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PROPRIETÀ INDUSTRIALE E DIRITTO PENALE

A) La «proprietà industriale».

La locuzione «proprietà industriale» non è contenuta nel Codice civile, né nel Libro Terzo, intitolato “Della proprietà”, come ci si potrebbe aspettare visto che si tratta pur sempre di una “proprietà”, né nel Libro Quinto – sotto il Titolo II, dedicato al “lavoro nell’impresa”, o i Titoli VIII e IX, rispettivamente dedicati all’“azienda” e ai “diritti sulle opere dell’ingegno e sulle invenzioni industriali” – come ci si dovrebbe aspettare trattandosi di una proprietà dell’imprenditore. La disciplina della proprietà industriale è, infatti, contenuta nella legislazione complementare, cioè nel “Codice della proprietà industriale” introdotto nel nostro ordinamento dal D.Lgs. n. 30 del 2005(41). Secondo quanto dispone il primo articolo di tale Codice, la proprietà industriale «comprende marchi ed altri segni distintivi, indicazioni geografiche, denominazioni di origine, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori,

                                                                                                               

(38) Come si dirà nel Capitolo terzo il riferimento alla proprietà «intellettuale» contenuto nel comma

terzo degli artt. 473 e 474 c.p. è un refuso del legislatore, in quanto a seguito delle riforma del 2009 questi ultimi non contemplano più la contraffazione delle «opere dell’ingegno», che appunto sono oggetto della “proprietà intellettuale”.

(39) Sugli elementi normativi si rinvia per tutti a L.R

ISICATO, Gli elementi normativi della fattispecie

penale. Profili generali e problemi applicativi, Milano, Giuffrè, 2004.

(40) La nostra trattazione si limiterà ad una descrizione sintetica di tali concetti, e cercherà di cogliere

l’essenza e i profili più rilevanti dei vari istituti, rinviando per ulteriori approfondimenti alle trattazioni specifiche in materia.

(41) Prima dell’entrata in vigore del Codice della proprietà industriale l’espressione era contenuta in

altre leggi, tra cui la Legge marchi di cui al R.D. 21 giugno 1942, n. 929 (artt. 11 e18, lett. f), senza tuttavia che ne venisse fornita una definizione.

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informazioni aziendali riservate e nuove varietà vegetali»(42). Tale definizione, però, non consente di comprendere quale sia la natura di quella che la stessa legge definisce «proprietà». Solo attraverso l’analisi del suo oggetto possono ricavarsi elementi utili per la ricostruzione del relativo concetto.

Quelle indicate dalla legge sono evidentemente entità di natura immateriale – ossia non costituite da materia, come le “cose” –, che, per il ruolo che svolgono nello sviluppo economico del Paese e per il progresso materiale della società, sono considerate, al ricorrere di determinate condizioni, meritevoli di protezione da parte dell’ordinamento attraverso il riconoscimento di una situazione giuridica soggettiva in capo al loro creatore o utilizzatore(43).

Il rapporto di appartenenza che lega tali entità al loro creatore o utilizzatore ha ingenerato nella dottrina l’opinione, oramai consolidata, che tale situazione sia sostanzialmente assimilabile a quella del proprietario dei beni mobili e immobili, e, dunque, riconducibile allo schema dominicale della proprietà sulle cose contemplata dall’art. 832 c.c.(44), pur con le differenze dovute non tanto e non solo                                                                                                                

(42) La definizione tiene in considerazione quanto nel corso degli anni hanno disposto in materia a

livello internazionale, dalla Convenzione d’Unione per la protezione della proprietà industriale firmata a Parigi il 20 marzo 1883 all’Accordo TRIP’s (Agreement on Trade-Related Aspects of Intellectual Property

Rights) firmato a Marrakech il 15 aprile del 1994, con l’aggiunta delle informazioni aziendali riservate. Sulla

proprietà industriale si rinvia per tutti a A.MUSSO, voce Proprietà industriale, in Enc. dir., Ann. II, 2, Milano, Giuffrè, 2008, p. 868 ss., e bibliografia ivi citata.

(43) Si tratta, però, di entità del tutto eterogenee tra di loro, per cui è possibile ridurle ad unità

solamente dal punto di vista naturalistico, ossia per la loro immaterialità, rappresentando il «frutto del pensiero dell’uomo». Si può comunque procedere ad una loro summa divisio a seconda del loro contenuto: tali entità, infatti, possono essere distinte in idee (marchio, disegni e modelli, invenzioni, modelli di utilità, topografie dei prodotti a semiconduttori, nuove varietà vegetali, informazioni segrete), ossia di pensieri che apportano un quid di nuovo, e nomenclature (ditta, ragione e denominazione sociale, indicazioni geografiche e denominazioni di origine), ossia dei modi elaborati dal pensiero per indicare e descrivere una realtà. Solitamente, però, la dottrina industrialistica riconduce all’“idea” solamente l’invenzione e le opere dell’ingegno (diritto d’autore): v. per tutti R.FRANCESCHELLI, voce Diritto industriale, cit., p. 604, il quale

però rileva che la dottrina perviene a ricomprendere nella famiglia delle idee anche i marchi e gli altri contrassegni concependo questi ultimi come «materializzazioni di un’idea». E, come riteniamo, dal momento che anche il marchio, come i disegni e modelli, deve essere caratterizzato dalla novità e della capacità distintiva esso necessita di una elaborazione del pensiero, di una attività “creativa”, e quindi di una “idea”. Un’altra distinzione è quella proposta da G.FLORIDIA, Il Codice della Proprietà Industriale: genesi, finalità,

struttura, in AA.VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, Torino, 2012, p. 59, che

distingue gli strumenti del marketing creativo (marchio, indicazioni geografiche e denominazioni d’origine, disegni e modelli) e le creazioni intellettuali a contenuto tecnologico (invenzioni, modelli di utilità, topografie, nuove varietà vegetali, informazioni riservate). L’oggetto della tutela consente comunque di distinguere la proprietà industriale da quella c.d. “intellettuale”, che, pur essendo costituita da entità immateriali, concerne le opere dell’ingegno. Sulla proprietà intellettuale si rinvia a G. GIACOBBE, voce

Proprietà intellettuale, in Enc. dir., XXXVII, Milano, Giuffrè, 1988; A.MUSSO, voce Proprietà intellettuale,

cit., p. 890 ss. Sulle ragioni che hanno indotto il legislatore a non ricomprendere la materia del diritto d’autore nel Codice della proprietà industriale v. il par. 3 della Relazione illustrativa al Codice della proprietà

industriale. (44) Cfr. T.A

SCARELLI, Teoria della concorrenza e dei beni immateriali3, Milano, Giuffrè, 1960, p.

330 ss.; A. MUSSO, voce Proprietà industriale, cit., passim; G. FLORIDIA, Il Codice della Proprietà

industriale: genesi, finalità, struttura, cit., p. 58; P. SPADA, Il diritto industriale. Parte generale, cit., p. 6 ss.,

per il quale la locuzione “proprietà intellettuale” è «un’espressione convenzionale che compendia una molteplicità di tecniche giuridiche tra loro morfologicamente eterogenee, ancorché funzionalmente contigue, tre le quali l’“esclusiva” (o “privativa” che dir si voglia”) – cioè quella tecnica che culturalmente è stata

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alla natura delle entità, ma all’essere queste ultime tutelate nell’ambito e nei limiti dell’attività economica. Rispetto alle «cose» di cui parla l’art. 810 c.c., infatti, le entità che possono formare oggetto di diritti hanno, come detto, natura immateriale, e per tale ragione vengono comunemente denominate «beni immateriali»(45).

Anche il diritto sui beni immateriali si configura, invero, come ius excludendi omnes alios, ossia con quel carattere di esclusività che consiste nella facoltà di godimento di tali beni (più o meno illimitato a seconda della loro tipologia) e nel divieto che grava sui terzi del compimento di qualsiasi atto idoneo a turbarne il regolare svolgimento(46). In particolare, vista la destinazione economica del bene immateriale, l’esclusività si manifesta nell’attribuzione di un monopolio che si traduce nel diritto di utilizzazione economica, quale remunerazione per lo sforzo intellettivo e per i costi dell’attività d’impresa, e nel divieto di sfruttamento economico da parte di terzi che non sostengono pari sforzi e costi(47).

                                                                                                                                                                                                                                                                                                               

pensata come corrispondente alla proprietà» (op. cit., p. 12). Contra G.AULETTA –N.SALANITRO, Diritto

commerciale19, Milano, Giuffrè, 2012, p. 46, con riferimento ai soli segni distintivi, la cui disciplina non può

essere ricondotta allo schema dei diritti sui beni – e, di conseguenza, non possono essere considerati beni immateriali – in quanto il diritto all’uso esclusivo è riconosciuto nei limiti dell’interesse alla differenziazione rispetto agli imprenditori concorrenti.

(45) In argomento si rinvia a: A.M

ARIO, voce Beni immateriali (dir. priv.), in Enc. dir., V, Milano,

Giuffrè, 1959; P.GRECO, voce Beni immateriali, in Nss. Dig. It., II, Torino, Utet, 1958, p. 356; ID., I diritti sui

beni immateriali, Torino, Giappichelli, 1948. La definizione di “bene immateriale” risale al giurista tedesco

JOSEF KOHLER (1849-1919). Come ci illustra lo Spada (Il diritto industriale. Parte generale, cit., pp. 6-7) il Kohler «tentando di dare scientificità (come allora la si intendeva) alla tematica del diritto d’autore e delle invenzioni, propose l’impiego di una nuova figura concettuale che ebbe molta fortuna: il bene immateriale. Di fronte alla esistenza di leggi vecchie di qualche decennio, che accordavano diritti di sfruttamento esclusivo di invenzioni ed opere letterarie e artistiche, Kohler propose di concettualizzare la giovane esperienza normativa, presentando come bene l’invenzione o l’opera; bene aggettivato, poi, come immateriale in maniera da coglierne lo specifico: questo risiedendo in ciò che l’invenzione o l’opera d’arte non consistono nel nuovo dispositivo che realizza il “trovato” dell’inventore o nel libro che veicola il pensiero dell’autore, bensì nella soluzione originale di un problema tecnico, o nella creazione estetica. Insomma, in un prodotto spirituale, e quindi immateriale, e non nelle cose che lo rendono socialmente accessibile e fruibile: d’onde la contrapposizione, fortunata presso la giurisprudenza amante del linguaggio paludato, tra “corpus mysticum” (l’opera, l’invenzione) e “corpus mechanicum” (il libro, il dispositivo), contrapposizione presa a prestito dalla tomistica. Il pensare alle invenzioni ed alle opere letterarie ed artistiche in chiave di beni, anche se immateriali, aveva, per la cultura dell’epoca, non trascurabili vantaggi: consentiva di ragionare sui nuovi dati normativi attingendo agli strumenti concettuali compendiati in un istituto giuridico vecchio di duemila anni come la proprietà, così integrandoli nella grande architettura dei dogmi». Sulle diverse posizioni v. L. SORDELLI, voce Diritto industriale, cit., pp. 870-871. Come noto, particolarmente critico nei confronti del

concetto di «bene immateriale» è stato REMO FRANCESCHELLI: cfr. la voce Diritto industriale, cit., p. 603, il saggio Beni immateriali (saggio di una critica di un concetto), in Riv. dir. ind., 1956, I, p. 381 ss., e il

Trattato di diritto industriale, Vol. II, Milano, Giuffrè, 1961, p. 564. (46) Come affermato daG.F

LORIDIA, Il Codice della Proprietà industriale: genesi, finalità, struttura,

cit., p. 58, dunque, il comune denominatore di tutti i diritti di proprietà industriale è «il riferimento della protezione ad un elemento oggettivo del quale sia configurabile o un’attribuzione ad un soggetto determinato oppure il modo di utilizzazione».

(47) Secondo G.F

LORIDIA, Il Codice della Proprietà industriale: genesi, finalità, struttura, cit., p. 58,

tuttavia, fuoriescono dallo schema dell’esclusiva le indicazioni geografiche e le denominazioni di origine per i quali è disciplinato solo l’uso legittimo e che rientrano nella «titolarità collettiva di un diritto» che può essere fatto valere contro chiunque utilizzi impropriamente il segno.

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L’assimilazione tra le due proprietà – quella sulle cose e quella sui beni immateriali – è, del resto, rinvenibile già a livello normativo, in particolare nella simmetria tra l’art. 832 c.c. e gli artt. 2548 c.c. e 66 C.p.i. (per le invenzioni); gli artt. 2569 c.c. e 20 C.p.i. (per i marchi); l’art. 2592 c.c. (per i modelli di utilità); gli artt. 2593 c.c. e 41 C.p.i. (per i disegni e modelli).

Ulteriori profili depongono per l’assimilabilità tra le due proprietà. Essi sono stati individuati(48): 1) nella disponibilità del bene immateriale, che, al pari delle cose, può essere ceduto [trasferimento in licenza, trasmissione a titolo gratuito od oneroso (es.: donazione, usufrutto), costituzione in garanzia a terzi (art. 140 C.p.i.)], e che, altresì, consente il trasferimento del diritto al brevetto o alla registrazione nel caso di invenzioni e dei disegni e modelli (artt. 119 e 160, comma 3, lett. c), e la rinuncia al diritto (artt. 78 C.p.i.); 2) nei limiti al godimento e allo sfruttamento dei beni immateriali, di ordine generale, quali la liceità e la non contrarietà all’ordine pubblico, e di ordine speciale, quali l’esaurimento, l’uso consentito da parte di terzi (in via sperimentale, in ambito privato, per scopo di insegnamento e di analisi, in funzione meramente descrittiva e non distintiva), il preuso, l’onere di attuazione e il tempo(49); 3) nella comunione dei beni immateriali, ossia nella loro “comproprietà”, che, ai sensi dell’art. 6 C.p.i., è regolata, salvo patto contrario, dalle disposizioni del codice civile in tema di comunione di cose; 4) nella espropriabilità dei beni immateriali, che allo stesso modo delle cose può essere disposta solo per ragioni pubblica utilità (artt. 141 ss. C.p.i.), e nell’esecuzione forzata e sequestro di tali beni, per i quali l’art. 137 C.p.i. rinvia alle disposizioni del codice di procedura civile per l’esecuzione sui beni mobili; 5) nel regime di trascrizione dei diritti sui beni immateriali, che, modellato sul regime della trascrizione immobiliare ex art. 2643 c.c., impone la trascrizione degli atti traslativi o assimilabili di tali diritti presso l’U.I.B.M. (artt. 138 e 139 C.p.i.), corredato da un sistema pubblicitario simile in parte a quello catastale dei beni immobili (artt. 185 ss. C.p.i.). Inoltre, entrambe le tipologie di proprietà presentano la medesima struttura dominicale della tutela giurisdizionale, sotto i profili dell’appartenenza e della reazione giudiziaria alle turbative del legittimo godimento del bene da parte del titolare del diritto di proprietà industriale(50).

                                                                                                                (48) Cfr. A.M

USSO, voce Proprietà industriale, cit., passim.

(49) Con riferimento ai limiti costituiti dalla durata non illimitata del diritto di esclusiva e dall’onere

d’attuazione – stabiliti per conciliare l’esercizio e il contenuto del diritto dominicale sui beni immateriali con l’interesse pubblico all’accessibilità delle tecniche e dei prodotti industriali – si ritiene che essi non valgano a negare l’assimilazione tra le due proprietà. Sotto il profilo della durata, invero, il limite non vale per i marchi, per i quali è possibile rinnovare la registrazione senza limiti di tempo. Sotto il profilo dell’onere di attuazione, poi, si è assistito negli ultimi anni all’adozione di un assetto sempre più privatistico, a scapito dell’interesse pubblico allo sfruttamento delle risorse e all’eliminazione di monopoli inefficienti. Si consideri, poi, che anche la proprietà delle cose conosce una sorta di limite temporale dovuto al mancato esercizio del possesso, che è rappresentato dall’usucapione (artt. 1558 ss. c.c.).

(50) G.FLORIDIA, La tutela giurisdizionale, in AA.VV., Diritto industriale. Proprietà intellettuale e concorrenza, cit., p. 673. L’unica differenza, secondo l’Autore, tra proprietà materiale e immateriale «è data

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La tecnica di tutela degli interessi che gravitano attorno ai beni immateriali è quella della c.d. “esclusiva” (anche definita “privativa”), che si atteggia come tecnica reale e assoluta: reale, non nel senso che l’interesse inerisca ad una res, ossia ad una “cosa” in senso giuridico, e il diritto si soddisfi attraverso mezzi di reazione agli attentati alla appartenenza della res (come detto, infatti si tratta di entità immateriali), ma nel senso che colui al quale è accordata la tutela giuridica ha a disposizione una serie di rimedi volti a ripristinare la situazione anteriore alla lesione dell’interesse; assoluta, in quanto i rimedi possono ottenersi erga omnes, ossia contro chiunque attenti a tali interessi(51). Conseguentemente, quello della proprietà industriale assurge a vero e proprio diritto soggettivo reale e assoluto52, come quello di proprietà, comunemente definito come diritto “di esclusiva” (o “di esclusività” secondo la terminologia usata dal legislatore negli artt. 2569 e 2584 c.c.), ovvero, con riferimento alle invenzioni, “di privativa”(53).

Tale diritto, ai sensi dell’art. 2 C.p.i., si acquista mediante brevettazione (per le invenzioni, i modelli di utilità e le varietà vegetali), registrazione (per i marchi, i disegni e modelli, le topografie dei prodotti a semiconduttori, i modelli di utilità), o negli altri modi previsti dal codice (per le informazioni aziendali riservate). In particolare la brevettazione e la registrazione è attività amministrativa – avente natura di accertamento costitutivo (art. 2, comma 5, C.p.i.) – di un’autorità dello Stato, denominata “Ufficio Italiano Brevetti e Marchi” (U.I.B.M.), costituente una delle Direzioni generali in cui si articola l’attuale Ministero dello Sviluppo Economico, ossia la “Direzione Generale per la Lotta alla Contraffazione”.

La registrazione e la brevettazione danno così origine a «titoli di proprietà industriale», aventi efficacia costitutiva del diritto e che sono idonei «a tradurre il bene immateriale in un bene mobile registrato»(54), cui consegue la possibilità –

prevista, come accennato, dallo stesso Codice della proprietà industriale – di applicare la disciplina della circolazione dei beni materiali (es.: trascrizione, diritti reali di garanzia, esecuzione forzata)(55). In base all’art. 2 C.p.i., quindi, si distinguono i diritti di proprietà industriale “titolati”, ossia quella originati dalla brevettazione e dalla registrazione, da quelli “non titolati” (le informazioni                                                                                                                                                                                                                                                                                                                

titolare tare origine dalla stessa limitatezza fisica del bene che ne forma oggetto sicché si configura sostanzialmente come una proiezione della stessa appartenenza, con riguardo alla seconda l’esclusività del godimento può aversi soltanto per effetto della tutela giurisdizionale che renda praticabile ed effettivo il divieto che grava sui terzi di astenersi da qualsiasi comportamento che sia di sfruttamento del bene perché questo, a differenza di quello materiale, non è fisicamente finito, ma è suscettibile di un godimento plurimo e contemporaneo da parte dei consociati dell’ordinamento».

(51) P. S

PADA, Il diritto industriale. Parte generale, cit., pp. 17-18 e 22 ss.

(52) Così A.V

ANZETTI –V.DI CATALDO, Manuale di diritto industriale, cit., p. 37, i quali la qualifica

di diritto assoluto è stata ribadita dal Codice della proprietà industriale che annovera i segni distintivi diversi dal marchio registrato fra i “diritti di proprietà industriale”, così sostenendone la natura di diritti assoluti.

(53) Vedi S.G

IUSEPPE, voce Privative industriale, in Enc. dir., XXXV, Milano, Giuffrè, 1986.

(54) G.FLORIDIA, La tutela giurisdizionale, cit., p. 675.

(55) In pratica, il fenomeno è assimilabile a quello dei diritti di credito “incorporati” in titoli, i cc.dd.

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aziendali, i segni distintivi diversi dal marchio, le denominazioni di origine e le indicazioni geografiche) che sorgono al ricorrere di determinati presupposti di legge(56).

Sulla falsariga di quanto disposto dall’art. 832 c.c., possiamo definire la proprietà industriale come «l’insieme dei beni immateriali di cui il titolare ha il diritto di godere e disporre in modo pieno ed esclusivo, nei limiti e con l’osservanza degli obblighi stabiliti dall’ordinamento giuridico». Quella disciplinata dal Codice della proprietà industriale, pertanto, può a ragione essere definita come un nuovo “statuto” della proprietà, quella “immateriale”.

La normativa di riferimento, a livello nazionale, è contenuta principalmente negli artt. da 2563 a 2594 del Codice civile e nel D.Lgs. 10 febbraio 2005, n. 30, recante il “Codice della proprietà industriale”. A livello internazionale, le principali fonti normative sono costituite dalla Convenzione di Unione di Parigi del 20 marzo 1883 per la protezione della proprietà industriale (C.U.P.)(57) e dall’Accordo TRIP’s (Trade-Related Aspects of Intellectual Property Rights) firmato a Marrakech il 15 aprile 1994, che rappresenta la più estesa convenzione multilaterale in materia di proprietà intellettuale e industriale(58).

B) I «segni distintivi» dell’impresa.

Tra i beni immateriali che costituiscono la proprietà industriale rientrano i «segni distintivi», ossia quei segni che servono all’imprenditore per individuare l’impresa e l’azienda nel mercato economico, e a distinguere i beni e servizi prodotti(59). L’utilizzo di questa espressione – contenuta negli artt. 1 e 2, comma 2,

C.p.i.(60) – ha determinato problemi di coordinamento con quanto continua a prevedere la disciplina la disciplina della «concorrenza sleale» dettata dal Codice civile che, all’art. 2598, n. 1), prevede che è vietato l’«uso di nomi o segni distintivi idonei a produrre confusione con i nomi o con i segni distintivi legittimamente usati da altri». Secondo autorevole dottrina il rapporto tra le discipline vive in una dimensione di sovrapposizione e di integrazione, essendo quella contenuta nel Codice della proprietà industriale che regola i segni distintivi                                                                                                                

(56) Per i beni immateriali “titolati”, dunque, la sequenza logico-giuridica è quella in base alla quale: 1)

il frutto del pensiero viene dapprima riconosciuto meritevole di protezione attraverso il procedimento di brevettazione o registrazione, quale bene immateriale (corpus mysticum); 2) tale bene viene tradotto in un titolo di protezione attributivo del diritto di esclusiva avente natura di bene materiale; 3) il bene immateriale viene incorporato in un distinto bene che ne costituisce il supporto materiale, necessario per l’attuazione del diritto, che rappresenta la cosa accessibile e fruibile (corpus mechanicum).

(57) Convenzione ratificata dall’Italia, nella versione modificata all’Aja il 6 novembre 1925, con

R.D.L. 10 gennaio 1026, n. 169, convertito in successivamente in L. 29 dicembre 1927, n. 2701.

(58) Per una elencazione delle normative internazionali in materia di proprietà industriale, seppur

oramai datata, si rinvia a V. FRANCESCHELLI, voce Diritto industriale (diritto comparato, convenzioni

internazionali e legislazioni straniere), in Dig. Disc. Priv. – Sez. Comm., IV, Torino, Utet, 1989, p. 628 ss. (59) Sui segni distintivisi rinvia a:A.VANZETTI, Osservazioni sulla tutela dei segni distintivi nel codice della proprietà industriale, in Riv. dir. ind., 2006, 1, pag. 5; F.CIONTI, Osservazioni sui segni distintivi, loro

funzione e definizione, in Riv. dir. ind., 1975, 1, I, p. 429 ss.

(60) Il quale prevede che «Sono protetti, ricorrendone i presupposti di legge, i segni distintivi diversi

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diversi dal marchio registrato incompleta e, altresì, prevedendo quella sulla concorrenza sleale una disposizione sanzionatoria che consente di prendere «gli opportuni provvedimenti affinchè ne vengano eliminati gli effetti» (art. 2599 c.c.)(61).

In ogni caso, alla categoria dei segni distintivi appartengono sia i segni che assolvono una funzione individualizzante dell’impresa, ossia la ditta, la ragione e la denominazione sociale, e l’insegna; sia i segni che assolvono una funzione distintiva dei prodotti e dei servizi dell’imprenditore, tra i quali primeggia il marchio. Ciascuno segno, pertanto, si riferisce a momenti o a elementi differenti dell’attività imprenditoriale. I segni distintivi possono essere definiti anche come i simboli dell’impresa, ossia quegli elementi descrittivi e/o grafici che rappresentano in modo sintetico la realtà dell’impresa.

In particolare, la ditta, la ragione e la denominazione sociale servono a individuare l’attività dell’imprenditore, ossia l’attività economica organizzata al fine della produzione di beni e servizi (art. 2082 c.p.). Essi vengono anche definiti

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