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85Fig 3, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms Chigi L V 176, cc 50v-51r

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Galeotta fu Napoli.

Quella Napoli dove Boccaccio approda nell’autunno del 1327 – e dove rimarrà fino all’inverno a cavallo fra il 1340 e il 13411 – seguendo il

padre Boccaccino, chiamato presso la capitale angioina di re Roberto, in qualità di socio e funzionario della compagnia bancaria dei Bardi, finan- ziatori, a quel tempo, della corte. Mentre il fanciullo dimostra una vivis- sima inclinazione per la poesia e progredisce nello studio del latino sotto la guida di Giovanni da Strada, il padre ne vuole invece fare un mercante. Con ciò, facilmente si spiega l’insistenza di Boccaccino nel volersi trar- re dietro, sulle proprie orme, l’intelligente e promettente figliuolo, senza troppo badare alla particolare vocazione del giovinetto. I due giungono a Napoli seguendo uno dei soliti itinerari del tempo e risiedono, alme- no in un primo periodo, nel fondaco dei Fiorentini. Tuttavia, la vita del giovane Boccaccio – sebbene non vi siano tracce e testimonianze certe in documenti sicuri – si svolge altrove, nel quartiere di Portanova, dove si affollano le sedi dei mercanti. Per essere precisi, è nella Ruga Cambio-

rum, dov’è la sede napoletana dei Bardi, che l’adolescente Boccaccio, tra

i quattordici e i diciotto anni di età, fa pratica mercantesca e bancaria come commesso al banco, alla stregua di tutti gli altri “discepoli”. Svo-

1 Cfr. V. branca, Giovanni Boccaccio. Profilo biografico, Firenze, Sansoni, 1977, pp. 52- 54. Branca ricostruisce con attenzione minuziosa il periodo trascorso da Boccaccio a Napoli, fondamentale per l’apprendistato mercantesco e la maturazione nello scrittore di esperienze sentimentali e culturali. In merito al rientro a Firenze, Branca afferma che non è possibile stabilire con esattezza quando il certaldese lasci la città partenopea. Ciò che è certo è che non è a Firenze durante la pestilenza del 1340, come lo scrittore stesso dichiara, ma è già partito da Napoli nella primavera del 1341, poiché non è presente né al conventus petrarchesco né al ritorno in città dell’Acciaiuoli a giugno.

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gliatamente, acquisendo sempre maggiore consapevolezza del fatto che ciò che il padre gli augura di diventare non è affatto ciò cui egli aspira, il futuro inventore della narrativa moderna sta al banco, riceve e indirizza i clienti, cambia monete, si occupa della corrispondenza e sbriga commis- sioni nella zona commerciale e portuale. È questa per lui un’esperienza fondamentale. La pratica mercantile, per quanto invisa e ritenuta del tut- to inutile, gli garantisce il contatto con gente di ogni dove, gli permette di conoscere piccoli e grandi uomini d’affari, di ascoltare e di raccogliere preziose testimonianze sul mondo mercantile e non solo, che entrano nel ricco patrimonio delle sue conoscenze per poi rivivere pienamente nel suo capolavoro. Infatti, è proprio dalle esperienze maturate nel quartiere animatamente frequentato di Portanova che egli sviluppa «un penetrante e umano spirito di osservazione, da grande narratore»2 e una certa forma

mentis attenta alla concretezza e alla puntualità che lasceranno più di qual-

che lieve traccia nella scrittura realistica del Decameron.

Ma tutto questo il Boccaccio non lo sa. Nell’ultimo libro delle Genealo-

gie deorum gentilium, il XV, opera della maturità, ricca enciclopedia volta alla

illustrazione e alla interpretazione dei miti della tradizione letteraria clas- sica, l’autore ritaglia per sé uno spazio di confessione personale: ripercorre le fasi della propria giovinezza e della propria formazione e non manca di sottolineare come la scelta del padre lo abbia ostacolato e costretto a fatica- re per intraprendere la strada della propria vocazione letteraria e narrativa:

A qualsiasi azione la natura abbia generato altri, io sono stato da essa disposto (e ne è testimone l’esperienza) fin dal grembo della madre alle meditazioni poetiche e, a mio giudizio, sono nato a questo. Ben ricordo infatti che mio padre fece ogni tentativo, fin dalla mia fanciullez- za, perché diventassi mercante; e quando ancora non ero per entrare nell’adolescenza, dopo avermi istruito all’aritmetica, mi affidò come discepolo a un grande mercante, presso il quale per sei anni null’altro feci che consumare invano tempo non recuperabile.[Corsivo mio]

Boccaccio non è però un apprendista qualunque. Frequenta la migliore società mercantile e cortigiana, manifesta una certa consuetudine con la vita della nobiltà e della borghesia napoletana, la cui immensa fascinazione è ben viva e tangibile nelle sue opere giovanili, quali il Filocolo, la Caccia di

Diana o l’Elegia di Madonna Fiammetta. Insomma, Boccaccio vive a Napoli

il periodo più lieto della sua vita, dai quattordici ai ventisette anni d’e-

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tà. Lì si forma, dal punto di vista esistenziale e letterario, frequentando la gioventù dorata della città e dedicandosi a una brillante vita di relazione, senza troppo curarsi delle differenze sociali esistenti tra il figlio illegittimo di un mercante, sia pure facoltoso, e i suoi aristocratici amici. Egli stesso, nel pieno della sua maturità, ricorda in un’epistola, con non poco orgoglio, quei suoi anni giovanili trascorsi «intra nobili giovani», senza che questi si risentissero o si vergognassero della sua “ignobile” condizione:

Io sono vivuto, dalla mia puerizia infino in intera età nutricato, a Napoli ed intra nobili giovani meco in età convenienti, i quali, quan- tunque nobili, d’entrare in casa mia né di me visitare si vergognavano (Epistola XII).

È in questi anni e in questo ambiente che Boccaccio si avvicina a Nic- colò Acciaiuoli, probabilmente già incontrato a Firenze presso la scuola di Giovanni da Strada, e al quale resta legato da un rapporto contraddit- torio e aspro, contrassegnato nel tempo da alti e bassi. Niccolò giunge a Napoli nel 1331, in virtù dei forti legami della compagnia commerciale di famiglia con la corte angioina, ed è probabile che il giovane Boccaccio abbia fatto pratica, secondo la consuetudine del tempo, non solo presso il banco dei Frescobaldi, vicini di sede, ma anche presso quello degli Ac- ciaiuoli. Come il giovane Boccaccio, anche Niccolò Acciaiuoli mostra da subito altre aspirazioni e differenti ambizioni. Egli, insignito prima del titolo di cavaliere da re Roberto e poi ottenuto, nel 1348, il presti- gioso titolo di Gran siniscalco del Regno di Napoli, intesse strettissimi rapporti con la corte. Probabilmente proprio con l’Acciaiuoli – al quale senz’altro il Certaldese deve molto per tutte le sue esperienze aristocrati- che e cortigiane – per merito delle ottime relazioni del padre e dei Bar- di, il futuro autore del Decameron intrattiene rapporti diretti con la Corte angioina e l’aristocrazia napoletana e verosimilmente frequenta la stessa reggia di Roberto, ricordato ripetutamente in molte sue opere, sulla base di impressioni dirette. Tutto ciò gli dà modo di scoprire, nel pieno del suo tirocinio mercantesco, la sua reale natura e vocazione: la poesia. Egli diviene un assiduo frequentatore della Biblioteca reale, vero centro della cultura napoletana, arricchita e accresciuta grazie alle velleità letterarie di re Roberto. Fa conoscenza dei romanzi cortesi e cavallereschi; legge avidamente i romanzi greci e studia i classici latini; non mancano poi le frequentazioni con uomini e libri di scienze. Sono tanti gli intellettuali di spicco che lo accompagnano in questo cammino: Paolo da Perugia, biblio-

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tecario del re, appassionato di letteratura e di astronomia ma soprattutto di mitologia; Paolo dell’Abbaco, matematico e astronomo, nonché poeta; Andalò del Negro, geografo e astronomo genovese; Graziolo de’ Bam- baglioli, bolognese, tra i primi commentatori di Dante, solo per citarne i più importanti. Proprio in questo ambiente, nella Biblioteca e nella Corte angioina, dove egli ha modo di sviluppare il suo ambizioso e, se vogliamo, disordinato enciclopedismo,

il ventenne Boccaccio, ancora culturalmente sprovveduto trova la fonte cui abbeverare la sua disordinata e insaziabile sete di cognizioni3. Ciò che ora preme sottolineare è, appunto, quanto Boccaccio ha modo di vivere e di scoprire presso lo Studio napoletano. È lì che i noiosi studi giuridici sono riscattati dall’incontro con il Professore di diritto, presso tale studio, tra il 1331 e il 1332: Cino da Pistoia, celebre ed illustre giuri- sta ma, agli occhi del discepolo, emblema e promotore della nuova poesia, amico di Dante e Petrarca, e, quindi, esempio sommo e guida altissima. È proprio nello Studio napoletano, dunque, che incontra

una testimonianza vivente di quel culto della poesia che sempre più grandeggiava nella sua anima4.

Cino conferma Boccaccio nel già avviato culto di Dante, probabil- mente lo avvicina alla poesia di Cavalcanti, ma, ciò che in questa sede maggiormente interessa, gli parla – forse è il primo a farlo – del giovane poeta aretino, Francesco Petrarca.

Chi con certezza riferisce a Boccaccio di un letterato di vastissima e mo- derna cultura – Petrarca, per l’appunto – è Dionigi da Borgo Sansepolcro, proveniente da Parigi, dove insegnava filosofia e teologia, ma toscano di ori- gine anche lui. Monaco agostiniano, donatore delle Confessiones di Sant’Ago- stino al Petrarca5, è chiamato a corte da re Roberto per la sua straordinaria

cultura, ma anche in virtù delle sue qualità politiche. Eccellente maestro di retorica e di poetica, fa conoscere al Boccaccio la figura e l’opera di colui che ormai si appresta ad affermarsi quale emblema di una nuova poesia e di

3 Ivi, p. 35. 4 Ivi, p. 31.

5 Dalla donazione delle Confessiones agostiniane, Petrarca trae una lezione decisiva. Cfr. Fam., IV 1, sull’esperienza dell’ascensione al Monte Ventoso, dedicata proprio al monaco Dionigi.

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una nuova cultura. È lecito supporre che Dionigi non sia stato il primo né certamente l’unico a far da tramite. Sicuramente i già citati Cino da Pistoia, Pietro Canigiani – imparentato con la mamma del Petrarca – e gli amici Giovanni Barrili e Barbato da Sulmona devono aver parlato al Boccaccio del cantore di Laura, anche se non direttamente ed esplicitamente, senza la precisione e la dovizia usate dal monaco agostiniano. Così, dall’incontro con Dionigi e dal suo insegnamento hanno origine quella devozione e quella ammirazione, destinata a non tramontare mai, nei riguardi di colui che vedrà, d’ora in avanti, come “pater et dominus”, al quale egli deve tutto ciò che è. Frattanto, Dionigi si adopera a Napoli a che Petrarca sia esaminato presso Roberto d’Angiò ai fini dell’incoronazione poetica in Campidoglio – cer- tamente l’episodio più spettacolare della vita del poeta – avvenuta, secondo la tradizione, l’8 aprile del 13416. È lo stesso Petrarca a chiedere aperta-

mente sostegno al monaco – una volta saputo della sua chiamata a Napoli – e a comunicargli che avrebbe gradito che un sovrano di prestigio, quale Roberto d’Angiò, assumesse il patrocinio della sua incoronazione; ciò lo avrebbe senza dubbio preservato da critiche sterili. D’altronde, il giudizio che il poeta aretino ha del sovrano è più che positivo e tale resterà nel tem- po. Infatti, nella Posteritati, Roberto è definito «grandissimo re e filosofo», «famoso nelle lettere non meno che per la politica del suo regno», a quei tempi «unico sovrano ad essere egualmente amico del sapere e della virtù»7.

È in questa occasione che Petrarca si reca a Napoli e vi soggiorna per poco più di un mese, tra il febbraio e il marzo del 1341. Il poeta e il buon re non si sono mai incontrati prima e nei giorni che precedono l’esame passeg- giano a cavallo per Napoli e dintorni e conversano amabilmente, come lo stesso Petrarca ricorda. Roberto chiede certamente al poeta di comporre qualche carme in suo onore, gli domanda che gli sia dedicata l’Africa, dopo averne letto le parti composte, lo esorta a ritrovare la seconda decade di Livio e, ovviamente, discute col Petrarca del valore e del significato della poesia. L’interrogazione per l’esame, contrariamente al previsto, va avanti per due giorni ed ha, ovviamente, esito positivo. Petrarca è degno di ricevere la

6 In realtà Petrarca fa in modo che un invito all’incoronazione gli giunga anche da Parigi. Secondo il racconto diffuso dallo stesso protagonista, nello stesso giorno gli sareb- bero giunti sia la lettera del senato di Roma sia l’invito da Parigi. Perplesso e dubbioso, sebbene già favorevole a scegliere Roma quale sede dell’incoronazione, il poeta scrive al cardinale Colonna per avere da lui consiglio e questi risponde esortando Petrarca ad accettare la proposta romana.

7 Posteritati, in G. boccaccio, Vita di Petrarca, a cura di G. Villani, Roma, Salerno Editrice, 2004, p. 121.

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corona d’alloro e Roberto si propone di procedere egli stesso all’incorona- zione, a Napoli, ma Petrarca, ormai, non può più respingere la richiesta del Senato Romano. Così il poeta ricorda l’accaduto nella Posteritati:

Dopo aver frugato per ben tre giorni nella mia ignoranza, al terzo mi ritenne degno della corona d’alloro. Avrebbe voluto offrirmela a Napoli, e mi pregò ripetutamente di accettare; ma l’amore per Roma vinse la veneranda insistenza di tanto re. Egli allora, prendendo atto dell’inflessibilità del mio proposito, mi consegnò una lettera e inviò dei messaggeri al senato romano, in tal modo attestando il suo parere estremamente favorevole al mio riguardo8.

All’esame pubblico sono senz’altro presenti Dionigi, Barbato, e Gio- vanni Barrili, colui che – occorre ricordarlo – sarà delegato del re alla cerimonia romana, ma non Boccaccio, come molti studiosi hanno voluto credere sulla scorta di un passo delle Genealogie deorum gentilium, in cui l’autore stesso sembra ricordare l’incontro, evidenziando la commozione e lo stupore di re Roberto:

Qui clarus olim phylosophus et medicine preceptor egregius, atque inter ceteros eius temporis insignis theologus, cum in sexagesimum sextum usque etatis sue annum parvi pendisset Virgilium…quam cito Franciscum Petrarcam arcanos poematum referentem sensus audivit, obstupefactus se ipsum redarguit, et, ut ego, eo dicente, meis auribus audivi, asseruit, se numquam ante arbitratum adeo egregios atque sublimes sensus sub tam ridiculo cortice, uti poetarum sunt fictiones, latere potuisse (XIV 22).

Dal momento che Petrarca e re Roberto non si incontrano se non in occasione dell’esame e poiché è certo che Boccaccio non ritorna a Napoli prima della morte del Re, avvenuta nel gennaio del 1343, si è creduto che il passo potesse far riferimento senza dubbio a quella occasione, per cui Boc- caccio sarebbe stato presente all’esame e avrebbe ascoltato le parole pronun- ciate dal re9. In realtà, per diversi studiosi10, è improbabile che l’inciso “eo

8 Ivi, p. 123.

9 Uno su tutti, Billanovich ha asserito con convinzione la presenza del Boccaccio al

conventus. Cfr. G. billanovich, Petrarca letterato. I. Lo scrittoio del Petrarca, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1995 (1947), p. 70: «[…] anche il Boccaccio, assieme agli altri scolari dello Studio, assistette all’esame pubblico» e G. billanovich, Restauri boccacceschi, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1947, p. 62.

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dicente” vada riferito a Re Roberto; va piuttosto riferito al Petrarca, che dal ’50 in poi ebbe modo di riferire al suo nuovo amico l’episodio in uno dei vari incontri. Se l’“eo dicente” si riferisse al soggetto della principale, quindi a Roberto, oltretutto, si andrebbe contro la norma classica; molto più probabile, invece, secondo la norma del latino tardo-medievale, che sia da legare a “Franciscum Petrarcam”, applicando il criterio della prossimità. D’altronde, se davvero Boccaccio avesse avuto la possibilità di incrociare Pe- trarca a Napoli perché non ricordarlo – con l’orgoglio che non gli sarebbe affatto mancato – in nessuna delle occasioni in cui racconta degli incontri col poeta, dell’esame napoletano e dell’incoronazione? Inoltre, Petrarca, in occasione dell’incontro a Firenze del 1350, scriverà che Boccaccio lo ac- coglie con “miro nondum visi hominis desiderio” (Fam., XXI 15) e, per di più, sempre in quella occasione, certamente il Certaldese non si sarebbe lasciato sfuggire la possibilità di confessare al poeta di averlo già conosciu- to, o almeno visto, a Napoli. Insomma, più e più validi motivi spingono a differire il momento del loro primo incontro, di cui si dirà dopo11.

È nella tanto amata Napoli, dunque, che rapporti indiretti gettano le basi per il futuro legame d’amicizia, destinato ad accompagnare i due per il resto delle rispettive vite.

E Petrarca? Prima che gli sia recapitata la prima missiva del suo ammi- ratore ha notizie di Boccaccio? Figura chiave, in tal senso, sembra poter essere quella di Sennuccio Del Bene, esule guelfo bianco e poeta stilno- vista, che l’Aretino conosce ad Avignone stringendo poi con lui una pro- fonda amicizia. Ma se i legami del Del Bene col Petrarca sono accertabili sulla scorta di una consistente documentazione, parzialmente e solo per via congetturale è possibile far luce anche sui rapporti che Sennuccio do- vette tenere con l’altra corona trecentesca, Giovanni Boccaccio. Intanto è certo che il Del Bene incontrò il Boccaccio nel novembre del 1341, nel periodo del breve soggiorno fiorentino di Niccolò Acciaiuoli e Giovan- ni Barrili, inviati in missione nella città toscana da Roberto d’Angiò per ottenere il possesso di Lucca. Se la consuetudine che il Del Bene tenne in quel giorni col Barrili è accertata alla luce dell’epistolario petrarchia- no, da quegli incontri non può essere stato escluso il Boccaccio, legato al Barrili da saldissima amicizia e a lui vicinissimo durante quel soggiorno12. 11 Cfr. F. rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), Roma-Padova, Editrice Ante- nore, 2012, pp. 14-17.

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È lecito supporre che anche il Del Bene abbia agito da tramite tra i due, favorendo la circolazione e il passaggio di testi e notizie?

Certo è che Boccaccio si inizia al culto di Petrarca avendo letto solo pochi versi e forse un po’ della sua prosa, solo sulla base di quanto ha sen- tito dire da qualche amico in comune. Prima ancora di conoscerlo, per quel che Dionigi e altri intellettuali napoletani gli raccontano – i già ci- tati Giovanni Barrili, Barbato da Sulmona, Pietro Canigiani – Boccaccio immagina Petrarca

come il prototipo del proprio stesso disordinato ideale di un sapere senza limiti13.

Frutto tangibile della stima di Boccaccio è l’epistola, del 1339, Mavortis

miles extrenue, ma, soprattutto, il De vita et moribus domini Francisci Petrac- chi de Florentia, la prima biografia petrarchiana, il cui primo destinatario è

Petrarca stesso; pertanto, una biografia inter vivos. L’operetta – interessante per molteplici aspetti, ma su cui ora non è possibile soffermarsi – è mo- dellata sull’episodio dell’incoronazione, e nasce

dall’intuizione di un rapporto umano e culturale possibile, desidera- tissimo14.

Prima, però, che si parli della conoscenza diretta tra i due e si riper- corra la storia del loro legame, è utile e oltremodo interessante rilevare come vi sia un evento di straordinaria importanza a segnare le vite per- sonali e “professionali” di entrambi, accumunando i due letterati e con- dizionandone le future scelte artistiche: la peste. Giunta dall’Oriente nel 1347, fenomeno inspiegabile e inarrestabile, causa di morte e distruzione, segno di una fine e, al contempo, di un nuovo inizio, l’epidemia attraver- sa e sconvolge le vite dei due autori. Intellettuali e no sono chiamati a riflettere sulle origini e sulle cause del flagello e tra questi vi sono anche

13 F. rico, Ritratti allo specchio (Boccaccio, Petrarca), cit., pp. 33-34.

14 G. boccaccio, Vita di Petrarca, cit., p. 15. Villani ripercorre attentamente la storia del De Vita e si interroga sui tempi di composizione dell’opera, riportando le diverse tesi sostenute dagli studiosi in merito alle ipotesi di datazione. Importante è anche il rapporto che traccia tra il De Vita e la Posteritati di Francesco Petrarca, ritenuta scritta, visti i frequenti contatti tra la biografia e l’epistola, a partire dal ritratto che dell’Aretino realizza il suo discepolo più importante, al fine di rettificare ed emendare le affermazioni del Boccaccio, presentando di sé un’immagine senza dubbio migliore.

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Petrarca e Boccaccio, destinatari di un sonetto di Checco di Meletto de Rossi – letterato oggi poco noto, se non del tutto dimenticato –, segre- tario al tempo del signore Francesco Ordelaffi, nel quale si dibatte circa l’influsso degli astri come possibile interpretazione della peste15. Ma il pro-

blema dell’individuazione delle cause passa ben presto in secondo piano: il Certaldese e l’Aretino colgono l’occasione

per una riflessione incentrata sul libero arbitrio e sulla responsabilità dell’essere umano rispetto alle proprie azioni

ed il nodo essenziale della questione diviene il senso profondo che ognu- no deve acquisire da quella esperienza:

un ripensamento complessivo della vita, individuale e collettiva16.