• Non ci sono risultati.

Fattori psicologici che influiscono sul comportamento alimentare

Stress e alimentazione

L’etimologia del termine stress significa deriva dal latino “strictus”, la cui traduzione letterale può associarsi ai termini di “stretto”, “serrato” o “angusto”. Questo lemma viene utilizzato anche in fisica o in meccanica per designare determinate prove di laboratorio, nelle quali i metalli sono sottoposti al cosiddetto “carico di rottura”. Nell’accezione del linguaggio medico, invece, designa la risposta funzionale attraverso la quale un organismo è in grado di reagire ad uno stimolo di varia natura (Pancheri, Biondi, 2000).

Il contributo maggiormente importante nella definizione del termine, si deve allo studioso Hans Seyle, un medico austriaco nato a Vienna nel 1907. Seyle è famoso soprattutto per gli esperimenti che condusse su alcune cavie da laboratorio. Queste sperimentazioni consistevano nell’iniettare quotidianamente una sostanza fisiologica (innocua) valutando poi gli effetti che si mostravano a livello fisiologico sulle cavie. In alcuni esperimenti, Seyle, sottopose gli stessi anche ad altre condizioni, come temperature molto elevate o molto basse, agenti patogeni di varia natura ed anche tossine. I risultati che ottenne dalle numerose sperimentazioni vennero pubblicati su Nature, una delle più prestigiose riviste britanniche, in un articolo dal titolo: “Sindrome prodotta da diversi agenti nocivi” (Seyle, 1936).

Su questi animali Seyle, aveva avuto modo di riscontrare:

 Ulcere peptidiche (conosciute comunemente con il termine “ulcere dello stomaco”);

 atrofia marcata dei tessuti del sistema immunitario (nello specifico lo studioso riscontrò l’atrofia del timo, un organo appartenente al sistema linfatico);

Tutti questi sintomi vennero rilevati da Seyle, sia nei gruppi di cavie sottoposti all’iniezione ed a vari agenti stressanti (temperature elevate, agenti patogeni, etc), sia nel gruppo di ratti che aveva solamente ricevuto una quotidiana iniezione di soluzione fisiologica, in assenza di altri tipi di stressor. L’unico punto in comune tra questi animali, era proprio quello di aver subito delle iniezioni, e questo portò lo studioso ad interpretare tutte le manifestazioni cliniche rilevate come una risposta dell’organismo ad un ipotetico fattore esterno. A questo punto l’autore arriva a definire il concetto di stress come: “Una reazione adattativa e fisiologica, aspecifica, a qualunque richiesta di modificazione esercitata sull’organismo da una gamma assai ampia di stimoli eterogenei” (Seyle, 1936).

I contributi di Seyle, non si limitarono all’enunciazione del concetto di stress. Infatti, egli, grazie alle sue sperimentazioni, fu in grado di formulare quella che venne definita dal medico austriaco: “sindrome generale di adattamento”, intesa come una risposta generica fornita ad una stimolazione ambientale, da parte di un organismo, caratterizzata da aspecificità (Seyle, 1955).

Il termine aspecifico è molto importante in questa teorizzazione, in quanto svincola completamente una visione riduzionista biologica, che suppone che in un organismo che genera una qualche risposta, possa essere identificata una singola causa. In altri termini, si afferma che stimoli differenti, possano produrre una risposta non tanto determinata dalla natura della stimolazione, quanto piuttosto dalla sua intensità.

Nella Sindrome Generale di Adattamento, vennero identificate tre fasi distinte:

Fase di allarme: questa è la prima fase in cui incorre un soggetto che affronta uno stress. Questo stadio è caratterizzato dalla mobilitazione delle difese da parte dell’organismo, tramite l’attivazione dell’asse HPA (ipotalamo, ipofisi, surrene). Questo asse è largamente coinvolto nella risposta allo stress, ed è in grado di indurre una secrezione di cortisolo. Questa fase viene tipicamente indicata con il termine “reazione di stress acuto”;

Fase di resistenza: questo è il secondo stadio individuato da Seyle nel processo della Sindrome Generale di Adattamento. Nella fase di resistenza, l’organismo è impegnato a fronteggiare più o meno attivamente lo stimolo stressante, e dal

punto di vista dell’asse HPA, quello che si osserva è una continua iperproduzione dell’ormone cortisolo;

Fase di esaurimento: La fase di esaurimento è l’ultima fase in cui può incappare un soggetto. Questa si mostra nel momento in cui l’esposizione al fattore stressante si protrae nel tempo in modo abnorme, e pertanto l’organismo non si mostra più in grado di mantenere la precedente fase di resistenza. A livello ormonale, in questo stadio, la corteccia surrenalica entra in esaurimento funzionale, e questo può portare allo sviluppo di patologie che difficilmente appaiono come reversibili e che, in casi estremi, possono condurre perfino alla morte (Seyle, 1955).

L’importanza di questa concettualizzazione, si deve al fatto, che per la prima volta nella storia della fisiologia, veniva stabilito un rapporto netto, tra l’esistenza di uno stimolo esterno, ed una reazione organica interna all’organismo, misurabile, per altro, attraverso specifici dati di laboratorio. L’insieme di queste sperimentazioni, assieme a successivi contribuiti, hanno consentito di formulare una teoria maggiormente psicologica dello stress, definita appunto “teoria psicobiologica”. Alle dimensioni “psico” e “bio”, venne entro breve aggiunto anche un altro componente, ovvero la dimensione “sociale”. Questo portò ad una formulazione più attuale del concetto di stress, grazie proprio allo sviluppo del modello “biopsicosociale”. Grazie a questo modello si ha il superamento definitivo del determinismo medico che caratterizzava gli anni precedenti a questa scoperta. Secondo l’approccio biomedico classico, la malattia è letta come una deviazione dalla norma di determinate variabili biologiche, che attraverso una misurazione, mostrano una deviazione da ciò che ci si può attendere. Grazie al modello biopsicosociale, invece si tiene conto anche dei fattori psicologici e sociali nel valutare lo stato di salute di un individuo, facendo sì che sia possibile andare a superare definitivamente il dualismo tra psiche e soma, classico della visione biomedica deterministica.

Il modello biopsicosociale è stato sviluppato Engel (1977) negli anni Ottanta, sulla base di alcune formulazioni sui concetti di salute proposti nel 1947 dal WHO (World Health Organization). L’innovazione di questo tipo di modello risiede nel fatto che l’individuo

ammalato è visto al centro di un grande sistema influenzato da diversi tipi di variabili. Per essere in grado di comprendere e di curare una ipotetica malattia, il medico dovrebbe pertanto occuparsi non solo del funzionamento (o del mancato funzionamento) degli organi, ma guardare anche ad aspetti psicologici, sociali, e perfino familiari dell’individuo; in quanto tutti questi elementi hanno la capacità di agire in maniera più o meno diretta, sullo stato di salute della persona (Engel, 1977);(De Paola, 2017).

Fin qui, si è parlato dello stress come qualcosa in grado di generare delle modificazioni “negative” nell’individuo. Tuttavia, già nel testo “Stress without Distress”, Seyle, sostenne che lo stress fosse uno stato fisiologico assolutamente normale, e che pertanto lo stesso, non poteva e non doveva essere evitato. Non a caso, egli arrivò perfino a formulare il pensiero: “La completa libertà dallo stress è morte” (Seyle, 1974).

Sulla base delle brevi premesse, risulta evidente che sia possibile identificare uno stress in un certo senso “positivo” ed uno stress propriamente “negativo”, indicati anche rispettivamente con i termini di Eustress e Distress.

Il termine Eustress (o stress positivo), deriva dal greco eu, che significa letteralmente “bene” o “buono”, e pertanto indica uno “stress positivo”. Quando si parla di eustress ci si riferisce ad alcuni stimoli, di diversa natura, che possono essere fronteggiate in maniera efficace dall’individuo. In queste condizioni il soggetto si sente in grado di fronteggiare la stimolazione ambientale proposta, e percepisce anche un certo grado di controllo sulla situazione (Gambassi, 2006).

Il Distress (o stress negativo) è la condizione diametralmente opposta alla precedente. In questi casi, con distress, ci si riferisce a tutte quelle condizioni o situazioni, capaci di indurre un aumento nelle secrezioni ormonali, che portano però ad una “rottura” delle difese dell’organismo. In presenza di questa rottura funzionale, quello che si ottiene è una sorta di continua risposta da parte dell’organismo, anche in assenza di eventi stressanti. Pertanto in situazioni come queste, l’organismo tenderà a produrre continuamente risposte metaboliche sproporzionate rispetto alle richieste ambientali (Gambassi, 2006).

La possibilità di trovarsi in una fase di distress, sembra molto importante anche rispetto alle scelte alimentari che un soggetto si trova a compiere. Quando un organismo si trova in distress, il rischio è quello che il soggetto tenda a mangiare in modo molto disordinato, oltre che vorace (impedendo pertanto di far trascorrere un tempo adeguato per poter percepire meglio il senso di sazietà), andando a prediligere cibi spazzatura o comunque cibi particolarmente dolci, in grado, come abbiamo precedentemente visto, di creare una sorta di gratificazione per procura temporanea. Come se non bastasse, in condizioni come questa, è probabile che la persona percepisca un forte impulso a saltare i pasti, che genera poi delle risposte metaboliche di compensazione che spingono all’abbuffata. L’abbuffata infatti, può essere vista, come una sorta di spinta evoluzionistica, generata dal fatto che, i nostri antenati, in situazioni di stress o di emergenza, sapevano di non aver molto tempo per mangiare, per questo motivo, ogniqualvolta si trovassero di fronte ad un cibo commestibile, tendevano a consumarlo in modo eccessivo e rapido (anche perché in tempi passati la disponibilità di cibo non era come quella attuale), e questo gli consentiva di assicurarsi le riserve energetiche adeguate alla sopravvivenza.

Anche la ricerca dei cibi dolci, in realtà, deriva da una risposta evoluzionistica. Infatti, in natura, gli alimenti non velenosi o dannosi e ricchi in energia, sono tipicamente cibi dolci.

Ai giorni nostri, la disponibilità di cibo è naturalmente cambiata. Ma ciò che osserviamo è che questa “spinta evoluzionistica atavica” è rimasta conservata nel nostro patrimonio genetico, ed in particolari periodi di distress, può indurre alla ricerca di alimenti zuccherosi e dolci, oltre che al consumo degli stessi in modo disordinato e vorace. In condizioni di distress, infatti, il nostro cervello ha bisogno di essere più vigile, e di lavorare più celermente, ed essendo il glucosio il principale carburante del cervello, si sviluppa un’irrefrenabile desiderio di alimenti dolci ad elevato indice glicemico. Questa condizione rischia di generare l’instaurazione di un circolo vizioso che porta al desiderio continuo di zucchero, non solo come spinta atavica biologica instillata dalla condizione di distress, ma anche perché, come abbiamo visto, il consumo di alimenti ad elevato Indice Glicemico, induce una immediata risposta insulinica, e se l’ormone insulina aumenta troppo, induce a sua volta un meccanismo di ricerca di cibo, stimolando la fame (Pirani, 2017).

Oltre alla spinta atavica evoluzionistica, esiste un altro fattore che induce l’organismo alla ricerca di carboidrati in periodi di distress, ovvero l’aumento di cortisolo. Questo ormone, come abbiamo riportato precedentemente, è largamente coinvolto nelle risposte fisiologiche agli eventi stressanti, tanto che i suoi livelli risultano particolarmente elevati in condizioni di stress cronico. Avendo i carboidrati la capacità di indurre una gratificazione nell’organismo, essi risultano anche momentaneamente in grado di ridurre i livelli di ormone dello stress. In presenza di uno stress negativo, si generano numerosi sintomi, tra cui stanchezza, fatica cronica, ma anche malumore generale, che spingono a cercare delle gratificazioni immediate, e soprattutto semplici e rapide da ottenere. Al giorno d’oggi il cibo spazzatura (definito in inglese junk food), è facilmente reperibile, e la possibilità di utilizzarlo come mezzo per placare il malumore indotto dallo stress è relativamente semplice. È proprio questa però la condizione più pericolosa che può generare la creazione (ed il rinforzo) di un vero e proprio automatismo che ci spinge a mangiare solamente ciò che ci piace, ed aumentando notevolmente il consumo di alimenti ricchi glucidi, a sfavore di cibi ricchi in vitamine e sali minerali, contenuti principalmente in frutta e verdura (Pirani, 2017).

Rispetto al comportamento alimentare, oltre ad una possibile condizione di distress, sembrano giocare un ruolo rilevante anche le esperienze sociali. Uno studio condotto da Sproesser e colleghi, partendo dall’ipotesi che le esperienze sociali positive, fossero in grado di modulare il comportamento alimentare, sottopose alcuni volontari ad un compito, nel quale erano presentate sia delle esperienze gratificante, che delle esperienze spiacevoli. I ricercatori formarono due gruppi, nel gruppo sperimentale i soggetti erano chiamati ad interagire con persone sconosciute, non dal vivo, ma virtualmente, e solo successivamente, potevano incontrare il partner di persona. Dopo una prima conoscenza attraverso il video, ogni partecipante poteva ricevere dal partner ad egli associato un messaggio diverso: in un caso il partner accettava l’incontro fisico (successivo) con la persona, mentre in un secondo caso, il soggetto riceveva un rifiuto da parte del partner. All’interno del gruppo di controllo, invece, al soggetto veniva riferito che l’esperimento era stato annullato. Le condizioni descritte, generavano nel primo caso una situazione definita di “inclusione” o positiva (ovvero l’accettazione dell’incontro dal vivo), nel secondo caso una situazione definita di “esclusione” o negativa (ovvero il rifiuto dell’incontro dal vivo), ed infine, nel gruppo di controllo, una situazione considerata neutra, senza particolari connotati negativi o positivi.

A seguito di questi compiti, i soggetti erano poi chiamati a rispondere ad un test, che veniva riferito non correlato al primo, infatti, veniva spiegato ai partecipanti che lo scopo del test, era quello di valutare il gusto di tre tipi di gelato. Ai partecipanti era inoltre spiegato che potevano mangiare quanto gelato volessero. Da questa ricerca, gli studiosi furono in grado di individuare due gruppi di soggetti che mostravano abitudini alimentari diverse, sia a fronte di situazioni sociali negative (di esclusione), sia a fronte di situazione sociali positive (di inclusione). Vennero in questo modo identificati i cosiddetti “munchers” ed gli “skippers” (Sproesser, Schupp, Renner, 2014). I primi sono soggetti che tendono a mangiare maggiormente quando si trovano ad affrontare situazioni negative, e si cibano meno in condizioni sociali gratificanti; in media questi soggetti mostrarono un assunzione maggiore di circa 120 kcal rispetto ai partecipanti dell’altro gruppo. I secondi, al contrario, tendono a mangiare molto di più in situazioni sociali positive, tanto che vengono definiti “inappetenti da stress”, in quanto in condizioni negative mostrano una riduzione dell’appetito. Questi risultati mostrarono, oltre ogni dubbio, che anche una situazione sociale, sia essa di origine negativa, sia essa di origine positiva, poteva essere in grado di influire sul comportamento alimentare (Sproesser, Schupp, Renner, 2014).

L’aspetto rilevante di questo studio, oltre a rafforzare il legame esistente tra stress ed alimentazione, pone l’accento su un fatto interessante, ovvero che sia il gruppo dei munchers, che quello degli skippers, può nel tempo incorrere nel rischio di un aumento di peso, sulla base delle ipotetiche relazioni sociali che gli stessi intraprendono (Vinciullo, 2013).

Per concludere possiamo affermare che diverse evidenze mostrano un legame dell’alimentazione sia con i fattori psicologici, ad esempio situazioni di stress, sia con fattori meramente sociali. In condizioni di stress cronico sarebbe oltremodo opportuno lasciare da parte cibi zuccherosi o dolciumi, favorendo invece il consumo di glucidi a basso Indice Glicemico, al fine di cercare di evitare l’instaurazione di un circolo vizioso, dalla quale risulta difficile uscire. Un alleato molto utile per gestire la voglia di cibo spazzatura durante periodi di forte stress è dato dalla colazione, questo pasto principale, come precedentemente riportato, è fondamentale per svegliare l’organismo dopo uno stato di prolungato digiuno indotto dalla notte. Per evitare lo sviluppo della sensazione di fame eccessiva, si consiglia tipicamente di favorire il consumo, in questo

proteine e o fibre. Si ricorda anche che è opportuno favorire un apporto calorico adeguato, in quanto una restrizione alimentare eccessiva, rischia di sprigionare tutte le risposte correlate allo stress di cui abbiamo precedentemente parlato, e che redono più difficile un percorso di dimagrimento (Speciani, 2017).

Per quanto riguarda l’attività fisica, anche questa sembra giocare un ruolo importante con lo stress, alcune evidenze mostrano che favorire delle camminate all’aria aperta, così come lo yoga od il pilates, possono risultare molto utili nel combattere il distress, e nel ridurre l’aumento della voglia di cibo spazzatura particolarmente presente in queste condizioni stressogene (Perria, 2014).

Di recente, sono stati individuati anche degli alimenti in grado di generare una sorta di effetto da “antistress naturali”, tra questi è possibile menzionare il cavolo, i broccoli, gli asparagi, gli spinaci, le melanzane o le patate viola. Tutti gli alimenti precedentemente menzionati, contengono sostanze che si mostrano in grado di rendere inefficace lo stress ossidativo, consentendo anche un miglioramento delle prestazioni mentali. Un ruolo positivo, oltre a quello delle verdure citate, è dato anche dalla frutta secca, infatti, alimenti quali mandorle, pistacchi e noci si mostrano molto utili nel contrastare l’affaticamento cerebrale (grazie all’importante quantitativo di magnesio, vitamina B e vitamina E), oltre che per favorire il rafforzamento del sistema immunitario. Riportiamo anche il ruolo dei legumi come ceci, piselli e fagioli, anch’essi ricchi in magnesio, che si rivelano molto utili nel favorire un corretto funzionamento neuronale. Infine, si ricorda il ruolo degli Omega-3 (contenuti prevalentemente nel pesce), che sembrano utili non solo a ridurre i livelli di distress, ma sembrano anche in grado di contrastare i sintomi depressivi (Raganà, 2016).

Per concludere, risultati interessanti sono stati mostrati per quanto riguarda l’avena, un nutriente particolarmente ricco di proteine. Sembrerebbe infatti che questo alimento, mostri delle proprietà rilassanti dovute alla presenza di vitexina, ovvero il principio attivo presente nelle foglie di camomilla, che mostra azioni spasmolitiche, sedative ed ansiolitiche (Raganà, 2016).

Umore e alimentazione

Fino a qui ci siamo interessati del rapporto tra alimentazione e stress, arrivati a questo punto però, è importante sottolineare anche il legame tra umore ed alimentazione. Il vinciglio tra umore, ormoni ed alimentazione non è assolutamente monodirezionale, ma risulta piuttosto vicendevole. Risulterebbe oltremodo errato affermare che uno squilibrio di peso possa essere generato solamente da un ipotetico disturbo dell’umore, così come sarebbe scorretto dire che un disturbo dell’umore è causato da un aumento di peso.

In questo senso, il rapporto tra umore ed alimentazione è stato a lungo dibattuto nel corso degli anni, nel tentativo di ricercare un rapporto di “causa-effetto”, andando a determinare, per certi versi, quale delle due controparti potesse indurre l’altra. In letteratura esistono degli studi sia a favore di un’ipotesi che dell’altra. Una ricerca finlandese, del 2006, evidenziò come ragazzi affetti da depressione giovanile, tendessero a mangiare cibo spazzatura proprio perché erano depressi. Lo stesso studio però, mostrò anche evidenze contrarie, ovvero gli stessi si mostravano depressi perché malnutriti (dato che l’abuso di cibi spazzatura, non consente l’adeguato apporto di nutrienti come vitamine e minerali, fondamentali per il corretto funzionamento dell’organismo). In altre occasioni, è stato dimostrato che il consumo eccessivo di carboidrati, rispetto alla proteine, in associazione ad uno stile di vita caratterizzato dalla promozione di poca attività fisica, fosse in grado di generare delle alterazioni a livello della biochimica cerebrale, inducendo la comparsa di stati dell’umore alterati, che potevano condurre fino ad una vera e propria sindrome depressiva. Questa patologia, poi, come spiegato in precedenza, è in grado di generare una spinta a consumare elevate porzioni di “junk food” (cibo spazzatura), creando un circolo vizioso di difficile gestione (Timonen, Rajala, Jokelainen, Keinänen-Kiukaanniemi, Meyer-Rochow, Räsänen, 2006).

Nel Regno unito, alcuni ricercatori hanno osservato 2500 uomini di mezza età, per circa quattordici anni, cercando di seguire il possibile sviluppo della patologia depressiva in relazione al tipo di comportamento alimentare perseguito. I risultati mostrarono che coloro che prediligevano una dieta sana, basata prevalentemente sul consumo di frutta e verdura, mostravano una minor predisposizione allo sviluppo di depressione, rispetto ai

preliminari, la dottoressa Ruusunen, condusse in Finlandia altre sperimentazioni, basandosi proprio sui risultati ottenuti nella precedente ricerca. In questo studio furono coinvolti 140 soggetti, sia di sesso femminile che di sesso maschile, dei quali fu valutata la relazione tra sviluppo di possibile patologia depressiva ed alimentazione, sempre nell’arco di quattordici anni. Al termine di questo lungo periodo, il gruppo di ricerca fu in grado di affermare che il consumo di pesce, di frutta e verdura, di cereali integrali e di carni bianche (soprattutto pollo), potesse essere un supporto reale nella possibile prevenzione della sintomatologia depressiva, oltre che un coadiuvante nella riduzione dell’intensità dei sintomi ad essa associata (Ruusunen, 2013).

Alcune evidenze farebbero supporre che determinate carenze nutrizionali, possano

Documenti correlati