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IL FENOMENO ITALIANO: LA DIVERSA PRESA NELLE VARIE REGIONI

Per quanto riguarda l’Italia, difficoltosa è una ricostruzione complessiva degli atteggiamenti della censura, anche per la situazione frammentaria della territorio: ciò risulta con evidenza dal fatto che non molto si conosce delle regolamentazioni effettive della stampa neppure a Roma che, dopo Venezia, era il secondo centro editoriale italiano. Inoltre, buona parte della penisola, almeno tra la seconda metà del Cinquecento e gli inizi del Settecento, rimaneva sotto la sovranità spagnola: il ducato di Milano, i regni di Napoli, Sicilia e Sardegna. Ciò tuttavia non implica che automaticamente in questi ultimi territori avessero valore le decisioni del re cattolico: è significativo notare come solo la Sicilia e la Sardegna fossero sotto la giurisdizione dell’Inquisizione spagnola, mentre il regno di Napoli e il ducato di Milano restassero nell’ambito di quella romana.50

A Milano le prime disposizioni sulla stampa furono promulgate nel 1523 da Francesco Sforza. Nel 1543 il governatore spagnolo proibì di stampare senza licenza e nel 1564 vennero pubblicati i decreti tridentini, anche se la frequenza con cui vennero replicati negli anni successivi può lasciar intendere che siano rimasti largamente inosservati.

Situazione simile si ebbe nel regno di Napoli, dove le proibizioni pontificie avevano normale corso: di fatto era l’autorità ecclesiastica ad avere il controllo sull’attività editoriale.

Negli Stati al di fuori della diretta influenza spagnola il peso delle proibizioni romane fu ancora più grave. Per tutto il XVII secolo nel ducato sabaudo non fu facile per il duca imporre un sistema di controllo che non fosse quello ecclesiastico, e considerazioni analoghe valgono anche per il

granducato di Toscana. Non è diversa la situazione degli Stati estensi. A Modena era formalmente necessaria l’autorizzazione del duca, ma di fatto quest’ultimo si limitava ad apporre un vidit a opere che avevano già ricevuto l’imprimatur da parte dell’inquisitore.51

Evidente risulta che laddove la produzione libraria rimase modesta i principi non attribuirono grande importanza alla questione. Nella pratica quotidiana furono quindi le autorità religiose a dettare legge, utilizzando strutture in grado di adattarsi con estrema duttilità alla varietà delle situazioni. Di conseguenza, vescovi e Sant’Uffizio spesso preferirono evitare di affrontare apertamente questioni di principio con l’autorità statale per non alimentare estenuanti controversie; era per loro molto più conveniente concentrare gli sforzi sul meno appariscente ma ben più efficace operato di inquisitori periferici, predicatori e confessori abituati al diretto contatto con i fedeli e capaci di incidere profondamente sulle coscienze.

Del tutto diversa fu la posizione della Repubblica di Venezia che, unico tra gli Stati italiani, destinò attenzione costante ai problemi della censura. Le posizioni prese dalla Serenissima a riguardo assunsero un’importanza particolare, poiché da essa dipese parte predominante del rifornimento tipografico della penisola.52

Qui all’inizio del Cinquecento la censura ecclesiastica sui libri di argomento teologico era già esercitata dal patriarca e dall’inquisitore; la prima licenza di stampa rilasciata dall’autorità civile che si trova registrata risale al 1507 e riguarda un episodio di rilevanza politica, in quanto l’autorizzazione assume anche il senso di una concessione di divulgazione.

51 Ibidem.

La disciplina organica sulla materia dei permessi di stampa fu stabilita solo molti anni dopo dal Consiglio dei Dieci con un decreto del gennaio 1527: il benestare doveva essere concesso dopo un esame di due competenti. Tuttavia, nei primi tempi la norma fu poco rispettata e si creò di fatto un doppio regime: una minoranza di stampe erano protette dal privilegio e sottoposte all’esame preventivo della licenza, una maggioranza era priva di licenza e di privilegio.

La scelta del Consiglio dei Dieci come magistratura titolare del rilascio del permesso di stampa a Venezia mostra affinità con la nomina romana del Maestro del Sacro Palazzo. Il Consiglio era infatti una magistratura sorta al principio del Trecento come strumento di tutela del nuovo regime prodotto dalla serrata del Maggior Consiglio e come mezzo di repressione delle congiure intraprese per infrangere quella chiusura; fin dall’inizio, tra le sue prerogative aveva la punizione dei reati verbali contro il patriziato, il governo, il doge o lo stato veneziano e questa era rimasta la sua occupazione primaria (tra la metà del Trecento e il primo decennio del Quattrocento tale attività occupò più dei tre quarti di tutto l’operato giudiziario di detta magistratura). Come nel caso del Maestro del Sacro Palazzo per la città di Roma, anche i veneziani attribuirono il controllo dei libri a una magistratura precedentemente adibita alla sorveglianza del discorso orale.53

Nonostante i primi provvedimenti, probabilmente l’abitudine di stampare senza formalità faticò a perdersi, pertanto la prescrizione del 1527 fu più severamente ribadita nel 1542 e da allora tese a diventare regolare. La licenza rimase comunque sempre di spettanza laica: all’inquisitore cattolico

53 Cfr. Vittorio Frajese, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla

non veniva richiesto nulla più di un parere.54 Il libro assumeva così l’aspetto di un oggetto di rilievo politico e il permesso di pubblicarlo diveniva prerogativa legata al diretto esercizio della sovranità.

Confrontando i casi di Roma e Venezia, ricordiamo che tendenze differenti sono legate alla diversa natura delle istituzioni coinvolte: mentre il privilegio di stampa era un istituto di carattere commerciale volto a tutelare gli investimenti economici, l’imprimatur era invece uno strumento di controllo sui contenuti del testo e coinvolgeva per lo più una sfera di interessi di carattere ideologico e dottrinale. Pertanto, Venezia manifestava una vocazione verso il libro come manufatto commerciale poiché possedeva una particolare sensibilità per la protezione degli investimenti economici dei propri editori mentre Roma sviluppava la propria attenzione verso il testo contenuto in quel manufatto: una specializzazione opposta che però non eliminò il concorrente interesse di entrambi i governi verso entrambi gli istituti.55

Qualunque sia il contesto regionale, gli strumenti ufficiali (come gli Indici) e le norme che regolavano l’attività dei censori offrono solo in parte l’idea di quanto la cultura e la società della seconda metà del Cinquecento siano state sconvolte da un’azione repressiva che non aveva precedenti nella storia. È nell’applicazione quotidiana, nei rapporti che vennero a costituirsi tra responsabili del controllo e librai o nella percezione di quel clima da parte degli autori e dei lettori che si recupera il senso dell’efficacia del poderoso sforzo di inquadramento del sapere.56

54

Cfr. Mario Infelise, I libri proibiti: da Gutenberg all’Encyclopedie, Roma-Bari, Laterza, 2007, p. 14.

55 Cfr. Vittorio Frajese, Nascita dell’Indice. La censura ecclesiastica dal Rinascimento alla

Controriforma, Brescia, Morcelliana editore, 2006, p. 23.

1.7. OLTRE ALL’ERESIA: RELIGIONE, LETTERATURA, SCIENZA,