296) Celebre la frase dell’A
NTOLISEI che, in uno scritto della metà del secolo scorso, poi ripreso nella Parte
speciale del suo Manuale, considerava la materia in esame incontestabilmente «la più complessa, delicata e ardua della Parte speciale del codice penale», e la paragonava a un «fascio di ortiche» (Sull’essenza dei delitti
contro la fede pubblica, in Riv. it. dir. pen., 1950, 1-2, p. 625; Manuale di diritto penale. Parte speciale5, Vol.
II, Milano, Giuffrè, 1966, pp. 489-450). Prima di lui il CARRARA,nella Parte speciale del suo Programma, riferendosi al falso documentale, l’aveva metaforicamente assimilata ad una figura mitologica: «La materia del falso documentale è nella scienza criminale una Sfinge» (Programma del corso di diritto criminale. Parte
speciale2, Vol. VII, Lucca, Giusti, 1871, p. 373). Per F.R
AMACCI, La falsità ideologica nel sistema del falso
documentale, Napoli, Jovene, 1965, p. 213, tutta la materia del falso sarebbe disseminata da una «apparente
tortuosità ed oscurità». Secondo A.R.LATAGLIATA, Spunti problematici in tema di falsità documentali, in
AA.VV. Riflessioni ed esperienze sui profili oggettivi e soggettivi delle falsità documentali, a cura di U. Dinacci, A.R. Latagliata, M. Mazza, Padova, Cedam, 1986, p. 9, si tratta di uno dei temi più problematici e controversi del diritto penale, paragonabili a quelli dell’oggetto giuridico e dell’elemento psicologico del reato. Per A.CRISTIANI, voce Fede pubblica (delitti contro la) (diritto penale comune), in Nss. Dig. It., VII,
Torino, Utet, 1961, p. 172, «In questa tormentata materia, tutto è, ancor oggi, oggetto di discussione, di dubbio e di critica: dal problema dell’oggetto giuridico e del fondamento della incriminazione, alla natura ontologica del falso penale; dalla individuazione dell’oggetto materiale, all’analisi dei valori su cui può
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inevitabilmente di “verità” – la prima, infatti, è la negazione della seconda –, e la “verità” è un concetto dalle forti implicazioni etiche, filosofiche e religiose(297). Anzi, quella di “verità” sarebbe una nozione esclusivamente filosofica «in quanto si estende oltre l’ambito di qualsiasi scienza particolare e della stessa teologia»(298).
Se, in effetti, il tentativo di definire il concetto di verità ha impegnato per millenni esclusivamente i filosofi, lo sforzo di elaborare una “teoria del falso” ha però affannato soprattutto i giuristi(299). Il perché è semplice: il falso, qualunque cosa si intenda con esso, è un mezzo per violare la legge e offendere interessi altrui, e il diritto non poteva restarne indifferente. A differenza della verità, dunque, il falso sembra essere un fenomeno prettamente, se non esclusivamente, giuridico.
Legislatori e giuristi di ogni epoca hanno offerto soluzioni differenti al problema del falso. Le scelte e le giustificazioni addotte a loro sostegno, tuttavia, non sempre sono apparse convincenti. Secondo molti, le difficoltà incontrate nel dare una soluzione definiva a tale problema sarebbero dovute al fatto che è proprio il concetto di “falso” ad avere una portata incerta, tale da rendere nebulosa l’intera materia(300).
cadere la condotta falsificatrice; dai quesiti sui tipi di condotta in cui il falso si estrinseca e diviene penalmente perseguibile, ai dibattiti intorno all’elemento psicologico necessario e sufficiente a rivestire degli estremi della colpevolezza il fatto materiale della falsificazione, non c’è aspetto sistematico o esegetico che non presenti ragioni di estrema difficoltà».
(297) Come del resto accade per molti altri concetti rilevanti per il diritto penale, quali la vita, la natura,
l’uomo, la dignità, il pensiero, la volontà, la morale stessa, ecc.
(298) E.BERTI, Verità e filosofia, in Ragione e verità: l’alleanza socratico-mosaica, a cura di V.
Possenti, Roma, Armando, 2005, p. 23, per il quale, dunque, spetta alla filosofia «dire che cosa significa “verità”, cioè proporre una definizione della nozione di verità, e non a caso la storia della filosofia abbonda di tentativi, compiuti da vari filosofi, di definire appunto la verità», anche considerando che «il vero è coestensivo dell’essere e l’indagine sull’essere nella sua totalità tradizionalmente spetta alla filosofia». Così anche in ID., Che significa «vero»?, in Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti – Classe di scienze
morali, lettere ed arti, Vol. 169, 1-2, Venezia, 2010-2011, pp. 1-2, ove si rileva che «se si cerca la
bibliografia riguardante i termini “vero”, “falso”, “verità”, si trova che essa è per la maggior parte opera di filosofi, e si scopre che quasi tutti i filosofi, da Parmenide ai giorni nostri, si sono occupati della verità e ne hanno dato una definizione. Il problema, semmai, e quale definizione scegliere, perché ce ne sono anche troppe». Tra i più recenti scritti sulla verità si ricordano: R. BUTTIGLIONE, Sulla verità soggettiva. Esiste
un’alternativa al dogmatismo e allo scettiscismo?, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015; G.VATTIMO, Addio
alla verità, Roma, Meltemi, 2009; F.D’AGOSTINI, Introduzione alla verità, Torino, Bollati Boringhieri, 2011;
G.ZAGREBELSKY, Contro l’etica della verità, Bari, Laterza, 2010.
(299) Non a caso, la locuzione “teoria del falso” è contenuta nei titoli di alcuni tra i più importanti
lavori dedicati alla materia, primo fra tutti quello del Carnelutti del 1935. In particolare, quest’ultimo illustre Autore affermava che la “teoria giuridica del falso”, per il suo valore, «vorrebbe varcare i limiti del diritto penale, sebbene, naturalmente, in gran parte i materiali per la costruzione appartengono a questo. Considerata nel campo del diritto penale, si tratta di una teoria particolare […]. Se però, rispetto al reato in genere, è una teoria particolare, rispetto al reato di falso è una teoria generale, la quale riguarda dunque assai più il genere che non le singole specie, onde vi si delineano piuttosto i caratteri generici del falso che i caratteri specifici di ciascuna tra le sue varietà»: Teoria del falso, Padova, Cedam, 1935, p. VI.
(300) Cfr. G.D
ELITALA, Concorso di norme e concorso di reati, in Riv. it. dir. pen., 1934, p. 109; C.
CRISTIANI, voce Fede pubblica (delitti contro la), cit., p. 184;A.MALINVERNI, voce Fede pubblica (delitti
contro la), Enc. dir., XVII, Milano, Giuffrè, 1968, p. 73, secondo il quale «la dottrina da tempo si è adoperata
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In particolare nel secolo scorso, di fronte al nuovo panorama normativo offerto dal Codice Rocco, la dottrina si è impegnata nell’individuazione degli elementi comuni alle numerose fattispecie incriminatrici del falso che consentissero di ridurre ad unità una materia tanto ampia ed eterogenea quanto aggrovigliata(301). Che tale sforzo sia stato coronato da successo, o quantomeno abbia condotto ad un risultato soddisfacente, non spetta a noi dirlo. Sicuramente la complessità della prova si è riflessa sulle esposizioni della materia che non sempre
“ampio” e “stretto”, od “amplissimo”, “meno largo” e “più ristretto”, e far coincidere una di queste categorie con quella del falso punibile. Questi criteri di qualificazione, però, avendo natura quantitativa imprecisata, non offrono all’interprete un valido orientamento per la delimitazione dei delitti di falso. Il concetto di “falso” non indica con sufficiente approssimazione la caratteristica del gruppo dei reati in esame» (v. anche ID.,
Teoria del falso documentale, Milano, Giuffrè, 1958, p. 200);F.RAMACCI, La falsità ideologica nel sistema
del falso documentale, cit., p. 261, per il quale «il concetto di falso rivela una così grave indeterminatezza da
suscitare perplessità notevoli riguardo alla sua utilizzazione ai fini della ricostruzione unitaria delle varie classi dei delitti contro la fede pubblica, ma rende addirittura problematica la differenziazione di quei delitti da altre categorie di reati»; A.NAPPI, voce Fede pubblica (delitto contro la), in Enc. giur. Treccani, XV, Roma, Treccani, 1989, p. 3; ID., Falso e legge penale2, Milano, Giuffrè, 1999, p. 3, per il quale «La genericità
del concetto di falso […] deriva esclusivamente dalla palese insufficienza di una definizione del falso tautologicamente proposta solo in termini di negazione del vero e non seguita da alcuna indicazione positiva circa il concetto di “verità”»; P.MIRTO, La falsità in atti3, Milano, Giuffrè, 1955, pp. 7-8 e 32, il quale individua le radici di questa ambiguità nel diritto romano, in particolare a partire dalla Lex Cornelia de falsis in cui non era possibile rinvenire una nozione generica di falso, «onde sarà facile constatare, che in questo argomento del falso non si avranno nozioni definite, che la scienza del diritto criminale sarà costretta a seguire dei sistemi prettamente casistici, i quali saranno influenzati sia dalla nozione di Paolo: “falsum est
quidquid in veritate non est”, sia dalla intestazione della legge Cornelia, che comprendeva casi diversi e
disparati sotto il titolo di falso. E si vedrà che per effetto della tradizione romanistica la quale non riuscì a determinare i confini fra falso e frode, le scuole del medio-evo furono incerte nel distinguere il falso da quelle forme che si caratterizzano per l’estremo del doloso inganno o doloso mendacio, e non seppero porre i confini tra falso e simulazione». In questo senso anche A.CRISTIANI, voce Fede pubblica (delitti contro la) (diritto
penale comune), cit., pp. 712-713, per il quale l’elaborazione della legislazione romana in materia, a partire
dalla Lex Cornelia, «non consente di rintracciare neppure le linee di una nozione generica di falso», arrivando a comprendere reati che, per tipo e struttura, «neppure sarebbero potuti rientrare, a rigore, nella latissima, celebre definizione di Paolo». Anche gli storici del diritto rilevano questa ambiguità. Per G.G. ARCHI,
Problemi in tema di falso nel diritto romano, in ID., Scritti di diritto romano. Studi di diritto penale. Studi di
diritto postclassico e giustinianeo, Vol. III, Milano, Giuffrè, 1981, p. 1587, per il quale «il falso punibile non
è concetto che possa elaborarsi su linee logiche con valore eterno. Anche per esso [...] vale il principio che l’ambiente storico, ove lo si considera, ne determina la natura ed il contenuto».
(301) Ad esempio, per A.NAPPI, Falso e legge penale2, cit., p. 1, dal punto di vista metodologico, è
preferibile «una ricostruzione unitaria della struttura del falso, valida per tutte le ipotesi criminose», piuttosto che «muovere esclusivamente dall’interpretazione delle norme positive, prescindendo da qualsiasi inquadramento dommatico». Come, invece, sostiene F.RAMACCI, La falsità ideologica nel sistema del falso
documentale, cit., pp. 9-10 e 52, per il quale, con riferimento particolare alle falsità documentali, afferma che
«una considerazione meramente dommatica di un problema che come quello del falso è prima di tutto un problema di interpretazione, non può, per definizione, consentire il raggiungimento di un risultato di certezza». Così, sulla distinzione tra falsità ideologica e materiale, continua l’Autore: «Se si prescinde dalla disciplina normativa del falso, se cioè si tratta di vedere quale rilievo abbia questo problema della reale o supposta autonomia delle due forme di falso “per la legge”, l’adesione all’una o all’altra elle soluzioni prospettate può avere solo il valore di un atto di fede». Si tratta, quindi, di un «vizio metodologico» che ha inficiato la ricerca e che, «qualora non fosse assistita da una diversa impostazione metodologica, servirebbe soltanto ad aggiungere un’altra serie di “opinioni” e di “tesi” a quelle così numerose fiorite introno al concetto della falsità. Ed invece la ricerca è non soltanto suggerita, ma imposta dall’esigenza di riportare il problema del falso sul terreno dell’interpretazione dei dati normativi dal quale, anche se non sempre coscientemente, troppo spesso ci si era allontanati».
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hanno brillato per chiarezza e completezza, finendo spesso, e quasi inevitabilmente, per convergere – nonostante il dichiarato obiettivo di predisporre una teoria “generale” del falso o, comunque, di trattare dei delitti contro la fede pubblica in generale – sulle cc.dd. “falsità in atti” (o “documentali”), che, pur rappresentando senza dubbio il settore più controverso e delicato, non possono assurgere a fondamento costitutivo o archetipo, né fornire i criteri di interpretazione di una intera classe di reati. Ne è, altresì, conseguita l’elaborazione di tante diverse “teorie del falso”, che partendo dalla individuazione del bene giuridico tutelato ha comportato una reinterpretazione complessiva della materia in ogni suo aspetto, con differenti punti di vista sulla ratio della incriminazione, su cosa è o dovrebbe essere considerato “falso”, sul contenuto delle condotte incriminate e i requisiti dell’oggetto materiale, sull’evento del reato, sulla rilevanza e sul fondamento delle ipotesi di falso non punibile, nonché inevitabilmente sull’oggetto dell’elemento psicologico, rappresentato in ogni caso dal dolo.
D’altro canto, però, non può negarsi come sia veramente arduo impostare una trattazione sistematica della materia. Convinti che anche il presente lavoro non sarà esente da pecche analoghe a quelle che hanno intaccato le opere di chi, più illustre di noi, si è cimentato nella materia, cercheremo per quanto possibile di procedere con ordine nella esposizione dell’argomento.
2. – Il concetto di “falso”.
Quando si affronta la tematica del falso ci si imbatte innanzitutto in un primo grande problema di ordine terminologico e definitorio, ossia un problema concettuale. Come affermava Umberto Eco, le definizioni di termini “falso”, “falsificazione”, “contraffazione” e altri, «sono piuttosto controverse» e «tutti insieme dipendono da una definizione semiotica “soddisfacente” di Verità e Falsità»(302).
La questione terminologica, però, se nel linguaggio quotidiano non è particolarmente avvertita, non facendo molta differenza quali e quante parole usiamo per farci capire – in quanto soccorrono anche il tono della voce, i gesti, uno sguardo, ecc. –, e non essendoci alcuna conseguenza pregiudizievole per chi usa parole ambigue o errate con riferimento a un determinato contesto semantico, se non quella di non essere compreso, nel mondo del diritto essa assume una importanza fondamentale, in quanto la definizione dei concetti usati dal legislatore nelle proposizioni normative delimitano il perimetro della legge e della sua
(302) U.E
CO, Falsi e contraffazioni, cit., p. 162-163, per il quale, però, «Sembra, comunque, piuttosto
difficile cercare di partire da una definizione di Verità e Falsità per poi raggiungere (dopo alcune migliaia di pagine occupate da una rivisitazione completa dell’intero corso della filosofia d’Oriente e d’Occidente) una definizione “soddisfacente” dei falsi».
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applicazione(303). Nel linguaggio giuridico, invero, l’uso dei termini è – o almeno dovrebbe essere – inequivocabile, ossia ad ogni parola dovrebbe corrispondere un significato univoco, in applicazione dei principi di legalità e di certezza del diritto. Molte volte purtroppo a idee e intenzioni chiare non corrisponde un linguaggio adeguato. È quanto è accaduto nella formulazione di linguaggio giuridico, non solo penale, cui si fa utilizzo di diversi termini che richiamano quella situazione che abbiamo definito di mistificazione della realtà. Alla parola “falso” e ai suoi derivati (falsità, falsificazione, falsificato, falsificare, ecc.), che richiamo la caratteristica tipica della situazione e che è il termine coniato per indicare tale situazione, oltre a non trovare una definizione, si affiancano termini quali “contraffazione”, “alterazione”, “adulterazione”, “simulazione”, “dissimulazione”, “artificio”, “inganno”, “raggiro”, “frode”, “truffa”, “fraudolenza”. Tutti termini che indicano situazioni che, in qualche modo, hanno generano la mistificazione o il celamento della realtà, e che vengono spesso usati come sinonimi (es.: l’alterazione e l’adulterazione) o come specie di un genus (ad es., l’artificio o raggiro sono modalità della truffa e quest’ultima è una forma di frode; la contraffazione è, insieme all’alterazione e all’adulterazione, una specie di falsificazione). In dottrina, ad esempio, si ritiene che la “frode” indichi nelle espressioni legislative, non sempre univoche, talvolta l’astuzia o l’artificio, talaltra l’inganno, o ancora e più ampiamente un comportamento sleale(304).
Per definire tali concetti ed elaborare una qualsiasi “teoria del falso” è allora indispensabile definire il concetto, simmetrico e opposto, di “verità”. Fornire, tuttavia, definizioni di termini quali “vero” e “falso”, oltre che spettare ai filosofi – e chi scrive non lo è –, è impresa ardua, a meno di volersi accontentare di definizioni tautologiche in base alle quali è “vero” tutto ciò che non è “falso” ed è “falso” tutto ciò che non corrisponde al “vero”.
Si tratta di concetti particolarmente spinosi, per i quali dovremmo accontentarci di una definizione “soddisfacente”(305), che, se può non esserlo per ogni ambito della conoscenza, possa esserlo almeno per la scienza giuridica, cioè per il diritto: una definizione, dunque, “pratica”, o meglio “strumentale”, della verità e del falso(306). Avvertendo anche che non è escluso che si possa arrivare ad
(303) Sul ruolo dei termini nel linguaggio giuridico rinviamo all’interessante e accurato lavoro di BICE
MORTARA GARAVELLI dal titolo Le parole e la giustizia. Divagazioni grammaticali e retoriche su testi
giuridici italiani, Torino, Einaudi, 2001. (304) L.C
ARRARO, Valore attuale della massima «fraus omnia corrumpit», in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1949, p. 786, il quale ritiene che questi significati possano essere ricondotti al concetto unitario di “mala fede” in senso oggettivo, che indica l’agire sleale o scorretto in danno di altri.
(305) Concordiamo in pieno – e come non esserlo – con U
MBERTO ECO, Falsi e contraffazioni, cit., p. 163-164, secondo il quale per raggiungere una «definizione “soddisfacente” di Verità e Falsità» servirebbero «migliaia di pagine occupate da una rivisitazione completa dell’intero corso della filosofia d’Oriente e d’Occidente». Una definizione soddisfacente che per il filosofo e logico ALFRED TARSKI, La concezione
semantica della verità e i fondamenti della semantica, in Semantica e filosofia del linguaggio, a cura di L.
Linsky, trad. it. di A. Meotti, Milano, Il Saggiatore, 1969, p. 28, rappresenta il «problema principale», cioè fornire una definizione della verità «che sia materialmente adeguata e formalmente corretta».
(306) Alla base del nostro ragionamento vi è la medesima intuizione di uno dei più illustri penalisti del
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escludere la convenienza di fare un utilizzo, seppur giuridico, di tali concetti.
Che cos’è, dunque, la “verità” e la “falsità”? Che cos’è “vero” e “falso”?(307) Come si accennava in precedenza, è stato soprattutto compito della
filosofia rispondere a queste domande. Ma, a contribuire a fornire una risposta a domande ritenute centrali per la vita dell’uomo, si sono cimentati pensatori di ogni genere, non solo filosofi, ma anche scienziati, linguisti, storici, giuristi, ecc., i quali però sono giunti alle più svariate conclusioni. Si è sostenuto, ad esempio, che si avrebbero più verità, oppure che la verità sarebbe un concetto relativo, fino ad arrivare a coloro che, anche di recente, ritengono che la verità non esista o che sia un concetto inutile(308). Ognuna di queste posizioni rispecchia la corrente di pensiero dei vari pensatori (scettiscismo, relativismo, pragmatismo, ecc.)(309). Eppure, parlare di più verità, di verità relative, o persino negare che si possa parlare di verità non aiuta sicuramente al progresso interiore, etico o morale, sociale, giuridico e soprattutto scientifico dell’uomo.
Nella percezione dell’uomo comune, la verità evoca qualcosa di immutabile, assoluto ed eterno, ma anche di arcano, inconoscibile, insondabile, e persino di sacro. Essa si pone nei confronti dell’uomo come oggetto principale, se non unico,
secondo alcuni scienziati e filosofi sarebbe insussistente, superflua e inadeguata, proponeva di non ricercare il concetto «puro» di causa, ma «di chiarire se ed entro quali limiti i concetti causali abbiano per il diritto penale un valore pratico»; è, dunque, «l’utilità che consente di distinguere il concetto penalistico di causa dal concetto usato negli altri campi di indagine»: voce Rapporto di causalità, in Enc. giur. Treccani, XXIX, Roma, Treccani, 1991, pp. 2-3;
(307) Un primo dilemma riguarda l’uso dei termini, se sia corretto cioè riferirsi alla verità e al suo
opposto in forma e funzione sostantivale, come “verità” e “falsità”, ovvero in forma e funzione aggettivale, come “vero” e “falso”. E.BERTI, Che significa «vero»?, cit., p. 12, ad esempio, preferisce utilizzare «il termine “vero” anziché quello di “verità”, cioè l’aggettivo al posto del sostantivo, proprio per indicare la