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Don Alfonso Alfano

durante una lezione, osserva le lampadine del circuito elettrico che non riusciva a far funzionare. Mi avvicino per incoraggiarlo.

«Chi ha inventato la lampadina?». «Edison».

«Sì, Edison! E sai quanti tentativi ha fatto per riuscirci?». La risposta fu immediata, anche se evasiva e imprecisa. «‘Na cifra di volte».

«Mille volte».

«Poveretto!... Cioè, che fico!».

«Ha fallito tantissime volte, ma non si è arreso. Leggi quanto ha scritto questo grande inventore: tutti quanti sono stati passi lungo la strada. In ogni tentativo sono riuscito a trovare un modo in cui non si doveva creare la lampadina. Avevo sempre voglia di imparare, anche dai miei sbagli».

«Era un duro de coccio, come er sottoscritto».

La discussione non finì lì: era convinto di non valere nulla. Ma quel giorno qual- cosa cominciò a cambiare nel suo animo. Per giorni e giorni si diede da fare a lavo- rare all’impianto elettrico, con lampadine di vario colore predisposte in serie, con un meccanismo ad intermittenza. Quando, dopo tentativi andati a vuoto, premendo un pulsante si accesero tutte, ebbe uno scatto di esultanza: «Eh vai! Ecco a voi l’Edis... sòn di Tor Bella Monaca!». Gli misi la mano sulla spalla e mi congratulai per la sua riuscita.

Viene proposta ed accolta la richiesta della messa alla prova. Ma l’estate è alle porte. C. si allontana da casa. Una notte di follia: fumo, pasticche e corse pazze su di una macchina rubata, per le strade alla periferia della città. Non si ferma a un blocco stradale. Inseguito, è arrestato e riportato in carcere. «Non ci stavo con il cervello».

Quanto è amaro il calice del fallimento! Quando sembra che ormai si è fuori del tunnel, si ripiomba di nuovo indietro. E ricominciare, costa caro! Ritornano allora gli interrogativi, inquietanti! Si è fatto tutto il possibile?

C. è insofferente. Ama vivere libero: mal sopporta la situazione in famiglia. Il vagabondaggio ha caratterizzato la sua adolescenza. «Quando scappo mi sento libero di fare ciò che più mi piace». Nonostante le continue fughe, è sempre tornato a casa, preso dalla nostalgia della famiglia: non voleva che la madre soffrisse a causa sua. Ma la strada della libertà era ormai tutta in salita. Ci siamo rivisti anche durante l’ultimo rientro in carcere. Paradossalmente era fiero di essere un ladro stimato, di contare nel quartiere.

«Qui se non sei così, lo diventi; ‘na cifra di gente è agli arresti domiciliari. In casa mia c’è guerra, fuori c’è guerra, vorrei solo scappare... ma a forza di scappare finisco sempre dentro».

«Facendo così, addio libertà! E poi, niente Paradiso. Ci sono cancelli e porte difficili da aprire, da scassinare».

«E voi come farete che non siete bono ad aprire neppure una finestra? Per noi scassinare porte, forzare cancelli è cosa di ordinaria amministrazione».

Tra gli amici di cella aveva imparato una barzelletta. Durante una mia visita in carcere la raccontò con enfasi e compiacimento.

«Ci sono tre persone: un ladro, un carabiniere e un poliziotto. Il Signore disse: esprimete un desiderio perché tutti possiamo vivere in расе. Il carabiniere: desidero far scomparire tutti i poliziotti dalla terra. Il poliziotto: io desidero invece far scom- parire tutti i carabinieri dalla terra. Il ladro: va bene così, non voglio niente per me, purché siano accontentati loro due».

Si rese conto del mio forzato sorriso. «Nun fa ride’, vero?».

Ritornato in libertà, il calvario sembrava concludersi. C. è sereno, deciso; inco- mincia a lavorare, fino a quando non è coinvolto in una maxi rissa tra i suoi parenti. Uno zio viene ferito in modo gravissimo; C. è arrestato insieme al padre e al fratel- lo più grande. Ormai è maggiorenne, finisce nel carcere per gli adulti. Questa volta credo alla sua innocenza. Un quadro assurdo di famiglie sul sentiero di guerra: fratelli contro fratelli, cognati contro cognate, cugini contro cugini. «È uno schifo. Si odiano tutti. Io sono tra l’incudine e il martello. È tutta qui la mia vita».

Davanti alle sue difficoltà, provo solo imbarazzo.

Dopo circa un anno, er perotecnico torna libero. «Oramai sono un giovane disoccupato, Votato all’arte illecita ma... autorizzata dell’arrangiarsi». Dal segno della mano compresi che continuava a rubare!

Sembra un venerdì pomeriggio invernale come tanti, piove, tira vento, fa freddo. Ma è un venerdì pomeriggio diverso, diverso e straordinario.

In una piazzetta del centro storico c’è Manuele, accompagnato da don Alfano, zi’ Fonzo come lo chiamano i ragazzi del Centro accoglienza minori, che aspetta; dopo qualche minuto arriva Mario, insieme alla moglie. Al freddo della temperatura atmosferica, si aggiunge la tensione che si respira nell’aria. I due – Manuele, occhi fissi a terra e mani in tasca, e Mario – si salutano, con cautela e con una buona dose di diffidenza; poi si lasciano andare e si abbracciano, come due persone che hanno tante cose da dirsi che non hanno mai avuto la possibilità o il coraggio di confidarsi. L’anno prima, durante l’ennesima rapina in una delle tante giornate annebbiate e devastate dalle sostanze di cui faceva abbondante uso, Manuele aveva accoltellato Mario, riducendolo in fin di vita. Oggi si incontrano. Manuele è una persona diversa, e anche Mario lo è: il primo ha fatto l’esperienza del riconoscimento dei propri errori e del pentimento, l’altro sta sperimentando il perdono, il dono più grande che si possa fare a chi ti ha ferito, non solo nel corpo.

Da qui si riparte: i fili spezzati dalla violenza e dalla lama di un coltello vengono riannodati. Da qui si può ricominciare, senza cancellare il passato, ma guardandolo in faccia, senza voltarsi dall’altra parte, chiamandolo per nome e dandogli nuovo significato.

Manuele ha poco più di diciassette anni, è di San Giovanni, dove vive con la madre e con il fratello più piccolo. La madre, da quando ha sedici anni, soffre di una grave forma di artrite reumatoide, che lentamente l’ha portata sulla sedia a rotelle, rendendola sempre più dipendente dalle cure dei suoi familiari. In questa situazione, la nonna materna ha un ruolo centrale: è coinvolta nelle dinamiche familiari ed im- pegnata nell’educazione dei nipoti. Il padre, parrucchiere di professione, si separa dalla moglie e riesce ad avere i due figli in affidamento. Ma Manuele e il fratello vi- vono con il padre soltanto per un anno e mezzo, a causa di un ricovero prolungato della madre in ospedale. In questo periodo Manuele prova a lavorare con il padre, ma è insoddisfatto: considera l’attività di parrucchiere per signore non adatta ad un uomo. Il rapporto si incrina definitivamente quando il padre inizia la convivenza con un’altra donna. E quando i due hanno una bambina, Manuele e il fratello abbando- nano definitivamente la casa paterna e ritornano dalla madre.

Scuola fino alla terza media, poi, dopo l’ennesima bocciatura, Manuele abban- dona. Si iscrive alle serali, ma dopo un po’ lascia anche quelle. Comincia a frequen- tare un gruppo di amici, difficili e problematici, diversi dei quali più grandi di lui, che lo influenzano. «Mi facevo suggestionare dalle persone – ricorda Manuele –. Quello che pensava uno più grande di me, a cui portavo rispetto, mi condizionava,