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gli andavo dietro, non c’ho mai avuto delle idee mie. Sono andato sempre appresso alla gente, mi sono sempre fatto trasportare dagli altri. Frequentavo San Giovanni, il don Orione. Frequentavo gente che si vestiva in una certa maniera, si rasava i ca- pelli, la pensava in un certo modo. Di giorno andavamo in giro tutti quanti insieme con i motorini, capitava che vedevamo un extracomunitario che camminava per stra- da, nella nostra zona, noi ci fermavamo e magari solo per un semplice sguardo gli menavamo, giusto perché ci aveva guardato, per far vedere che eravamo più forti». Manuele ha un carattere estroverso, è in grado di stabilire ottimi rapporti con tutti, grazie alla disponibilità al dialogo e alla sua accattivante simpatia, ma alterna mo- menti di euforia a momenti di depressione. I capelli, cortissimi, sono sempre perfet- ti, così come i suoi abiti, gradisce complimenti e attenzioni. Non è impegnato poli- ticamente, ma non sopporta stranieri, barboni, accattoni, mostrando quindi una inconsapevole solidarietà con naziskin e neofascisti.

Manuele trascorre le serate in discoteca, con gli amici e la ragazza, girano le pa- sticche e poi la cocaina. Inizia ad aver bisogno di soldi: «Alcune delle persone che frequentavo facevano scippi e rapine, e così ho cominciato pure io. Da una parte mi piaceva, ma dall’altra capivo che era sbagliato. Però vedevo che c’era il guadagno fa- cile e sono andato avanti. C’avevo la mente annebbiata da tutte le sostanze, da tutte le cose che me pijavo».

Fino alla giornata che cambia la sua vita. «Avevo fatto uso di psicofarmaci e, insieme ad un mio amico, mi sono diretto verso Monteverde, dove ho cominciato a fare una serie di rapine dentro alcuni palazzi di Monteverde Vecchio – ricorda Ma- nuele –. Le prime tre sono andate bene. Alla quarta ho seguito un signore fin dentro ad un portone. L’ho minacciato con un coltello, lui ha reagito, mi si è rivoltato con- tro, e io l’ho colpito, quattro volte, ferendolo gravemente. È stato in prognosi riser- vata per un mese, poi per fortuna si è ripreso». Manuele scappa per le vie di Monte- verde Vecchio – il “salotto popolare di Roma”, come lo ha definito Nina Quarenghi in un bel libro sul quartiere oltre Trastevere – ma la polizia, che frattanto era stata avvertita, lo arresta immediatamente. Lo porta al Tribunale dei minori, in via dei Bresciani, poi a Casal del Marmo, il carcere minorile, dove Manuele resta chiuso per quattro mesi e dove conosce zi’ Fonzo.

Lascia il carcere per gli arresti domiciliari e comincia a frequentare il Centro accoglienza minori, dove inizia a studiare per prepararsi agli esami di licenza media, che sosterrà in una scuola statale dell’Esquilino, insieme agli altri ragazzi. Per lui viene presentato un progetto di “messa alla prova”, una misura preventiva e alterna- tiva al carcere appena inserita nell’ordinamento penale minorile, che prevede un per- corso fatto di prescrizioni e di attività di reinserimento sociale al termine del quale, se superato, il reato è estinto. Una scommessa, ma anche un gesto coraggioso di fiducia in Manuele.

Non senza difficoltà, gli viene concessa la messa alla prova, per una durata di due anni. È un programma duro che prevede da una parte la preparazione per l’esa- me di terza media e un percorso di revisione personale, dall’altra esperienze di so-

cializzazione e di volontariato alla mensa della Caritas di Colle Oppio, con l’impe- gno di servire ai tavoli quei barboni e quegli stranieri che dice di odiare. Più di una volta Manuele ha la tentazione di mollare: «Era meglio il carcere: qui non si finisce mai di fare colloqui!... Me sta a venì il mascarpone alle... non dico dove per rispet- to. Accannamo [interrompiamo, n.d.r.], famola finita». Il volontariato alla mensa del- la Caritas lo obbliga non solo a prestare un servizio sociale, ma soprattutto al con- fronto con una realtà di forte degrado umano. Dopo il conseguimento della licenza media, frequenta un corso base per elettricisti, che gli consente anche di fare le pri- me esperienze di lavoro come apprendista.

Manuele ha il tempo di riflettere: «Ho capito tante cose, ho visto tutti gli sbagli e le stupidaggini che ho commesso». Un giorno, durante una mattinata al Giardino zoologico insieme agli altri ragazzi e agli operatori del Centro accoglienza minori, mentre Manuele guarda gli animali in gabbia, il loro sguardo triste e la loro cammi- nata indolente che sembra non avere più nulla da chiedere alla vita, mi dice sotto - voce: «Poracci! Stanno in gabbia come ci siamo stati noi. Ma almeno noi avevamo fatto qualcosa, loro non hanno fatto niente!».

È il momento di muovere un ulteriore passo avanti: incontrare Mario. È un passo lungo, per qualcuno troppo lungo, ma ora Manuele può farlo. E può essere il passo decisivo per il suo cammino.

«Vorrei che incontrassi il signore che hai aggredito», gli chiede un giorno zi’ Fonzo. «Ma de che! Ma che stai a di’? Ma come t’è venuto in mente! Te sta a sco- reggia’ er cervello! Io vede’ quello? Dopo ‘na zaccagnata [una coltellata, n.d.r.]», sono le prime risposte di Manuele, che però poi, dopo due mesi di paziente lavoro motivazionale per convincerlo, cambia idea. «E vabbè dai, damose ‘na punta [un appuntamento, n.d.r.] e annamo a ‘st’appuntamento. Sei stato bravo a famme ‘sta tarantella, m’hai convinto», risponde a zi’ Fonzo.

Venerdì pomeriggio. Manuele è sul luogo dell’incontro. È agitato, le gambe ner- vose non lo fanno stare fermo un attimo: «Non ci credo, vedrai che ci hanno teso un agguato, mò arrivano e mi aggrediscono», dice a zi’ Fonzo che è lì con lui.

Dopo qualche minuto arriva Mario, insieme alla moglie. Manuele perde la pa- rola, impallidisce, guarda fisso il terreno, aveva visto solo in tribunale la sua vittima, ma anche in quella circostanza non aveva avuto il coraggio di guardarlo. Ora se lo vede lì davanti, sereno, sorridente, disponibile. Pochi minuti e la diffidenza a poco a poco scompare. «Ho fatto una cosa di cui mi vergogno molto, non so come dir- glielo, sono molto imbarazzato, mi dispiace molto», parla a fatica Manuele. Mario lo abbraccia. «Sembrava un sereno colloquio tra padre e figlio», ricorda don Alfano, «abbracci, pacche sulle spalle, scambio di auguri, eravamo tutti felici». I fili spezza- ti sono riannodati, il cammino prosegue.

Il giorno successivo Manuele ripensa all’incontro: «All’inizio avevo un po’ paura, poi abbiamo stabilito un contatto. Sono contento di essermi scusato con questa per- sona, avevo un peso al collo, ora mi sento sollevato perché mi ha perdonato, non pensavo che ci fosse gente disposta a perdonare. Sono riuscito a cambiare, magari

non sono perfetto però... Se continuo così, se metto definitivamente la testa a posto, se mi responsabilizzo un altro po’, insomma se tutto va bene spero di trovare un lavoro come elettricista e di continuare così».

Dopo due anni, la “messa alla prova” è superata. «È stato stupendo quando in tribunale mi hanno detto che ormai era tutto finito, che le cose erano andate bene e che ero tornato con la coscienza pulita e la fedina penale a posto. Oggi nun me pare vero. Eppure ce l’ho fatta. Coraggio, penso, tutti ce possono prova’».

«C’è un ragazzo che ti sta aspettando, dice di chiamarsi Hassan e di aver fre- quentato il Centro in passato».

Una comunicazione che mi viene fatta spesso, mentre sono a colloquio con qualcuno, a pranzo o intento a scrivere al pc. Cerco di fare mente locale per collegare quel nome ad un viso o ad un ricordo particolare.

«Digli di aspettarmi, arrivo tra dieci minuti», rispondo, mentre, finito il pranzo, sto parlando con alcuni ragazzi per programmare il pomeriggio.

In realtà credo di aver capito di chi si tratta, anche se sono passati molti anni. Ricordo in particolare una piccola gabbia di ottone che abbiamo conservato a lungo in direzione e che proprio un certo Hassan ci aveva portato in regalo dopo essere tor- nato per il periodo estivo nel suo Paese, in Tunisia.

Finalmente mi libero e mi dirigo incuriosito all’ingresso del Centro. Sì, è proprio lui. Ma quanti anni sono passati?

«Ciao Alessandro! – mi saluta Hassan – Come stai? Sono passato alla vecchia sede alla stazione Termini, ho chiesto di te e degli altri, mi hanno detto che stavate qui e sono venuto a cercarvi!».

Che bello rivederlo, penso, contemplando questo giovane uomo.

«Ti ricordi quando sono arrivato da voi? Mi avete sempre accolto senza chiede- re nulla. Io sono musulmano ma so che da voi potevo venire. Non parlavo italiano, mi avete aiutato ad imparare la lingua e a prendere la licenza media, mi avete iscritto al corso di meccanica al Centro di Formazione Professionale. Ti ricordi? Venivo a giocare con voi a pallone. E oggi sono tornato a salutarvi».

Poi ha continuato a raccontare: «Finita la scuola professionale, ho lavorato per un po’ come meccanico, poi però, non trovando un lavoro stabile, sono andato al nord con la mia famiglia e ho imparato a fare il fornaio. Ho lavorato in diversi forni e sono diventato bravo. Ora mi sono sposato, sono tornato a Roma e lavoro come fornaio e pizzaiolo. Ho un bambino di sei mesi e una moglie giovane arrivata dalla Tunisia che non parla italiano. Ho provato a chiedere ad alcune scuole, ma mi fido solo di voi: potete aiutarla ad imparare la lingua come avete fatto con me? Tranquilli... si comporta bene, è migliore di me!».

Ha cominciato poi a raccontarmi la sua vita, i suoi viaggi, le difficoltà incontrate e i tanti momenti difficili. Una condivisione intensa e appassionata per poter sottoli- neare che alla fine ce l’aveva fatta a costruirsi una vita e una famiglia onesta.

«Voi non lo sapete, ne ho passate tante, ma gli anni in cui sono stato al Centro sono stati i più belli della mia vita. Qui mi sono divertito, sono cresciuto, mi sono sentito a casa».

Ho ben presente questo ragazzo, anche perché abitavamo nella stessa zona e a