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Tenerlo in una stanza è quasi impossibile, non riesce a studiare per più di dieci minuti, il resto è un continuo parlare e disturbare gli altri. In laboratorio per fortuna è diverso, lavora tanto anche se non ha conoscenze in materia: non sa rompere neanche un uovo! Sta in silenzio davanti alle sue preparazioni e lavora. Insomma un’altra per- sona! Ha una manualità inaspettata e ben presto diventa bravo nella preparazione dei dolci. Si modificano anche le relazioni: come un fiume in piena, comincia a raccontarsi, a raccontare la sofferenza di anni. Inizia a vedersi capace di fare qual- cosa e quindi degno di attenzione. Per la prima volta, dopo tanto tempo, riesce ad avere fiducia nelle sue capacità. E per noi non poteva andare meglio. Dietro Marco “casinaro” c’è un ragazzo gentile, educato, simpatico e soprattutto che è capace di autoregolarsi. Ha stretto buone relazioni con gli altri ragazzi, è nel cuore di tutti gli operatori.

Per il tirocinio troviamo un ristorante a conduzione familiare, piccolo ma gesti- to da un fratello e una sorella molto giovani. I due sono scettici sul progetto, un po’ prevenuti sulla tipologia dei ragazzi, ma alla fine accettano anche loro la sfida. Ini- zia un bel periodo per Marco. In pochi mesi impara tante cose e ben presto diventa il responsabile della preparazione degli antipasti e dei dolci. È orgoglioso del suo percorso. Questo non ci meraviglia: sapevamo che era in gamba. Nelle visite al tiro- cinio potevamo mangiare solo quello che preparava lui e, per fortuna, era bravo! Quello che davvero ci stupisce è l’atteggiamento dei proprietari del ristorante. Per lo- ro Marco è diventato il fratello minore, ha rubato anche i loro cuori. L’ambiente pic- colo e familiare ha dato la possibilità a Marco di stare sereno, di acquistare fiducia nelle proprie capacità e di sentirsi amato e considerato. Per i proprietari è l’occasione per ricredersi, per capire che dietro l’apparenza si cela un ragazzo sensibile, affet- tuoso e in gamba. Il percorso di Marco si conclude nel migliore dei modi: promosso con un bel voto, e dopo l’esame gli viene offerto un lavoro dal ristorante.

Ma avviene qualcosa che ci lascia perplessi. A metà giugno Marco ci chiama per dirci che è tornato a casa e che ha rifiutato la proposta di lavoro. Sconcertati gli chiediamo spiegazioni, senza però ottenere risposte.

Qualche mese dopo, diventa maggiorenne e così andiamo in visita domiciliare, con tanto di torta e candeline. Più che visita domiciliare, è una visita “da marciapiede”, lo troviamo in strada con i suoi amici. Stupito della nostra presenza ci abbraccia, un abbraccio sincero. Non era mai successo prima, era sempre distaccato. Dopo averci aggiornato sulla sua vita degli ultimi mesi, sulla nuova fidanzata, ci spiega il motivo della rinuncia a quel lavoro: «Non lo merito un posto del genere, sono brave persone e mi vogliono bene, ma io vengo da qui, dalla strada, non mi merito tanto».

Per tutta la durata del viaggio di ritorno da quella visita, io e l’altra operatrice restiamo in silenzio pensando a quali ferite profonde deve avere un ragazzo per sentirsi così indegno d’amore.

Attualmente Marco sta bene, ha una fidanzata stabile e lavora saltuariamente ma in regola.

«Ciao Mirela! Come stai?»

«Bene, tutto bene! Sai Inma, ci sono un po’ di novità. Quasi sicuramente ad ottobre firmerò un contratto d’apprendistato, ho preso da poco in affitto una casa tutta per me che pian piano sto arredando e sono riuscita a realizzare un sogno che avevo sin da piccola: la patente di guida!».

Mirela è nata a Roma poco meno di vent’anni fa, la mamma è croata, il papà in- vece è serbo. Ha sempre vissuto a Roma. L’infanzia l’ha trascorsa in un campo no- madi, insieme ai genitori e ai due fratellini. Quando ha sette anni, il Tribunale per i minorenni affida i tre bambini ai servizi sociali del Comune di Roma. Poi, nel 2007, alla mamma e al papà di Mirela viene sospesa la potestà genitoriale, e i tre fratelli vengono accolti in una casa famiglia per minori. Tre anni dopo, il tribunale ratifica la decadenza della potestà genitoriale e nomina il sindaco di Roma tutore dei tre minori.

Mentre è in casa famiglia, Mirela va a scuola e consegue la licenza media: un primo traguardo. Subito dopo si iscrive all’istituto alberghiero, ma dopo un anno interrompe la frequenza. Le difficoltà e la fatica della vita personale mal si concilia- no con la scuola: decide di abbandonare.

L’assistente sociale che segue Mirela insieme ad una suora della casa famiglia decidono allora di indirizzarla al Centro accoglienza minori del Borgo ragazzi don Bosco, dove comincia un corso per parrucchieri, per imparare a «mettere le mani nei capelli», come dice lei. In questo modo potrà acquisire delle competenze professio- nali ed ottenere un attestato di qualifica, utile per tentare di inserirsi gradualmente nel mondo del lavoro.

Mirela è una bella ragazza, ha cura del suo aspetto, è piuttosto timida e sta mol- to sulle sue, ma piano piano scopre che in quel nuovo ambiente in cui si trova si può fidare di chi la circonda. «Mi sono sentita accolta sin dal primo giorno, voluta bene, accettata da tutti gli educatori, gli operatori, le ragazze e ragazzi del Centro, mi han- no insegnato tante cose, sono stati sempre vicino a me, pronti ad aiutarmi, non ho mai notato pregiudizi nei miei confronti», dirà lei stessa un po’ di tempo dopo.

Mirela incontra degli operatori che fanno dei passi insieme a lei, per cercare di migliorare la sua capacità di vivere e di affrontare le situazioni avverse come un’op- portunità di crescita, facendo in modo che le sue potenzialità vengano fuori.

A diciotto anni, ormai maggiorenne, Mirela deve obbligatoriamente lasciare la casa famiglia e mantenersi autonomamente. Ma non viene lasciata sola. In questi ca- si il Centro segue i ragazzi che escono dalle rispettive case famiglia e per i quali non è attivo uno specifico progetto di semiautonomia: viene predisposto un percorso di accompagnamento all’inclusione sociale che prevede la ricerca di un posto letto,