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Antecedenti.

Donne e sindacato in Italia: una panoramica dall’unità nazionale al Secondo Dopoguerra

La relazione tra le donne e le organizzazioni sindacali in Italia è stata segnata, fin dalle sue orgini, da una forte e diffusa partecipazione femminile a livello di base, tra le militanti semplici e le lavoratrici che si mobilitavano ad esempio in caso di sciopero. Al contrario, il raggiungimento di posizioni apicali all’interno delle organizzazioni dei lavoratori si è sempre dimostrato difficile per le donne e il recepimento di istanze specificamente femminili da parte dei sindacati nel loro complesso ha attraversato storicamente fasi molto diverse.84 L’attitudine dei sindacati nei confronti della situazione delle lavoratrici ha rispecchiato piuttosto fedelmente le circostanze in cui si esprimeva in generale il lavoro femminile all’interno della società italiana: è sempre stato diffuso e spesso molto duro, ma era marginalizzato, sottopagato, caratterizzato da condizioni precarie, occultato dal mito della ‘casalinghità’, ed era costantemente compresso dall’imperativo di provvedere - oltre ad un salario aggiuntivo - anche ai lavori domestici e alla cura dei figli.

Negli ultimi decenni del ventesimo secolo, le innovazioni tecniche in ambito agricolo favorirono l’aumento del numero di donne coinvolte in questo settore (specie nella Valle del Po).85 Questo settore, dove la presenza delle donne era sempre stata significativa, vide livelli di alto conflitto sociale e la nascita di figure femminili che divennero celebri simboli dell’impegno delle donne all’interno del movimento dei lavoratori, come le mondine.86 La meccanizzazione entrò

progressivamente anche nel settore tessile che era sempre stato caratterizzato da una forte presenza femminile. Tuttavia, le importanti innovazioni in questo settore manifatturiero poterono coesistere a lungo con lo sfruttamento intensivo del lavoro a domicilio che gravava principalmente sulle spalle delle donne. Il lavoro a domicilio - come sottolinea Chianese - ben rappresenta la situazione complessiva delle donne sia in relazione al mondo del lavoro sia in relazione ai sindacati: un lavoro duro che, confinato in uno spazio che era considerato pertinente alla ‘sfera del privato’, impediva

84 Vedi Gloria Chianese, Storia di donne tra lavoro e sindacato, in Id. (a cura di), Mondi femminili in cento anni di

sindacato, Ediesse, Roma, 2008, pp. 19-83.

85 Vedi Guido Crainz, Il mondo dei braccianti dall’800 alla fuga dalle campagne, Donzelli, Roma, 1994. 86 Lavoratrici nelle risaie.

alle donne di fare fronte comune e di sviluppare eventuali forme di sindacalizzazione.87 Tuttavia, a partire dall’unificazione nazionale italiana, nonostante tutte le difficoltà già menzionate, l’attivismo delle lavoratrici andò crescendo stabilendo legami importanti tanto con le organizzazioni femministe che stavano allora via via emergendo, quanto con le prime leghe di lavoratori e le prime società di mutuo soccorso.88 In alcune aree del paese, come il meridione e le regioni del nord-est, il fenomeno dell’emigrazione - specie transoceanica - mutò profondamente le relazioni tra uomini e donne, aprendo - in alcuni casi - spazi a nuove forme di occupazione femminile.89 Il lavoro delle donne aumentava: nonostante l’immagine borghese della donna come ‘angelo del focolare’ che si dedica all’educazione dei figli ed all’arricchimento spirituale del nucleo familiare stesse prendendo piede divenendo un punto di riferimento per le donne di tutte le classi sociali, in ogni caso la grande povertà della vita reale imponeva a molte donne di procurarsi e mantenere un’attività retribuita. La camera generale del lavoro venne fondata nel 1906. I settori maggiormente sindacalizzati erano il metalmeccanico e il bracciantato agricolo: entrambi erano profondamente radicati nel nord del paese, dove una vasta rete di circoli socialisti, società di mutuo soccorso e cooperative si era andata sviluppando già a partire dal secolo precedente e dove le donne trovavano posto quanto meno come braccianti.90 Le donne potevano esprimere il loro impegno sia in alcune leghe femminili sia nelle leghe miste: nel primo caso, esse potevano raggiungere posizioni apicali e lavorare a fondo su questioni connesse al lavoro femminile ma con scarse possibilità di accedere a risorse economiche di rilevo o di ottenere concreto potere contrattuale; nel secondo caso, esse erano confinate in ruoli subordinati e le loro rivendicazioni erano escluse dalla lista delle priorità. In effetti l’approccio dei sindacati alla questione femminile era segnato per un verso da un sostanziale disimpegno in relazione ai temi dei diritti politici e civili, per un altro dall’attenzione ai diritti sociali declinati come segue: i sindacalisti uomini si occupavano principalmente della protezione della maternità , mentre le sindacaliste donne erano molto impegnate - oltre a ciò - sulle questioni della parità retributiva e delle condizioni di lavoro. Nei primi anni del XX secolo l’impegno femminile nei sindacati vide l’affermazione di alcune donne forti che raggiunsero posizioni di rilievo grazie alla

87 Vedi Fiorenza Tarozzi, Lavoratori e lavoratrici a domicilio, in S. Musso (a cura di), Operai, Rosenberg &

Sellier,Torino, 2006, pp. 109-161.

88 Vedi Annarita Buttafuoco, Tra cittadinanza politica e cittadinanza sociale. Progetti ed esperienze del movimento

politico delle donne nell’Italia liberale, in Gabriella Bonacchi e Angela Groppi, Il dilemma della cittadinanza: diritti e doveri delle donne, Laterza, Roma, 1993, pp. 104-127.

89 Vedi Andreina De Clementi et al. (a cura di), Storia dell’emigrazione Italiana. Partenze. Arrivi, Donzelli, Roma,

2001-2002.

90 A dirigere la Federbraccianti fu chiamata, nel 1906, Argentina Altobelli.

Vedi Renato Zangheri (a cura di), Lotte agrarie in Italia. La Federazione nazionale dei lavoratori della terra (1901- 1926), Feltrinelli, Milano, 1960.

loro contemporanea militanza tra le fila del Partito Socialista e delle organizzazioni femministe per il suffragio. Queste donne rappresentavano singoli casi: abbracciavano stili di vita emancipati avendo spesso ricevuto un’istruzione fuori dal comune, molte erano insegnanti, ed erano impegnate sul doppio fronte dei diritti politici (il voto) e dei diritti sociali per le lavoratrici.91 All’epoca la questione della protezione della maternità era ampiamente discussa in tutta Europa, con tratti anche ambigui connessi a politiche eugenetiche e pro-natalistiche: in Italia alcune misure protettive varate in questo periodo92 provocarono un vivace dibattito che vide la socialista Anna Kuliscioff a favore e l’emancipazionista Anna Maria Mozzoni contraria ad esse.93 Il fatto di garantire migliori condizioni di lavoro avrebbe dovuto essere considerato un obiettivo comune all’intera classe lavoratrice, ma alcune misure - indirizzate esclusivamente alle donne - potevano rappresentare un rischio per i loro specifici livelli occupazionali.94

L’interconnessione tra impegno sindacale ed attività politica nel Partito Socialista impose alle donne di affrontare i dilemmi tra pacifismo ed interventismo che attraversarono il fronte progressista italiano allo scoppio del primo conflitto mondiale.95 In ogni caso, il periodo bellico ha

rappresentato un importante punto di svolta per l’ingresso delle donne in molti settori occupazionali e in generale per la loro crescente visibilità nella sfera pubblica. Le donne erano ancora prevalentemente occupate in settori produttivi tradizionali, come l’industria tessile e il lavoro a domicilio di varia natura, ma la loro inedita presenza in settori più innovativi - come le industrie metalmeccaniche e chimiche (assai sviluppate in questa fase per via delle necessità belliche) - diede loro una straordinaria occasione di emancipazione dovuta anche al fatto ch’esse dovettero spesso assumere in questa fase il ruolo di breadwinner sostenendo la famiglia con il proprio salario mentre gli uomini erano al fronte.96 Dopo la guerra l’occupazione femminile fu drasticamente ridimensionata e le donne impiegate dovettero far fronte ad una brutale offensiva strategica sostenuta dalle associazioni dei veterani e spesso condivisa dai sindacati. Tuttavia qualcosa era cambiato irreversibilmente poiché era ormai chiaro che le donne erano in grado di svolgere ogni

91 Vedi Simonetta Soldani, L’educazione delle donne. Scuola e modelli di vita femminile nell’italia dell’800, Franco

Angeli, Milano 1989.

92 La legge contro il lavoro notturno (n. 242, 19 giugno 1902) e la legge per la riduzione dell’orario di lavoro a 12 ore

(n. 416, 7 luglio 1907).

93 Vedi Franca Pieroni Bortolotti, Socialismo e questione femminile in Italia1892-1922, Mazzotta, Milano, 1974. 94 Sul dibattito in Europa, vedi ad es. Gisela Bock, Women in European History, Blackwell, Oxford, 2001.

95 Solo un paio di esempi significativi: sul fronte interventista Anna Franchi, leader della Lega Femminile Toscana,

fondò l’Associazione per le madri dei caduti; sul fronte pacifista Maria Giudice guidò le sommosse contro la guerra a Torino nel 1917 e fu arrestata con l’accusa di “propaganda disfattista”.

tipo di lavoro e che soltanto una società ancora dominata dagli uomini le costringeva ora a rientrare a casa.

L’avvento del fascismo rappresentò per il sindacalismo femminile così come per il sindacalismo in generale un periodo di regresso: la violenza esercitata dallo squadrismo fascista ai danni delle organizzazioni dei lavoratori fu terribile e costrinse molte figure di spicco del sindacato a ritirarsi a vita privata o a compiere la scelta radicale dell’ingresso nella clandestinità. I lavoratori furono privati dei loro diritti di rappresentanza e di sciopero: il potere dei datori di lavoro cessava di avere un qualunque contrappeso dal momento che l’unico sindacato legale era quello fascista con la sua strategia di soluzione corporativa dei conflitti sociali.97 Il fascismo impose ai danni delle donne un inasprimento delle leggi contro l’aborto e la contraccezione in vista di un forte progetto pro- natalista supportato dall’OMNI, l’Organizzazione Nazionale Maternità e Infanzia: questa nuova organizzazione, insieme alle organizzazioni fasciste femminili, soppiantò radicalmente l’attiva rete dell’associazionismo femminista preesistente che - durante l’intero periodo fascista - fu condannata all’illegalità in tutto il paese.98 Per riaffermare costantemente il fondamentale ruolo materno delle

donne, in contrasto con il carattere virile del regime, il fascismo promulgò anche leggi specifiche che miravano a ridurre la presenza delle donne nei luoghi di lavoro oppure a svalutare le loro attività.99 Tuttavia, considerando le condizioni materiali dell’intera classe operaia all’epoca - condizioni di miseria - bisogna notare come forme di resistenza che includevano anche le donne sopravvissero nel corso di tutta la durata del regime rafforzandosi allo scoppio della seconda guerra mondiale.100 Le donne sindacaliste che scelsero in questa fase di passare alla clandestinità sono in parte diverse da quelle dell’epoca giolittiana: le nuove difficoltà connesse all’attività sindacale illegale sotto il regime fascista imponevano a molte di loro di ridurre lo ‘spazio’ riservato alla vita personale. Questa generazione di sindacaliste, che passò in clandestinità, fu catturata e torturata, andò in esilio politico e infine abbracciò in vari modi la Resistenza, era composta da donne che realmente potevano essere identificate come eroine nazionali. Nonostante il loro fondamentale ruolo nella liberazione del paese sia stato spesso sottovalutato e perfino nascosto dai loro compagni maschi, questa esperienza le consacrò come donne forti, indipendenti ed emancipate. Alcune di loro

97 Vedi Giulio Sapelli, La classe operaia durante il fascismo, in Id. (a cura di), La classe operaia durante il fascismo,

Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, anno XX, Feltrinelli, Milano, 1979-1980.

98 Vedi Victoria De Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia, 1997.

99 Con il R. D. 09 dicembre 1926, alle donne venne proibito l’insegnamento della storia e della filosofia, materie

considerate troppo fondamentali. Con il R. D. L. 15 ottobre1938, ai datori di lavoro pubblici e privati venne fatto divieto di assumere più del 10% di forza-lavoro femminile, eccetto che nei settori tipicamente femminili.

presero parte all’Assemblea Costituente ma soprattutto per via dei loro ruoli all’interno dei partiti della sinistra; solo poche di loro furono invece coinvolte come rappresentanti nei gruppi dirigenti sindacali della nuova Italia repubblicana.101 Il periodo post-bellico fu segnato dalla ricostruzione e dunque dal nuovo ruolo giocato dall’organizzazione dei lavoratori. In seguito, tuttavia, con il cosiddetto ‘boom economico’102 apparve chiaro come il protagonista di questa fase fosse l’operaio maschio dell’industria: prima fu identificato con il lavoratore specializzato e politicizzato che aveva aiutato nel sabotaggio della produzione industriale sotto l’occupazione tedesca e poi si era impegnato nella difesa delle fabbriche; successivamente passò ad essere identificato con il giovane lavoratore non specializzato immigrato dal Meridione.103 Con l’enfasi sull’organizzazione razionale

del lavoro industriale la visibilità del lavoro femminile era nuovamente messa a rischio. Alcuni settori a tradizionale manodopera femminile, come l’agricoltura e l’industria tessile, furono abbandonati e la crescente società del consumo tese a presentare la figura femminile felice del suo essere ‘moderna casalinga’ vicina al modello americano. Nonostante ciò, l’adozione crescente della tecnologia favorì alla fine l’accesso delle donne ad un’ampia varietà di industrie meccaniche ed elettroniche. Anche il settore dei servizi stava crescendo offrendo impiego a molte donne. In generale si può dire che il boom economico consentì alle donne di entrare in massa nel mercato del lavoro ma che i sindacati non furono in grado di comprendere appieno il rilievo dei mutamenti in atto legati alla diffusa presenza femminile nei posti di lavoro.104 Cambiarono notevolmente le stesse donne che sceglievano di impegnarsi nel sindacato ed il legame tra la vecchia generazione che aveva attraversato la guerra e la nuova generazione appariva difficile. Le Commissioni Femminili del dopoguerra, che trattavano le questioni femminili ancora in termini di protezione, negli anni Settanta furono infine soppiantate - dopo alcuni passaggi intermedi - dai Coordinamenti.105 Le nuove sindacaliste avevano un background formativo e politico pienamente radicato nelle vicende del loro tempo, che avevano aperto scenari inediti di radicalità. La maggior parte di loro aveva usufruito della nuova educazione di massa, in molte presero parte al movimento studentesco del 1968 formulando una dura critica nei confronti delle forze tradizionali di sinistra e guardando con scetticismo ai concetti di ‘emancipazione’ ed ‘uguaglianza’ portati avanti ed incarnati dalle

101 Vedi Anna Rossi Doria, Le donne sulla scena politica, in Storia dell’Italia Repubblicana, vol. I, La costruzione della

democrazia, Einaudi, Torino, 1994, pp. 779-864.

102 Convenzionalmente 1958-1963.

103 Vedi Andrea Sangiovanni, Tute blu: la parabola operaia nell’Italia repubblicana, Donzelli, Roma, 2006.

104 Vedi Paul Ginsborg, Dal miracolo economico agli anni ’80, vol. II, in Id., Storia d’Italia dal dopoguerra a oggi,

Einaudi Torino, 1989. Vedi inoltre Guido Crainz, Il paese mancato: dal miracolo economico agli anni Ottanta, Donzelli, Roma 2005.

sindacaliste più anziane.106 Negli anni Settanta, con la diffusione nei paesi occidentali del movimento neofemmnista internazionale, questa nuova generazione di sindacaliste mostrò di nutrire pochi dubbi circa l’utilità di adottare un punto di vista di genere per interpretare ed insieme cambiare tanto le loro vite quanto la politica sindacale. Il rapporto delle donne con il lavoro non poteva continuare ad essere letto in base a tradizionali schemi emancipazionisti, ma andava piuttosto elaborato a partire da idee di liberazione ed autodeterminazione femminile, in grado di disarticolare i presupposti teorici della distinzione pubblico/privato per cambiare davvero le modalità di accesso alla sfera pubblica: quindi all’impegno sindacale e al mondo del lavoro.

Comparazione nella comparazione: una storia ‘frattale’

Prima di entrare nel merito dell’indagine condotta in relazione all’approccio femminista sviluppato nel contesto sindacale italiano a partire dagli anni Settanta, è senz’altro interessante dare conto di come le previsioni (e in certa misura le vere e proprie aspettative, delle quali è inevitabilmente carica una ricerca al proprio inizio) vadano spesso incontro - con il suo dipanarsi nel corso del tempo - a rilevanti e proficui mutamenti. Quando intrapresi le mie indagini relative al femminismo sindacale, infatti, ero convinta che la parte preponderante della mia analisi comparativa avrebbe riguardato il confronto tra il contesto italiano e quello francese. Tuttavia immaginare una relativa omogeneità interna in relazione al caso italiano si è rivelato certamente un errore. Questa prospettiva non ha - mi pare - inficiato l’apertura mentale con la quale ho fin da subito approcciato la materia e l’indagine sul campo, come dimostrato dal fatto stesso di aver avvertito la necessità di scrivere questa premessa. Tuttavia molta è stata la meraviglia, da parte mia, nel rendermi conto della notevole eterogeneità di pratiche ed esperienze che caratterizza le tre città italiane considerate - Torino, Milano, Genova. Nonostante esse condividessero tanto la presenza di importanti industrie metalmeccaniche e meccaniche quanto l’esistenza di un sindacato forte (che proprio alla fine del decennio Sessanta aveva intrapreso un percorso d’avanguardia che l’avrebbe condotto ad una rinnovata unità), tuttavia le modalità con cui l’esperienza femminista riuscì ad innestarsi nel contesto sindacale risultano alquanto differenziate. A Torino l’esperienza dell’Intercategoriale Donne si collocò saldamente nel contesto del complessivo movimento femminista cittadino: i legami - in alcuni casi professionali, spesso politici e certo sempre amicali - tra le donne del sindacato e quelle dei collettivi politici e radicali erano costantemente riconfermati. Esisteva in questa città una eccezionale sintonia all’interno del movimento delle donne: la

106 Vedi Sidney Tarrow, Democracy and Disorder: Protest and Politics in Italy, 1965-1975, Clarendon Press, Oxford,

partecipazione alle riunioni dei diversi gruppi s’intrecciava, gli obiettivi erano condivisi, lotte e strategie erano elaborate collettivamente. A Genova la creazione del Coordinamento Donne rappresentò in prima istanza, per le lavoratrici, un modo per superare le differenze esistenti tra l’affiliazione a sindacati diversi (essenzialmente, la comunista CGIL e la cattolica CISL) e un’occasione per promuovere un impegno politico trasversale che mirava ad includere quante più donne possibile, al di là di ogni steccato ideologico e professionale. Questa scelta veniva considerata un primo passo in direzione della destrutturazione dei meccanismi organizzativi che all’interno del sindacato avevano fino ad allora contribuito alla marginalizzazione delle istanze femminili. A Milano, invece, interviste e materiale archivistico mostrano come i coordinamenti donne fondati qui rimasero prevalentemente collegati alle rispettive confederazioni d’appartenenza. Alcuni eventi erano promossi collettivamente, ma l’etichetta sotto la quale erano pubblicamente presentati era comunque per lo più “Federazione CGIL-CISL-UIL”; mentre a Genova era “Coordinamento Donne” o almeno “Coordinamento Donne FLM” e a Torino “Intercategoriale Donne”. A Milano, inoltre, le sindacaliste non ebbero vita facile nel rapporto con le femministe radicali (con sede in via Col di Lana) che più che altrove opponevano un rifiuto drastico all’azione profusa in contesti non completamente separatisti.

Le differenze esistenti tra le diverse realtà locali sono riconosciute e stigmatizzate dalle stesse protagoniste della stagione del femminismo sindacale. Giovanna, sindacalista torinese, rispetto ad una mia domanda sui rapporti con le altre città riflette:

Mi ricordo rapporti con Milano complicati, perché loro avevano un’altra idea del sindacato. Innanzitutto loro non hanno avuto un’Intercategoriale, però avevano alcune personalità della CGIL e della CISL di spicco che con noi non erano completamente d’accordo su alcune cose ma… […] Insomma, noi ce lo conquistavamo più come collettivo perché eravamo dentro al movimento. Potevamo anche discutere nel movimento ma comunque il movimento includeva l’intercategoriale. Milano è una situazione diversa, però le persone [le donne] all’interno del sindacato contavano, non so come dirti… Le donne che si occupavano di donne contavano.107

Il contesto milanese risulta in effetti eccentrico rispetto agli altri specie dal punto di vista della (relativamente) scarsa interazione tra le donne delle due confederazioni CISL e CGIL. Sandro, un sindacalista cattolico che ho intervistato a Milano, afferma chiaramente: “Se ricordo bene, noi

avevamo il coordinamento CISL e la CGIL aveva il proprio. Poi, quando volevano, soprattutto su iniziative specifiche, si incontravano. Non penso però che discutere insieme fosse semplice… Le nostre donne erano piuttosto diverse da quelle della CGIL”.108 Come emerge dal prosieguo della nostra conversazione, Sandro intendeva attribuire alle donne della CISL una maggiore apertura nei confronti delle elaborazioni femministe che allora andavano emergendo in tema di liberazione e radicalismo, mentre dal suo punto di vista le donne della CGIL erano evidentemente più legate ad un approccio egualitario promosso in generale dalla loro organizzazione. L’attitudine delle donne dei due sindacati non era probabilmente tanto drasticamente divaricato e tuttavia la tendenza a promuovere strategie in forma autonoma era certamente presente. Infatti ciò è riportato anche dalle donne stesse, come Maria che - nel corso di un focus group - accenna alle differenze tra sindacaliste della CISL e della CGIL ad esempio sul tema del lavoro notturno: “Abbiamo avviato una terribile

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