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La motivazione al cambiamento: la perdita di peso.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale Direttore Prof. Mario Petrini

Dipartimento di Patologia Chirurgica, Medica, Molecolare e dell'Area Critica

Direttore Prof. Riccardo Zucchi

Dipartimento di Ricerca Traslazionale e delle Nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia

Direttore Prof. Giulio Guido

____________________________________________________________

Facoltà di Medicina e Chirurgia

Corso di Laurea Specialistica in Psicologia Clinica e della Salute

La motivazione al cambiamento:

la perdita di peso

Relatore Candidato

Prof.ssa Antonella Ciaramella Federica Ciardi

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A Mauro

“Coraggio non vuol dire avere la forza di andare avanti, ma di andare avanti anche quando non si ha nessuna forza.”

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Sommario

Riassunto ... 5

Parole Chiave... 8

PARTE I : Introduzione

Il comportamento alimentare ... 9

Fame, appetito e sazietà... 9

Neuroendocrinologia del comportamento alimentare ... 18

Gli ormoni dell’appetizione... 18

L’Insulina ...19

Il glucagone ...23

La grelina ...25

La leptina...29

Il cortisolo ...34

Gli ormoni tiroidei...42

La tiroxina ...43

La triiodotironina ...43

La serotonina ...48

Gli estrogeni ed il testosterone...53

Fattori psicologici che influiscono sul comportamento alimentare ... 56

Stress e alimentazione ... 56

Umore e alimentazione ... 64

La motivazione... 70

Cenni storici sul Counseling Motivazionale... 71

Lo spirito del Counseling Motivazionale ... 82

Fondamenti teorici del Counseling Motivazionale... 85

La teoria della reattanza ...85

La teoria dell’auto-percezione ...86

La teoria della dissonanza cognitiva...86

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La disponibilità al cambiamento ...88 La frattura Interiore ...92 L’importanza ...93 L’autoefficacia ...94 La tentazione...97 La stabilizzazione ...97

La gestione della ricaduta...98

PARTE II: Sezione Sperimentale

La motivazione... 102

Obiettivi della tesi... 102

Disegno di ricerca ... 102 Materiali e Metodi ... 103 Luogo ... 103 Campione ... 104 Procedure e intervento ... 104 Strumenti e materiali ... 113 HE ELEMAYA ... 114

MAC2-R (AL; AF); VMC (AL; AF) ... 116

PSS (Perceived Stress Scale) ... 118

POMS (Profile of Mood States) ... 118

Self-Efficacy (Autoefficacia)... 119

Principi teorici Analisi Statistiche ... 120

Risultati ... 123

Analisi descrittive... 123

Analisi statistiche ... 137

Discussione ... 150

Conclusioni ... 157

Limiti dello studio ... 160

Bibliografia ... 162

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Riassunto

La regolazione dell’appetito è un processo particolarmente delicato, il cui esito deriva dall’equilibrio tra attività di diversi sistemi coinvolti, tra i quali ricordiamo il sistema ormonale ed il sistema neurotrasmettitoriale. Tra gli ormoni principalmente implicati nel comportamento alimentare si riconoscono l’insulina, il glucagone, la grelina, la leptina, il cortisolo, la tiroxina, la triiodotironina, la serotonina, gli estrogeni ed il testosterone. Diverse evidenze mostrano che le modalità attraverso le quali ci alimentiamo, hanno la capacità di andare ad influenzare direttamente la produzione di alcuni tipi di ormoni; esistono infatti alimenti o macronutrienti capaci di modulare in senso inibitorio o facilitatorio la produzione di determinati ormoni (ad esempio gli zuccheri –o carboidrati- hanno la capacità di indurre modifiche nei livelli dell’insulina). Quando parliamo di ormoni e comportamento alimentare, è importante menzionare quello che viene definito “effetto mediato”. Questo effetto si riferisce alla capacità da parte degli ormoni, di mediare la spinta biologica alla ricerca di cibo, influenzando in maniera diretta il rapporto tra la fame e la sazietà nell’arco di tutta la giornata.

Oltre alla componente tipicamente definita come “neuroendocrina” del comportamento relato all’appetizione, è fondamentale sottolineare, come nel comportamento alimentare, entrino in gioco innumerevoli fattori psicologici, come ad esempio l’umore e lo stress, che hanno per altro la capacità di influire sull’equilibrio metabolico. Diversi studi e ricerche mostrano un evidente doppio legame tra lo stress e l’alimentazione e la depressione e l’alimentazione (in un rapporto di tipo biunivoco), che in alcuni casi, può indurre i soggetti a cadere in un “circolo vizioso”, nel quale l’individuo è spinto alla ricerca spasmodica di “cibo spazzatura” (in inglese junk food), generando nel tempo, un aumento ponderale di peso, che può indurre ad uno stato di sovrappeso o di obesità (suddivisa tipicamente in obesità di tipo I, obesità di tipo II, ed obesità di tipo III), associati spesso ad importati problemi di salute.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), a tal proposito, ha definito il concetto di Indice di Massa Corporea o BMI (Index Body Mass), ovvero un parametro calcolabile come il rapporto tra il peso, espresso in kg, e l’altezza al quadrato, espressa in metri, da poter utilizzare come indice dello stato di peso forma. Sulla base di suddetto indicatore, è possibile individuare diverse classi (talvolta definite anche classificazioni) nelle quali un soggetto può essere inserito. I valori del BMI, possono assumere un

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intervallo (range) che parte da circa 18, per arrivare fino a 40. In particolare quando il valore del BMI risulta inferiore a 18,5 si parla di sottopeso (underweight), il range compreso da 18,5 a 24,9 è considerato normopeso (normal), il range tra 25,0 e 29,9 si riferisce alla classe sovrappeso (overweight), il range tra 30,0 e 34,9 si associa all’obesità di tipo I (obesity class I), il range da 35,0 a 39,9 è collegato con l’obesità di tipo II (obesity class II), ed infine un indice di massa corporea superiore a 40 è indicatore di una gravissima obesità (extreme obesity class III).

I medici, gli psicologi clinici ed in generale tutti gli operatori sanitari, molto spesso, hanno la possibilità di seguire individui con problemi di peso (siano essi in sovrappeso od in obesità), che faticano sia ad intraprendere dei percorsi di dimagrimento, che a prendere delle decisioni “adeguate” rispetto ai comportamenti di salute. Molto spesso infatti, gli individui, pur disponendo di tutte informazioni concernenti la possibile dannosità di determinate condotte, tende a perseguire le stesse nel tempo, generando un possibile peggioramento di un quadro clinico già minato in partenza. Questo è vero non solo per i soggetti in sovrappeso, o più in generale rispetto ai quadri relativi ad alimentazione ed attività fisica, ma anche per individui che ad esempio abusano di alcool o sigarette. Capita di frequente che in questi individui, sia riscontrabile quella che viene definita “resistenza al cambiamento”, ovvero una sorta di vera e propria resistenza posta in essere dal paziente, che produce una scarsa adesione alle indicazioni fornite dall’operatore sanitario in questione, nonostante l’apparente verbale accordo con le direttive salutistiche stesse. In altri termini, il soggetto risulta verbalmente in accordo con quanto proposto o consigliato dal curante, ma successivamente non mostra compliance (adesione alle cure).

Sulla base delle premesse, e dei recenti sviluppi nell’ambito della ricerca psicologica, sembrerebbe risultare particolarmente utile l’uso del Counseling (colloquio) Motivazionale. L’approccio di questo strumento, poggia su uno stile relazionale caratterizzato dalla tolleranza, accettazione, non giudizio, atteggiamento maieutico e guida attiva. L’assunto di base del Colloquio Motivazionale è che il cambiamento non sia un processo lineare e statico, ma che al contrario sia dinamico. Questo approccio sostiene che il cambiamento origini dall’interazione tra sei fattori: la disponibilità al cambiamento, la frattura interiore, l’importanza, l’autoefficacia, la tentazione ed infine la stabilizzazione.

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Nel Counseling (o Colloquio) Motivazionale, assume particolare rilevanza la dimensione che viene indicata come “disponibilità al cambiamento”. Quest’ultima, viene rappresentata come una sorta di ciclo, all’interno del quale possono entrare in gioco innumerevoli fattori, come ad esempio alcuni eventi di vita, capaci di influire in modo più o meno diretto sull’eventuale percorso di cambiamento. Anche il concetto della “disponibilità al cambiamento”, pertanto, può essere associata ad una visione di tipo dinamico, piuttosto che ad un processo di tipo stadiale o rigido.

La disponibilità al cambiamento è un costrutto teorico originariamente formulato da due autori: Prochaska e Di Clemente (1983). Secondo gli studiosi, un processo di cambiamento segue un percorso, appunto, ciclico, dove sono identificabili degli stadi precisi ovvero: la precontemplazione, nella quale il soggetto non ha ancora preso in considerazione l’idea di cambiare, la contemplazione nella quale inizia a supporre un possibile cambiamento, senza però agire direttamente, la determinazione una fase nella quale il soggetto pianifica in modo pro-attivo le modalità di cambiamento, la fase dell’azione dove il soggetto agisce fattivamente per modificare il proprio comportamento disfunzionale, ed infine il mantenimento dove l’individuo promuove quella che viene definita “stabilizzazione”, ovvero applica nel tempo il cambiamento. Avendo specificato più volte la natura non lineare di questo processo, risulta abbastanza evidente, che in un percorso di cambiamento, la persona possa “tornare a stadi precedenti”. Ogniqualvolta si verifichi questa situazione, si parla di ricaduta. Di fronte ad una possibile ricaduta, l’approccio del Counseling (o Colloquio) Motivazionale specifica che non è necessario impedirla completamente (anche perché la probabilità che si verifichi in un percorso lungo di cambiamento è elevata), quanto piuttosto aiutare il soggetto a gestire la stessa, in modo che riesca a percepirla non come una demotivante sconfitta personale, ma piuttosto come un normale elemento all’interno di un faticoso percorso di modifica.

Sulla base delle premesse appena riportate, lo scopo del presente studio è stato quello di valutare l’efficacia del Colloquio Motivazionale in un percorso di perdita di peso in 29 donne sovrappeso (BMI da 25.00 a 29.99), motivate a dimagrire (motivazione iniziale verbalmente riportata di ameno 7/10) senza patologie metaboliche o psichiatriche (GHQ-12 < 3) in atto, attraverso uno studio osservazionale longitudinale, svolto nell’arco di cinque mesi. Durante questo lasso temporale, i soggetti sono stati seguiti

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seguendo i principi teorici del Counseling Motivazionale, supportando la motivazione al dimagrimento ed avvalendosi di test somministrati nei vari incontri: POMS, PSS, Self-Efficacy, MAC2-R, VMC.

I risultati del nostro studio mostrano che mantenere buoni livelli di motivazione grazie all’ausilio del Counseling Motivazionale, può risultare particolarmente utile in un percorso di perdita di peso. Sul piano alimentare questo approccio si è mostrato favorevole negli stadi della Precontemplazione, della Contemplazione, dell’Azione e del Mantenimento. Si mostrano rilevanti, per la sfera alimentare, la Frattura Interiore e la Tentazione.

Per quanto riguarda la dimensione dell’Attività Fisica, lo stile del Counseling Motivazionale si è mostrato efficace negli stadi di Contemplazione, Determinazione, Azione e Mantenimento. Per questa sfera, si mostrano rilevanti l’Importanza ed Autoefficacia.

Effetti positivi sono stati riscontrati anche sulla valutazione dello Stress Percepito (PSS) e su alcune dimensioni del POMS (POMS A, POMS T, POMS C).

Decisamente fruttuoso si è dimostrato il follow-up telefonico. Favorire dei controlli quindicinali attraverso questa modalità, sembra utile a favorire il mantenimento di buoni livelli di motivazione, soprattutto per quanto riguarda la sfera dell’Attività Fisica.

Parole chiave: Indice di massa corporea, perdita di peso, Counseling Motivazionale, motivazione al cambiamento, modello di Prochaska e Di Clemente (1983).

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Il comportamento alimentare

Fame, appetito e sazietà

La regolazione del comportamento alimentare può essere vista come il complesso risultato derivato dal bilancio dell’azione sinergica di diversi sistemi, tra cui i sistemi neurotrasmettitoriali ed ormonali. Abbiamo tre variabili molto importanti nel determinare il volume del pasto, il suo inizio e la sua fine. Queste variabili sono: la fame, l’appetito, la sazietà e la pienezza gastrica. Questi concetti talvolta possono essere confusi nell’uso comune dei termini, pertanto se ne riporta una breve definizione:

La fame è indubbiamente uno degli elementi essenziale capaci di favorire la sopravvivenza. Questa dimensione induce un segnale che indica il bisogno di mangiare, ed è accompagnata da contrazioni gastriche (non a caso si parla di “buco allo stomaco”), oltre che da nervosismo, ansia e talvolta irritabilità. La spinta a cibarsi è prodotta proprio dalla fame, che induce pertanto l’organismo a rimuovere lo stato di sofferenza fisica e psichica generato dall’assenza prolungata di nutrimento. È molto importante ricordare che non esiste la fame per uno specifico alimento. Infatti questa spinta biologica alla sopravvivenza, nasce come risposta ad uno stato di squilibrio energetico, e non come ricerca spasmodica di un determinato cibo o nutriente (Rizzi, 2012);

Il concetto di appetito, al contrario della fame, si associa tipicamente al desiderio di alimentarsi con un determinato cibo, sia per piacere che per eventuali esigenze biologiche. Questa dimensione è fortemente accentuata da determinati segnali di stimolazione di tipo sensoriale (non solo gustativa, ma anche visiva, olfattiva e perfino uditiva) presenti nell’ambiente, ed a loro volta influenzati da fattori familiari e psicologici che associano il concetto di cibo al concetto di piacere (Rizzi, 2012);

Il segnale di sazietà è fondamentale per interrompere il pasto, nel momento in cui una quota adeguata di cibo è stata ingerita e parzialmente assorbita. È molto importante ricordare che la quantità di cibo che può essere ingerito, non è

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sempre direttamente collegata con l’eventuale carenza di nutrienti. Spesso infatti, il desiderio di cibarsi di uno specifico alimento, viene stimolato non tanto dal senso di fame, ma ad esempio dalla vista dell’alimento stesso, o dal profumo che emana. In questi casi, il soggetto può essere portato ad introdurre una quantità di cibo decisamente elevata rispetto al proprio fabbisogno, se non addirittura eccessiva (Rizzi, 2012);

 Una volta promosso il consumo di un determinato alimento, un soggetto raggiunge tipicamente una sensazione di pienezza gastrica. Questo concetto è molto importante, in quanto si associa sia ad uno stato di “non fame” che genera un diffuso stato di benessere, sia ad uno stato di spiacevolezza (con nausea) ottenibile in quei casi in cui il soggetto abbia esagerato con l’apporto di cibo (Berthoud, 2006); (Rizzi, 2012).

Tutti questi meccanismi sopra menzionati, vedono l’intervento di una struttura cerebrale in particolare, l’ipotalamo. Il sistema ipotalamico è coinvolto in diversi processi importanti per la vita, tra i quali, uno riguarda il mantenimento del peso. Secondo il modello di Teitelbaum e Stellar (1954), nell’ipotalamo possiamo identificare due centri distinti che regolano la sazietà e la fame. Uno di questi centri viene identificato con il nome “Feeding Center” (FC), l’altro è chiamato “Saziety Center” (SC). Il Feeding Center (FC) è situato a livello del nucleo laterale dell’ipotalamo (LHA), ed è fondamentale per l’induzione alla ricerca di cibo, tanto che, la sua asportazione causa anoressia. Il Saziety Center (SC) è situato a livello del nucleo ventro- mediale (VMN) e nel nucleo para-ventricolare (PVN), e risulta essere una sorta di sistema “contrario” del Feeding Center, infatti una sua completa asportazione è in grado di generare obesità. Risulta fondamentale sottolineare che questi centri ipotalamici non lavorano in maniera individuale, ma anzi, il loro lavoro è sinergico ed in interconnessione con altre strutture, coinvolte a loro volta nella regolazione dei meccanismi di appetizione quali: la corteccia cerebrale, il sistema limbico, ed il sistema nervoso autonomo.

Tutte queste strutture precedentemente citate, sono in grado di ricevere sia segnali provenienti dagli organi interni che segnali provenienti direttamente dall’ambiente (Teitelbaum, Stellar, 1954);(Anand, Brobeck, 1951).

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Se è vero che il concetto di fame e quello di sazietà possono indubbiamente essere visti come il risultato di processi fisiologici complessi, è oltremodo opportuno ricordare che l’appetibilità di un determinato alimento ha la capacità di influire in maniera diretta su entrambe le dimensioni, grazie alla piacevolezza generata dal mangiare il determinato alimento. In altri termini, le proprietà sensoriali del cibo, olfattive, gustative, visive o uditive esercitano un’attivazione sensoriale che genera effetti gratificanti dovuti all’ingestione dell’alimento stesso. Questo meccanismo risulta particolarmente evidente soprattutto per alcuni tipi di nutrienti, in particolare gli alimenti dolci e ricchi di grassi che, come già accennato in precedenza, sono in grado di generare quello che viene definito “piacere per procura”. Risulta abbastanza evidente che in questi casi il meccanismo del controllo della fame e della sazietà, venga influenzato proprio dalla ricerca di piacevolezza mediata dall’assunzione di certi cibi (Krude, Biebermann, Luck, Brabant, Grüters, 1998); (Swart, Jahng, Overton, Houpt, 2002).

Nel 1954 James Olds e Peter Milner, furono in grado di identificare alcuni centri cerebrali coinvolti nei meccanismi di gratificazione. Gli autori osservarono che la stimolazione elettrica, indotta sulle aree cerebrali del sistema limbico (un sistema del Sistema Nervoso coinvolto nei processi di generazione delle emozioni e nei processi di apprendimento e memoria), era in grado di dar luogo a un potente stimolo gratificante. Questo studio favorì lo sviluppo anche di altre ricerche che portarono a dimostrare come oltre al sistema limbico (formato da corteccia prefrontale, ippocampo, ipotalamo e talamo); esistano anche altre componenti implicate nelle risposte di piacevolezza, tra le quali si ricordano il sistema dopaminergico mesolimbico, coinvolto principalmente nella ricerca di uno stimolo generalmente valutato come gratificante, ovvero coinvolto in quella che viene definita “spinta motivazionale”; il sistema oppioide, coinvolto anch’esso nei processi di gratificazione ma associati al consumo della sostanza; il sistema glutammatergico, ovvero un sistema adibito al rilascio di dopamina in specifiche aree del cervello; ed infine il sistema gabaergico, come inibitore del rilascio di dopamina a livello del (SNC) sistema nervoso centrale (Olds, Milner, 1954).

In uno studio del 2009, promosso da Geiger e colleghi è stato dimostrato un collegamento tra la predisposizione all’obesità ed un deficit a carico del neurotrasmettitore dopamina, a livello del sistema mesolimbico, in animali da laboratorio (Geiger, Haburcak, Avena, Moyer, Hoebel, Pothos, 2009). Questo studio

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partiva dall’ipotesi che una possibile diminuzione dell’ormone dopamina, inducesse un aumento del consumo di cibi iper-calorici. La tesi proposta da questo studio è compatibile anche con altri studi effettuati direttamente sull’uomo, dove è stata dimostrata una riduzione significativa dei recettori della dopamina D2, in individui obesi. Di fatto, l’assunzione di determinati cibi può generare una sensazione di piacevolezza e gratificazione che può spingere il soggetto ad alimentarsi anche in mancanza di un deficit energetici (Wang, Volkow, Logan, Pappas, Wong, Zhu, Netusil, Fowler, 2001).

Il problema principale in tutto questo, deriva dal fatto che una serie di scompensi metabolici e/o nutrizionali, sommati nel tempo, possono indurre all’aumento di peso che può poi sfociare appunto in obesità o sovrappeso. L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha spesso trattato questo tema, definendo l’obesità come la minaccia primaria dei paesi industrializzati. E’ stato a tal proposito definito un valore di riferimento espresso dall’Indice di Massa Corporea o BMI (Body Mass Index), ottenuto come rapporto tra il peso in kg e l’altezza in metri al quadrato di un individuo, che può essere utilizzato come importante indicatore dello stato di peso forma della persona in questione. L’OMS ha definito dei valori di riferimento per ogni classe, riportati nella tabella sottostante. BMI CLASSIFICAZIONE < 18,5 Sottopeso 18,5-24,9 Normopeso 25,0-29,9 30,0-34,9 35,0-39,9 >40 Sovrappeso Obesità (Classe I) Obesità (Classe II) Obesità Grave (Classe III)

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Sulla base della precedente classificazione, è possibile notare che un valore superiore a 25.00 (del BMI) è indicatore dello stato di sovrappeso. Tutti i valori che superano invece 29.99, fanno parte della categorizzazione obesità, della quale è possibile identificare diversi gradi, associati ai livelli di gravità della stessa. Si parla rispettivamente di obesità di tipo I (per valori di BMI compresi tra 30.0 e 34.9), di obesità di tipo II (per valori di BMI compresi tra 35.0 e 39.9) e obesità di tipo III ( per valori di BMI superiori a 40). Quest’ultima obesità è considerata molto grave, e generalmente richiede anche l’ausilio di interventi chirurgici per favorire il dimagrimento. È importante sottolineare che il valore del BMI non esprime direttamente la quantità di grasso corporeo, nel senso che, se è vero che esiste un buon grado di correlazione tra questi elementi, è anche vero che il BMI non va direttamente a misurare la massa adiposa del soggetto, né ci da specifiche su come essa sia distribuita nel corpo. Infatti il tessuto adiposo può “localizzarsi” maggiormente in alcuni siti piuttosto che in altri, a seconda della conformazione delle persone. Anche se può apparire come paradossale, negli atleti, vengono spesso rilevati valori di BMI particolarmente elevati (che potrebbero ad esempio rientrare nella fascia del sovrappeso), ma questo non dipende direttamente dalla quantità di grasso corporeo, quanto piuttosto dalla presenza di una massa muscolare fortemente sviluppata, che per altro, risulta avere un peso maggiore rispetto alle cellule adipose.

Per valutare al meglio l’accumulo di tessuto adiposo a livello addominale (correlato con problemi cardiaci), è utile prendere in considerazione il Rapporto Vita/Fianchi. Questa misura adimensionale è ottenuta grazie al rapporto tra la circonferenza in centimetri della vita (presa a metà tra l’arcata costale e la cresta iliaca) e la circonferenza in centimetri dei fianchi (Klein, Allison, Heymsfield, Kelley, Leibel, Nonas, Kahn, 2007). Il Rapporto Vita/Fianchi (definito in inglese WHR o Waist to Hip ratio) ci consente di ottenere un indice, circa la distribuzione del grasso corporeo, permettendo di definire i concetti di “Obesità androide” e di “Obesità ginoide”. Quando il Rapporto Vita/Fianchi è maggiore di 0,85 si può parlare di “Obesità andoride”. Quando il Rapporto Vita/Fianchi è minore di 0,79 si parla invece di “Obesità ginoide”. Il primo tipo di obesità si associa ad un accumulo di tessuto adiposo a livello addominale (soprattutto a livello della pancia), mentre nell’obesità ginoide, l’accumulo di grasso è localizzato prevalentemente a livello dei fianchi e delle cosce (Loiacono, 2016).

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I valori di questo rapporto adimensionale, forniscono informazioni circa il rischio di sviluppare eventuali problemi medici, che possono intercorrere in pazienti obesi. Infatti, la distribuzione del grasso, con localizzazione addominale, risulta essere un fattore di rischio importante sia per il possibile sviluppo di patologie cardiovascolari che per lo sviluppo di diabete, oltre che come fattore di rischio per la mortalità in generale.

Oltre al WHR è utile anche valutare la Circonferenza di Vita, come indicatore del possibile sviluppo di patologie mortali. Esistono, a tal proposito, dei valori di riferimento (diversificati tra uomo e donna), che mettono in relazione la Circonferenza di Vita (in centimetri), con il rischio di sviluppo di malattie che possono rivelarsi letali. Nella tabella sottostante, riportiamo i suddetti parametri (Loiacono, 2016).

Tabella b- Tabella Circonferenza Vita (cm) in relazione al rischio di sviluppo di patologie mortali. (Loiacono, 2016)

L’insorgere di problemi relativi all’aumento di peso, mostra delle differenze nel mondo. Ad esempio, i tassi di livelli di obesità in Italia, appaiono minori rispetto a quelli di altri paesi europei. Tuttavia, nel nostro paese, pur essendo ridotto il numero di obesi, è stato rilevato un numero particolarmente alto di soggetti sovrappeso, che risultano comunque potenzialmente a rischio, non solo perché nel tempo il sovrappeso può sfociare in obesità, ma anche perché l’aumento del peso ha un impatto sulla salute del soggetto. Numerose evidenze, ad esempio, dimostrano una correlazione diretta tra l’aumento esponenziale del BMI (Indice di Massa Corporea) e l’aumento della probabilità dello sviluppo di una patologia di tipo cardiovascolare.

RISCHIO UOMO (cm) DONNA (cm)

Molto Elevato Elevato Basso Molto Basso >120 100-120 80-99 <80 >110 90-109 70-89 <70

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Com’è possibile notare dalla figura sottostante, il rischio di sviluppare malattie vascolari e diabete mellito aumenta in modo graduale, partendo proprio dal valore di 25 del BMI (sovrappeso), per poi incrementare ulteriormente con l’ingresso nell’obesità, passando da un rischio moderato, fino ad un rischio molto elevato. Naturalmente, la possibilità di sviluppare queste patologie, ha poi un impatto diretto anche sull’incidenza di mortalità, che viene influenzata indirettamente. Al contrario, come si può notare dalla grafico, possedere un valore di BMI compreso tra circa 20 e 24,90 non genera particolari rischi per quanto riguarda il possibile sviluppo delle malattie prima citate.

Un altro aspetto interessante che riguarda la realtà Italiana, oltre la differenza della distribuzione tra sovrappeso ed obesità, riguarda il dualismo geografico della distribuzione del sovrappeso. Con questo termine ci si riferisce al fatto che diverse ricerche hanno mostrato una disuguaglianza tra i tassi di sovrappeso nelle regioni meridionali, rispetto alle regioni settentrionali. Nello specifico, quello che emerge è che nelle prime siano presenti più soggetti sovrappeso che nelle seconde. Questa discrepanza è confermata anche per la classificazione relativa all’obesità (Mazzocchi, 2005).

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Quando parliamo di sovrappeso od obesità, dobbiamo tener presente che esistono una serie n di fattori coinvolti nello sviluppo di queste patologie, che sono stati identificati da diversi studiosi, nel corso degli anni. Ad esempio, uno studio condotto da Drewnowski et al., ha mostrato che in soggetti con un livello di istruzione basso, ed un reddito medio-elevato, i livelli di obesità erano maggiori. L’incidenza dell’obesità, sembra maggiore anche in individui che possiedono solo la licenza elementare. Il collegamento tra reddito, livello di istruzione ed obesità, si è rilevato particolarmente forte soprattutto nelle donne (Drewnowski, Darmon, 2005).

Naturalmente questi non sono gli unici aspetti che possono giocare un ruolo coadiuvante nella generazione di obesità, infatti esistono anche altre variabili collegate sia all’obesità stessa, che al sovrappeso, che riguardano in modo importante soprattutto le abitudini degli stili di vita. Nel 2002 è stato promosso uno studio a tal proposito, che ha mostrato come le condizioni di sovrappeso ed obesità fossero maggiormente riscontrabili in individui scarsamente inclini all’attività fisica (Lakdawalla, Philipson, 2002).

Un aspetto importante, anche se ampiamente dibattuto, riguarda l’informazione sugli alimenti. Alcuni studiosi infatti ritengono che il modello Health Belief Model o HBM (1950) di Rosenstock, Godfrey, Hochbaum, Stephen Kegeles e Howard Leventhal (Champion, Skinner, 2008) non sia un buon predittore del comportamento di salute, tuttavia, è stato dimostrato che la mancata informazione sui nutrienti può portare il soggetto a compiere delle scelte alimentari poco adeguate, creando pertanto un terreno fertile per l’aumento di peso. Negli Stati Uniti, ad esempio, molto spesso non viene riportata una chiara informazione relativa ai valori nutrizionali presenti nei cibi (etichetta nutrizionale), ed è stato osservato che il favoreggiamento di una chiara etichettatura nutrizionale, possa essere in grado di aiutare i soggetti a scegliere gli alimenti più salutari, riuscendo così a favorire (nel lungo termine), una significativa riduzione dei livelli del (BMI) Body Mass Index. Pertanto favorire una corretta informazione nutrizionale, soprattutto sulle etichette dei cibi, sembrerebbe essere un primo passo utile nel favorire una corretta conoscenza alimentare, che, in alcuni casi, sembrerebbe favorire anche un comportamento di salute (Variyam, 2008).

L’influenza sociale è un altro degli aspetti che risultano particolarmente importanti nel determinare il valore dell’Indice di Massa Corporesa (BMI). Alcuni studi hanno

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mostrato che persone che convivono in nuclei familiari particolarmente numerosi, tendano a mostrare dei livelli di BMI maggiori rispetto ad individui single o soggetti divorziati. La numerosità del gruppo familiare non è l’unico fattore rilevante, infatti risultano importanti anche le abitudini alimentari promosse dalla famiglia stessa, e l’atteggiamento che il gruppo familiare muove verso l’alimentazione e verso l’attività fisica (Rizzi, 2012).

Sulla base di quanto riportato, appare evidente, che il tentativo di definire un indice unitario od una sorta di rapporto causa-effetto tra il BMI ed una qualche variabile, risulta praticamente impossibile. Le cause che possono generare un aumento di peso sono le più disparate, tanto che sarebbe più opportuno parlare di “concause”, tra le quali individuiamo fattori biologici, genetici, ormonali, medici (per la presenza di eventuali patologie), ma anche sociali e psicologici.

Pertanto, per favorire un processo di dimagrimento, appare abbastanza evidente, che sarebbe opportuno porre l’interesse su più aspetti possibile, in quanto limitarsi a fornire una dieta “ipocalorica”, rischierebbe di tralasciare una serie di fattori, che potrebbero aver avuto (od avere) un ruolo rilevante nell’aumento dipeso. In via del tutto generale, l’intervento migliore sembrerebbe quello che induce il soggetto a seguire uno stile di vita sano, caratterizzato dall’assunzione del giusto apporto di nutrienti (oltre che dalle giuste proporzioni), e dal favorire un adeguato livello di attività fisica. Per quanto riguarda la componente psicologica, oltre a giocare un ruolo chiave nella possibile ricerca di cibo spazzatura, la stessa è particolarmente rilevante anche per quanto riguarda la ricaduta. In un precorso di perdita di peso infatti, molto spesso il soggetto tenderà a “tornare indietro” o “tornare sui propri passi”, riacquisendo temporaneamente abitudini alimentari (o più in generale abitudini del comportamento di salute) che aveva lasciato da parte. Ecco perché un approccio di tipo multidisciplinare e multidimensionale nella gestione dell’obesità e del sovrappeso, potrebbero risultare la strada migliore percorribile.

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Neuroendocrinologia del comportamento alimentare

Gli ormoni dell’appetizione

Ci sono innumerevoli evidenze che dimostrano l’esistenza di un legame tra alimentazione ed ormoni. Le modalità attraverso le quali ci alimentiamo, hanno il potere di modulare la produzione ormonale, pertanto, non sorprenderà scoprire che nelle terapie di riequilibrio ormonale, il primo passo è proprio quello di gestire gli alimenti ingeriti. L’effetto che il cibo possiede sul sistema endocrino è duplice:

In prima istanza, si identificano degli alimenti (o delle specifiche sostanze), con il potere di andare a modulare, in senso inibitorio o facilitatorio, la produzione di alcuni ormoni. Ad esempio è risaputo che gli zuccheri (ed in generale i carboidrati, specialmente quelli raffinati) sono strettamente collegati all’insulina, mentre, ad esempio, la caffeina mostra un’influenza diretta sul cortisolo, oppure il triptofano che influenza i livelli di serotonina. Secondariamente, è importante sottolineare, che tutto quello che mangiamo, ha un’influenza diretta non solo sulla produzione ormonale, ma anche sulla flora batterica intestinale, che per altro, ha un ruolo importantissimo nella captazione degli ormoni e nella successiva modulazione degli stessi. Quando ci troviamo in presenza di una flora intestinale che funziona adeguatamente, si genereranno le massime possibilità nel fornire risposte efficaci allo stimolo ormonale; al contrario, se la nostra flora batterica è debole, quest’ultima risulterà “pigra” nelle interazioni con gli ormoni stessi (Rossoni, 2015).

Se è vero che il cibo influenza la risposta ormonale, è anche vero che esiste quello che viene definito “effetto mediato degli ormoni sulla ricerca di cibo”, che si riferisce alla capacità, da parte degli ormoni, di regolare il comportamento di appetizione, andando ad agire sul rapporto tra fame e sazietà, attraverso la mediazione della spinta biologica alla ricerca di cibo, e la mediazione delle calorie consumate durante il giorno.

Gli ormoni coinvolti nei processi alimentari sono disparati, i principali che meritano di essere accennati sono: l’insulina, il glucagone, la grelina, la leptina, il cortisolo, gli ormoni tiroidei (T3, T4), la serotonina, gli estrogeni ed il testosterone.

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L’Insulina

L’insulina è un ormone peptidico (proteico) secreto da alcune strutture endocrine del pancreas, definite “cellule β delle isole di Langerhans”. Quest’ormone è stato scoperto nel 1922, grazie a due studiosi: Frederick Grant Banting e John James Richard Macleod. La secrezione di insulina avviene sempre in corrispondenza di un aumento della glicemia (concentrazione ematica di glucosio), il rilascio di questo ormone è favorito al fine di favorire la riequilibrazione del sistema a seguito dell’assunzione di zuccheri; infatti, tipicamente, nel momento in cui la glicemia si riduce, automaticamente tende a ridursi anche la produzione dell’ormone insulina. Per questo motivo si parla, in questo caso, di effetto ipoglicemizzante ad opera del suddetto ormone, proprio perché la sua azione è sinergica nella riduzione dei valori di glucosio ematico. Nello specifico, l’insulina ha la capacità di ridurre la glicemia grazie alla stimolazione della glicogenosintesi (formazione di glicogeno a partire dal glucosio) epatica ed attraverso l’inibizione della glicogenolisi (degradazione del glicogeno a glucosio). I valori della glicemia durante l’arco della giornata si mantengono tra i 60 e i 130 mg/dl, per soggetti considerati sani, che seguono un’alimentazione corretta, ed hanno un corretto stile di vita. In condizioni di digiuno, i valori glicemici possono variare dai 70 ai 110 mg/dl; in presenza di valori compresi tra 110 e 125 mg/dl si parla di “condizione di alterata glicemia a digiuno” (IFG), una situazione che dovrebbe invitare il paziente a porre maggior attenzione al suo stile di vita. Secondo l’American Diabetes Association, valori di glicemia che risultino superiori o uguali a 126 mg/dl possono essere considerati come probabili sintomi del diabete (Cecchetto, Romeo, 2014); (Borch-Johnsen, Neil, Beverley, Svend, 1999); (Rassu, 1987).

Oltre ad avere un effetto principale sulla regolazione dei livelli di glucosio, l’insulina gioco un ruolo fondamentale in diversi processo fisiologici:

 Favorisce l’attivazione della sintesi proteica;

 genera un incremento dell’assunzione di amminoacidi da parte delle cellule;

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 inibisce l'attività delle lipasi (ecco perché l’insulina viene chiamata ormone dell’accumulo);

 stimola il catabolismo (a livello del fegato) del colesterolo;

 stimola la fagocitosi;

 agisce sul metabolismo idro-salinico generando un aumento della concentrazione di potassio all’interno delle cellule e diminuendo la stessa all’esterno;

 riduce la produzione di corpi chetonici (tra i corpi chetonici si annoverano l’acetone, l’acido acetico e l’acido β-idrossibutirrico).

La regolazione della produzione di insulina, è affidata alla glicemia grazie all’ausilio di un meccanismo di feedback negativo. L’insulina, come precedentemente accennato, mostra un’azione ipoglicemizzante. Un aumento dei livelli di zucchero nel sangue, stimolano la secrezione di insulina, al contrario una riduzione dei livelli di glicemia tendono ad inibire la secrezione stessa. Per spiegare questo meccanismo, ci si riferisce al fatto che le pareti delle cellule beta, presenti nel pancreas, risultino normalmente permeabili al glucosio, ma che variazioni dei livelli di glucosio ematico, siano in grado di modificare lo stato funzionale delle cellule pancreatiche stesse, con effetto diretto sulla secrezione di insulina.

Se l’insulina ha un ruolo ipoglicemizzante, esistono anche degli ormoni con effetto opposto, ovvero iperglicemizzante. Tra questi ormoni menzioniamo il TSH, il cortisolo ed il glucagone. Tutti questi ormoni, non agiscono direttamente sul glucosio ematico, ma hanno un’azione indiretta, ovvero influendo sulla secrezione di insulina, sono in grado di indurre iperglicemia. Tuttavia, se l’iperglicemia prodotta, risulta costantemente elevata, le cellule beta del pancreas, tenderanno ad esaurirsi (esaurimento funzionale), nel tentativo di promuovere una compensazione insulinica. Proprio da questo squilibrio,

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nasce una condizione patologica definita come diabete mellito (Ganong Barrett, Barman, Barrett 2011); (Gregolin, Ursini, 1979); (Rassu, 1987).

Attualmente la medicina classica distingue tre forme di diabete mellito (a cui si aggiunge una particolare forma di diabete, definita diabete insipido):

 diabete di tipo 1;

 diabete di tipo 2;

 diabete gestazionale.

Tutte le evidenze precedentemente riportate, mostrano quanto la regolazione ormonale, ed in questo caso la modulazione della secrezione di insulina, con i suoi effetti sulla glicemia (glucosio ematico), risultino dei fattori importantissimi nel determinare lo stato di salute della persona. È estremamente importante, che questo ormone non subisca delle variazioni considerabili come troppo brusche od estreme, in quanto in realtà, sia libelli troppo bassi, che livelli troppo alti, risultano essere rischiosi per la salute, e sono in grado di determinare importanti danni. Se l’insulina si abbassa troppo infatti, l’intero sistema ne risente, soprattutto gli organi interni ed il cervello. Uno dei primi segnali di ipoinsulinemia è un forte senso di stanchezza, accompagnato da una potente sensazione di fame che induce tipicamente il soggetto a favorire numerose abbuffate. Altri sintomi sono associati a debolezza generale e capogiri. Al contrario, in caso di livelli troppo elevati di insulina, si ottiene una importante produzione di prostaglandine pro infiammatorie di tipo II, oltre che l’attivazione della lipogenesi (aumento di tessuto adiposo, con localizzazione prevalentemente addominale), ed il blocco della lipolisi (scissione dei trigliceridi in acidi grassi e glicerolo). È abbastanza intuitivo comprendere che la commistione di questi elementi genera un fattore fortemente predisponente all’aumento di peso, con un accumulo di tessuto adiposo, soprattutto localizzato a livello addominale (Loiacono, 2014).

Tutte queste premesse ci consentono di comprendere perché sia così importante favorire il mantenimento di livelli più regolari possibili dell’ormone insulina. Per poter

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promuovere questa regolazione, esistono alcune piccole accortezze: per prima cosa è opportuno consumare pasti frequenti con porzioni piccole nell’arco di tutta la giornata. In genere si consigliano cinque pasti, in cui favorire primariamente il consumo di alimenti a basso o medio indice glicemico, ad eccezione del primo pasto (la colazione) che può contenere alimento con un indice glicemico più elevato (questo è vero in soggetto non affetti da patologie metaboliche come il diabete, o tutte quelle patologie che coinvolgono lo squilibrio dell’insulina).

Il concetto di Indice Glicemico (IG) è riferito alla capacità di determinati alimenti o cibi, di stimolare la produzione di insulina. Tanto più è alto l’Indice Glicemico (IG) di un alimento, tanto maggiore sarà la quantità di insulina rilasciata dalle cellule beta del pancreas. L’Indice Glicemico è, nello specifico, un valore che definisce la velocità con cui il determinato alimento è in grado di far aumentare la glicemia (quantità di glucosio contenuta nel circolo ematico) dopo aver consumato 50 grammi di carboidrati (zuccheri). In condizioni di digiuno, la glicemia si aggira intorno ad 1 grammo per ogni litro di sangue. L’Indice Glicemico è influenzato da diverse caratteristiche dell’alimento: in primis dal fatto che si trovi in forma solida o liquida, in secondo luogo dipende dalla quantità di fibra presente nell’alimento, nello specifico, maggiore sarà la quantità di fibra, minore sarà l’Indice Glicemico sprigionato. Altri aspetti che influiscono sull’IG sono: il metodo di preparazione (ovvero il consumo di cibo direttamente crudo o previa cottura), ed infine la qualità dei carboidrati presenti nell’alimento, in quanto, tanto più i carboidrati sono raffinati, tanto più l’indice glicemico tenderà a risultare elevato.

I valori dell’indice glicemico vengono considerati molto bassi fino a 40, sono definiti come bassi da 41 a 55, sono annoverati come moderati da 56 a 69, mentre dai 70 in su l'indice glicemico è considerato alto o molto alto (Loiacono, 2014); (Rossoni, 2013). Tra gli elementi ad alto Indice Glicemico possiamo menzionare: lo sciroppo di glucosio, le patate, la farina di riso, le fette biscottate, la fecola di patate, l’orzo, il latte di riso, le carote cotte, il riso soffiato, le gallette di riso, il pane bianco, i pop-corn, la zucca, l’anguria, il melone, lo zucchero, il cous cous, lo zucchero integrale, il mais.

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Tra gli alimenti con Indice Glicemico moderato possiamo ricordare: il succo di mela, avena, il kiwi, fico secco, la farina di farro integrale, la semola integrale, il farro, l’ananas, il succo d’arancia, il succo di pompelmo, kamut, grano saraceno.

Tra gli alimenti con basso Indice Glicemico si annoverano: la quinoa, l’arancia, i fagioli cannellini, il pesce, i crostacei, le carni bianche, le prugne, la soia, le albicocche, i fagioli rossi, le carote crude, i ceci, il latte di soia, il latte d’avena, il fruttosio, il cacao in polvere, le zucchine (Capano, 2014).

I valori dell’Indice Glicemico sono fortemente influenzati dalle interazione con altri macronutrienti, ovvero grassi e proteine, in quanto la presenza di questi elementi, in unione ai carboidrati, è in grado di rallentare la velocità di assorbimento intestinale. Questo è il motivo per il quale è più salutare associare ricco in carboidrati (come pasta, pane o pizza), anche alimenti proteici come carne (soprattutto carne bianca) o pesce, od ancora meglio, alimenti ricchi di fibre come la verdura. Analogamente, aggiungere del grasso, come per esempio un cucchiaio di olio d’oliva ad un pasto carico di carboidrati, consente di diminuire in modo rilevante l’Indice Glicemico del pasto, ed è inoltre in grado di rallentare la successiva comparsa della fame, che è favorita da pasti ricchi di zucchero.

Se un soggetto è intenzionato a seguire un percorso di dimagrimento, od è volenteroso nel mantenere un perso corporeo “adeguato” o “normopeso”, può pertanto valutare l’utilizzo di corretti accostamenti alimentari, oltre che promuovere l’assunzione di cibo ad intervalli regolari, favorendo il consumo di (almeno) cinque pasti al giorno, suddivisi in due pasti principali, più due spuntini, uno a metà mattina ed uno a metà pomeriggio (Loiacono, 2014); (Capano, 2014); (Rossoni, 2013).

Il glucagone

Il glucagone è un ormone polipeptidico secreto dalle cellule alfa delle isole del Langerhans, quest’ormone è biochimicamente composto da una sequenza di 29 amminoacidi. L’azione cardine del glucagone, come precedentemente accennato, è un’azione di tipo iperglicemizzante, antagonista a quella dell’insulina, che appunto risulta avere un’azione di tipo ipoglicemizzante. In condizioni in cui i livello di glucosio ematico riducono, la secrezione dell’ormone glucagone, viene incrementata. Questo

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ormone, definito anche “ormone della fame”, ha la capacità di sostenere, anche durante lunghi periodi di digiuno, la concentrazione ematica del glucosio relativamente elevata. Il suo effetto è inoltre sinergico a quello dell’adrenalina e dei corticosteroidi, come il cortisolo. La sua secrezione è fondamentale per mantenere costate la concentrazione glicemica ematica quando quest’ultima tende ad abbassarsi. La possibilità di mantenere un’adeguata concentrazione di glucosio ematico è fondamentale, in quanto essa deve essere mantenuta in determinati limiti specifici. Quando terminiamo un pasto, ad esempio, si ha l’inizio dell’assorbimento di glucosio, tale per cui, la sua concentrazione tende ad aumentare nel sangue; a questo punto il pancreas si attiva secernendo insulina, che come abbiamo spiegato gioca un azione ipoglicemizzante. L’insulina, antagonista del glucagone, facilita l’ingresso del glucosio all’interno delle cellule, in modo che queste ultime risultino poi in grado di utilizzarlo (se restasse solo a livello del circolo ematico non potrebbe essere usato come fonte di energia da diversi tipi di tessuti, ad esempio il tessuto muscolare o quello adiposo). L’utilizzazione del glucosio da parte dei vari tessuti, genera di rimando, un abbassamento della glicemia; questa condizione genera così l’attivazione del centro della fame che spinge un soggetto ad alimentarsi nuovamente. Se un individuo non è in quel momento in grado di cibarsi, la concentrazione di glucosio continuerà ad abbassare, ed è qui che entra il gioco il glucagone, che grazie alla sua azione metabolica iperglicemizzante, consente di ripotare i livelli di glicemia nel range considerato come accettabile. Questo meccanismo può essere svolto in maniera efficace da parte del glucagone a partire da due ore dalla fine del pasto, ma può essere interrotto nel momento stesso in cui viene ingerito nuovo cibo, e viene stimolata nuovamente la produzione di insulina (Rizza, 2015); (Speciani A., Speciani L., 2007); (Rassu, 1987).

Questi complessi meccanismi di regolazione, lavorando in sinergia, permettono di impedire un abbassamento della glicemia ematica sotto certi limiti. Essendo il glucosio l’unica sostanza in grado di essere bruciata da parte del sistema nervoso (per la produzione di energia), risulta evidente che una riduzione particolarmente significativa della stessa può gravemente compromettere il funzionamento dei circuiti nervosi, portando il paziente in uno stato di “coma ipoglicemico”, che può portare anche alla morte dell’individuo.

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stimolare la formazione di glucosio nel fegato, che diviene immediatamente disponibile per essere immesso nel circolo sanguigno, ecco perché si afferma che il glucagone mostra un’azione inibitoria sulla glicogeno sintesi. Dall’altra parte, questo ormone si mostra in grado di inibire la sintesi degli acidi grassi partendo da composti più semplici, come appunto il glucosio, promuovendo pertanto il consumo dei grassi stessi e permettendo di favorire il dimagrimento, smaltendo la riserva energetica adiposa.

L’alimentazione non è l’unico sistema in grado di influenzare la produzione ormonale, anche l’attività fisica, infatti, può mostrare degli effetti in termini di risposta ormonale. Ad esempio, durante l’attività fisica, è possibile notare che la produzione di insulina diminuisce, mentre quella del glucagone tende ad aumentare (essendo antagonisti, tendono a mostrare un andamento opposto). Appena si inizia il movimento fisico l’insulina tende quasi a sopprimere completamente la sua azione, ma risulta evidente che soprattutto durante lo sport, è necessario che il glucosio sia portato ai muscoli di continuo, proprio per evitare l’ipoglicemia; ed è a questo livello che entra in gioco il glucagone, che si mostra capace di portare ai muscoli il quantitativo di glucosio necessario alla loro contrazione, attingendo direttamente dalle riserve di grasso, tipicamente accumulate grazie all’azione dell’insulina.

Per concludere, l’insieme di queste evidenze, ci mostra che per il controllo del peso od il mantenimento dello stato di “normopeso”, può risultare particolarmente utile tener sotto controllo l’azione antagonista di questi due ormoni. Favorendo da una parte una regolare alimentazione, e lavorando dall’altra anche sull’attività fisica, capace di mostrare effetti importanti sulla regolazione metabolica (Simonetti, 2015).

La grelina

La grelina è un peptide acilato composto da 28 amminoacidi, secreto dalle cellule P/D1 situate al livello del fondo dello stomaco. La grelina è rilasciata anche dalle cellule ε (epsilon) del pancreas. La grelina è l’unico ormone che sia mai stato scoperto con effetto oressizzante. Con effetto oressizzante si intende la capacità di quest’ormone di andare a stimolare in maniera diretta il senso della fame. Quando abbiamo terminato un pasto, lo stomaco tende ad interrompere l’immissione di grelina nel circolo ematico, in modo da consentire al soggetto di percepire un senso di sazietà, ed interrompendo così

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il suo bisogno di cibarsi ulteriormente. Sulla base di queste premesse, appare abbastanza evidente che i livelli di grelina tendano a fluttuare durante il giorno, risultando particolarmente alti prima dei pasti (in presenza cioè di stomaco vuoto), e tendenzialmente più bassi una volta che il soggetto ha terminato il pasto.

Se ci troviamo a dover affrontare una dieta particolarmente restrittiva, si tendono ad assumere delle quantità di cibo di molto inferiori alla norma, si parla infatti di diete ipocaloriche. Questa condizione può determinare in risposta un aumento dei livelli di grelina, che stimola direttamente il senso della fame percepita dal soggetto, divenendo una sorta di “fattore di rischio” nel percorso di perdita di peso. Questo è anche il motivo per il quale le persone che seguono da diverso tempo una dieta, tendano a percepire un senso di fame molto sviluppato. In condizioni contrarie invece, ovvero di fronte ad un comportamento appetivo eccessivo, si ottiene una riduzione dei livelli di grelina, che induce il soggetto a percepire un chiaro senso di sazietà, ed a provare pertanto meno fame (Panzironi, 2014); (Vicchio, Salpietro, Caruso, Chirico, Grosso, Calabrò, Cutrupini, Briuglia, Munafò, 2011). L’effetto della grelina sembra correlato con il peso, nel senso che, diverse evidenze mostrano come le persone con un peso relativamente stabile, o considerato nei limiti del normopeso, tendano ad avere delle minor modifiche nei livelli di grelina, una condizione questa, che genera un più equilibrato senso di sazietà e di fame. Nelle persone sovrappeso, e soprattutto nelle persone obese, i livelli di grelina tendono a mostrarsi sempre minori, mentre nei soggetti affetti da anoressia, i livelli di questo ormone appaiono come maggiori di quelli rilevati in soggetti peso-forma.

Anche in questo caso, parliamo dell’esercizio fisico, e del suo impatto sulla regolazione dell’ormone grelina, fondamentale per raggiungere il senso di sazietà. I dati in letteratura mostrano che l’esercizio aerobico induce ad una riduzione significativa dei livelli di grelina, determinando di conseguenza soppressione dell’appetito e generando quella che viene definita “reintroduzione energetica post-esercizio” (Delmonte, 2016). L’entità e la potenza di questo effetto dipendono anzitutto dal grado di allenamento del soggetto, dall’eventuale grado di obesità o sovrappeso (in caso in cui sia presente), ma anche dall’età e dal tipo di esercizio praticato (Delmonte, 2016 in http://www.scienzemotorie.com/grelina- lormone-della- fame-e-lanoressia-da-esercizio/).

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Nel 2016 è stato condotto da Hazell et al., che si è interessato di valutare la relazione proprio tra l’esercizio fisico e la produzione di grelina. Il gruppo dei ricercatori, ha dimostrato che esiste una relazione inversa tra l’intensità dell’esercizio fisico e la produzione dell’ormone. Lo studio in questione ha mostrato come durante il periodo post-esercizio, si potesse ottenere una buona soppressione del senso della fame. Conferme analoghe sono state ricavate da una meta-analisi del 2013 che ha riportato come alcuni studi mostrino un’inibizione della produzione dell’ormone grelina, con conseguente inibizione dell’appetito, in associazione ad esercizi richiedenti uno sforzo energetico e meccanico impegnativo, come ad esempio la corsa (Hazell, Islam, Townsend, Schmale, Copeland, 2016); (Shubert, Desbrow, Sabapathy, Leveritt, 2013); (Schubert, Sabapathy, Leveritt, Desbrow, 2014).

Una ricerca promossa da Vatansever-Ozen et al., ha dimostrato che dopo un allenamento ad alta intensità (allenamento HIIT – High Intensity Interval Training), si genera una riduzione del senso di fame di molto maggiore rispetto alla riduzione della fame, dovuta ad un allenamento a bassa intensità (ad esempio esercizi cardio a basso impatto). Dagli studi è altresì emerso che i livelli dell’ormone grelina dopo l’allenamento HIIT erano significativamente più bassi rispetto al gruppo di controllo. Il minor quantitativo di grelina dopo una sessione di allenamento HIIT (High Intensity Interval Training), risulterebbe dovuto ad una ridistribuzione del sangue a favore dei muscoli piuttosto che dei visceri (Vatansever-Ozen, Tiryaki-Sonmez, Bugdayci, Ozen, 2011).

Le scoperte mostrate da queste ricerche, non valgono esattamente per ogni condizione, infatti, nel caso in cui un soggetto risulti obeso, gli studi non mostrano una conferma della riduzione del successivo introito calorico, a fronte della riduzione post-esercizio della grelina. Questo è spiegabile anzitutto perché l’obeso può mostrare una risposta post-esercizio di tipo ormonale diversa da quella ottenibile in un soggetto normopeso, ma secondariamente anche per via del possibile legame psicologico che un obeso instaura con il cibo. Sovente, per questa categoria di soggetti, l’alimento non è visto come mero mezzo di sostentamento o di sopravvivenza, ma è investito di un carico emotivo, che può farlo apparire come una sorta di premio, che induce pertanto una forte gratificazione (Zahra, Mostafaee, Mazaheri, Younespour, 2015).

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Nonostante la possibile differenza nella risposta della grelina in alcuni soggetti, la maggior parte dei ricercatori è concorde nell’affermare che interventi metabolici favorenti un abbassamento dei livelli dell’ormone grelina, possono risultare dei fattori coadiuvanti particolarmente positivi in un percorso di perdita di peso, essendo l’ormone fortemente coinvolto nei processi di generazione della fame (e quindi inducendo una sua riduzione, i soggetti sarebbero in grado di percepirsi come meno affamati).

Tuttavia, è importante tenere a mente, che un ipotetico dimagrimento, non può tener conto solo di un possibile intervento a livello della grelina (basti pensare al legame psicologico e di gratificazione menzionato precedentemente nei soggetti obesi). La perdita di peso non può essere ottenuta agendo solo a livello “metabolico”, infatti nella riduzione della massa corporea, intervengono numerosi fattori, tanto che nessuno studio mostra con certezza un rapporto univoco e di tipo causa-effetto tra la riduzione dei livelli di grelina e la perdita di peso. È indubbio però che questo ormone sia un elemento molto importante e da tener bene a mente nel caso in cui un soggetto sia interessato a procedere in un percorso di dimagrimento, anche se, come precedentemente affermato, non deve e non può essere l’unico elemento preso in considerazione (Brambilla, 2016);(Ferrero, 2016).

La possibilità che un individuo dimagrisca è influenzata da innumerevoli fattori tra i quali: sesso, età, livello di allenamento, BMI, percentuale di massa grassa, assetto di altri ormoni. Oltre ai livelli di allenamento, risulta importante anche il tipo di esercizio effettuato, in quanto può generare delle risposte differenti. È stato ad esempio dimostrato che attività fisiche con dispendio meccanico ed energetico diverso, vadano a provocare delle reazioni diverse. Per esempio, la corsa, rispetto ad un allenamento con la bicicletta, è in grado di generare un dispendio energetico complessivamente maggiore, associato anche ad una minor percezione della fame. In linea generale, comunque, a prescindere dal tipo di attività eseguito, è possibile affermare praticare esercizio fisico con regolarità e costanza, possa risultare uno strumento particolarmente utile al raggiungimento del peso forma desiderato, anche indubbiamente grazie ai suoi effetti generati sull’ormone grelina. Anche in questo caso però sarebbe riduttivo affermare che il dimagrimento può essere causato solo ed esclusivamente dall’intervento sul piano dell’esercizio fisico, infatti, come abbiamo precedentemente riportato, i fattori coinvolti sono diversi e disparati.

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Per concludere, è opportuno riportare come diversi studi abbiano dimostrato che la grelina è influenzata direttamente dai ritmi del ciclo sonno-veglia. Suddette ricerche mostrano che soggetti adulti che dormono poco, risultano avere livelli di grelina più alti, associati ad un maggior senso di fame ed un minor senso di sazietà, rispetto a loro coetanei che dormono un numero di ore considerato adeguato (di solito si considerano dalle 7 alle 9 ore). Si evince pertanto, come anche il sonno, e più specificatamente gli schemi sonno-veglia, possano aiutare a favorire un percorso di riduzione della perdita di peso, sulla base dell’influenza che esercitano sui livelli di grelina. Infatti, dormire dalle sette alle nove ore permette di prevenire innalzamenti anomali di tale ormone e riduce significativamente il desiderio di mangiare di più (Brambilla, 2016);(Ferrero, 2016).

La leptina

La leptina, è un ormone di natura proteica, il cui nome deriva dal greco ‘leptos’, il cui significato letterale è ‘magro’ o ‘snello’, ed è prodotta dagli adipociti. La leptina è in grado di agire a livello del Sistema Nervoso Centrale, in particolare a livello dell’ipotalamo, inducendo la soppressione dell’assunzione di cibo, e generando un incremento di dispendio energetico. Il sito di legame primario della grelina sull’ipotalamo è in cosiddetto Nucleo Arcuato (ARC).

Nel Nucleo Arcuato (ARC), è possibile identificare due popolazione di neuroni, che esprimono per diversi neuropeptidi:

I neuroni anoressigeni (POMC/CART): questo tipo di neuroni viene stimolato dai segnali di sazietà. Essi sono in grado di indurre un’inibizione dell’assunzione di cibo, grazie all’azione di due peptidi, identificati rispettivamente con i termini: CART, dato che i suoi livelli aumentano a seguito dell’assunzione di droghe come cocaina ed anfetamina e a-MSH (derivante dalla POMC);

I neuroni oressigeni (NPY/AgRP): sono dei neuroni che al contrario dei precedenti, vengono stimolati dai segnati di fame. Essi esprimono dei peptidi come il Argp (Peptide Stimolante la Proteina Arguti) e Npy, definito anche Neuropeptide Y.

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In condizioni normali, la leptina è in grado di indurre un’azione inibitoria sull’attività dei neuroni oressigenici (NPY/AgRP), andando a ridurre l’espressione del NPY e del AgRP, e si mostra anche in grado di favorire un’attivazione dei neuroni anoressigeni POMC/CART (Gasparini, 2013).

In condizioni di bassi livelli di leptina circolante, ad esempio durante periodi di dieta (e quindi in condizioni di restrizione alimentare), vengono attivati i neuroni oressigenici NPY/AgRP. Al contrario, in presenza di livelli elevati di leptina, ovvero ogniqualvolta ci troviamo di fronte a condizioni di eccesso alimentare, si ottiene una situazione opposta alla precedente, che determina la stimolazione della via dei neuroni anoressizzanti POMC/CART.

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Oltre alla leptina, esistono anche altre molecole in grado di agire a livello del Nucleo Arcuato (ARC). È possibile riconoscere quelli che vengono definiti “segnali a lungo termine” (Esposto, 2014 in https://lamedicinainunoscatto.it/2014/10/neurofisiologia-comportamento-alimentare-cervello- vero-nutrizionista/) e “segnali a breve termine” (Esposto, 2014 in https://lamedicinainunoscatto.it/2014/10/neurofisiologia-comportamento-alimentare-cervello- vero-nutrizionista/), in grado di agire sul senso di fame o sul senso di sazietà. Tra i “segnali a lungo termine” viene riconosciuto di primaria importanza il ruolo della leptina. Anche l’insulina è in grado di stimolare i neuroni anoressizzanti, trasmettendo il messaggio di fine pasto all’organismo. Nei “segnali a breve termine” invece, riconosciamo il ruolo della grelina, che ha un’azione sui neuroni oressigenici, ma anche il ruolo del polipeptide pancreatico (PP), oltre che dell’amilina, ed infine il ruolo di alcuni peptidi anoressigeni intestinali come la Colecistochinina-Pancreozimina (CCK).

La CCK è prodotta direttamente dall’intestino, specificatamente a livello del duodeno e del digiuno dopo un pasto grasso. Essa risulta particolarmente importante per favorire lo svuotamento gastrico ed anche la secrezione biliare e pancreatica. Ultimo cenno, è rivolto al PPY-36, prodotto direttamente dal colon, in riposta ad un pasto particolarmente calorico (Esposto, 2014).

Come tutti gli ormoni, anche la regolazione della leptina risulta rilevante. In tal senso giocano un ruolo cardine il numero di adipociti posseduti dal soggetto, assieme a diversi altri fattori di tipo endocrino. Il fattore endocrino principale è associato ai livelli insulinemici, infatti quando il livello di insulina è particolarmente basso, si ha una riduzione della sintesi di leptina. Bassi livelli di insulina sono tipici di prolungati stati di digiuno. In condizioni come questa, la secrezione di leptina è molto importante da valutare, in quanto svolge un ruolo fondamentale nella modulazione dell’appetito. Naturalmente, in una situazione opposta alla precedente, ovvero in presenza di elevati livelli di insulina, si ha un aumento della sintesi della leptina.

Come poc’anzi riportato, la regolazione dei livelli di leptina è legata anche alla quantità di tessuto adiposo. Se fino a qualche anno fa, l’adipe era considerata come una sorta di “tessuto inerte”, ad oggi gli viene riconosciuto un ruolo sovrapponibile con quello di un

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vero e proprio organo, capace di favorire azioni metaboliche, interagendo con l’ipotalamo (mediante l’intervento della leptina), per trasportare al nostro corpo informazioni concernenti lo stato delle riserve energetiche. In situazioni normali, ed in assenza di particolari patologie, quando ci troviamo di fronte ad alti livelli di leptina, viene attivato un meccanismo di feedback, in grado di generare una riduzione significativa dell’appetito e dell’assimilazione, oltre che ad un aumento del dispendio energetico.

Sono stati effettuati su alcuni topi degli esperimenti che dimostrano come la somministrazione di leptina, in animali considerati sani, porta gli stessi ad un incremento del metabolismo basale, e ad una riduzione dei comportamenti di appetizione, inducendo come conseguenza a queste premesse, un effetto dimagrante. È interessante riportare che la medesima pratica, associata all’inoculazione di leptina, non ha mostrato effetti significativi nei topi obesi. Infatti, anche se ipoteticamente più siamo obesi più dovrebbe esserci produzione di leptina, è anche vero che in soggetti con grasso in eccesso, viene spesso riscontrata la presenza di resistenza leptinica. Questa alterazione metabolica rende meno efficace l’azione dell’ormone sui centri della sazietà e della fame. I problemi osservati, sono ascrivibili alla recezione od alla trasmissione del messaggio, e possono generalmente dipendere o da una desensibilizzazione (in molti pazienti obesi è stata individuata una bassa presenza di leptina a livello del sistema nervoso centrale, associata però anche ad alti livelli di leptina nel circolo ematico, permettendo così di supporre che gli individui avessero sviluppato una sorta di impermeabilizzazione della barriera ematoencefalica alla leptina stessa) o da interferenze biochimiche, ad esempio in quei casi in cui ci troviamo di fronte ad una condizione infiammatoria silente che altera la funzionalità biochimica dell’organismo, determinando interferenze di vario genere con la leptina (Brughera, 2015).

La secrezione leptinica, al pari di quella di altri ormoni, mostra un ritmo circadiano, con un incremento dei suoi livelli durante la notte. In linea generale, possiamo affermare che la sua secrezione è inibita da acidi grassi, androgeni, GH, ormoni tiroidei e dall’attività; mentre risulta stimolata da estrogeni, glucocorticoidi, TNF-α ed insulina.

L’ormone leptinico, non si limita tuttavia a modulare il controllo energetico ed a regolare l’assunzione degli alimenti, infatti esso interviene su numerosi assi endocrini,

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