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Figure Tra simbolica e teologia emblematica

Nel documento La morte come trionfo (pagine 46-71)

1. Il simbolo come modello della filosofia dell’identità

Quando l’Aristofane del Simposio (191d3-5) sostiene con una tesi davvero epocale che ciascuno di noi è il symbolon di un essere completo, e appunto perciò andrebbe incessantemente alla ricerca del proprio (altro) symbolon, «simbolo» da un lato equivale ancora alla «tessera spezzata» di cui parlava Erodoto, dall’altro allude però già a uno snodo più complesso, incarnando in se stesso tanto la scissione e «caduta» quanto il suo farmaco anamnestico. Dei due versanti di questa dialettica indistintamente semantica e ontologica, a cui non a torto si potrebbe ricondurre l’intera Begriffsgeschichte del simbolo, lo Schelling della filosofia dell’identità sembra accentuare quello teurgico- escatologico, eludendo provvisoriamente sia il problema sempre più tormentoso della «caduta» sia la conseguente inimicizia (platonica) per il sensibile, e anzi funzionalizzando nelle prime due «fasi della sua filosofia sul piano dell’«opera» dapprima naturale (organismo) e poi estetica (l’opera d’arte propriamente detta) tanto, in generale, la dottrina luterana (antizwingliana) della «presenza reale» – di cui è davvero difficile sopravvalutare la profonda influenza, che sintetizza estetica del cuore ed estetica della natura, sull’orientamento generalmente analogico-simbolista della Naturmystik117 a cui a tutti gli effetti appartengono sia Oetinger sia

Schelling –, quanto, più prossimamente, il fondamentale primato assegnato al simbolo da Moritz, Goethe e A.W. Schlegel rispetto all’allegoria e da Kant rispetto allo schema (è il celeberrimo §59 della terza Critica).

117 Per un primissimo approccio cfr. A. Peters, Realpräsenz. Luther Zeugnis von Christi Gegenwart

im Abendmahl, Berlin 1960, e soprattutto il (per noi) fondamentale studio di E. Metzke, Sakrament und Metaphysik. Eine Lutherstudie über das Verhältnis des christlichen Denkens zum Leiblich-

Materiellen (1948), in Id., Coincidentia oppositorum. Gesammelte Studien zur

Philosophiegeschichte, a cura di K. Gründer, Witten 1961, pp. 158-204. Per uno sguardo più generale cfr. invece H. Böhme, Transsubstantiation und symbolisches Mahl. Die Mysterien des Essens und die Naturphilosophie, in Zum Naturbegriff der Gegenwart. Kongreßdokumentation zum Projekt “Natur im Kopf” Stuttgart, 21.-26. Juni 1993, 2 voll., Stuttgart-Bad Cannstatt 1994, I, pp. 139-158, e soprattutto (sotto il profilo dei possibili sviluppi estetici) J. A. Steiger, Ästhetik der Realpräsenz. Abendmahl, Schöpfung, Emblematik und mystische Union bei Martin Luther, Philipp Nicolai, Valerius Herberger, Johann Saubert und Johann Michael Dilherr, in R. Steiger (a cura di), Von Luther zu Bach. Bericht über die Tagung 22.-25. September in Eisenach, Sinzig 1999, pp. 21-41.

Mentre la Darstellung «in cui l’universale significa il particolare, o in cui il par- ticolare è intuito attraverso l’universale», è schematica, e quella in cui invece «il particolare significa l’universale o in cui l’universale è intuito attraverso il particolare» è allegorica, la sintesi di queste due modalità rappresentative o forme dell’immaginazione (Einbildungskraft) sarà la rappresentazione simbolica intesa come «forma assoluta». Ora, mentre lo schema e l’allegoria alludono a qualcosa – al particolare il primo, all’universale il secondo –, senza però assolutamente essere questo qualcosa (di qui l’imperfezione causata dalla loro applicazione nell’arte), nel simbolo «né l’universale significa il particolare né il particolare l’universale, ma [...] sono assolutamente una cosa sola» (SW V, 407). In estrema sintesi: mentre l’allegoria è transitiva, strumentale, razionale, intenzionale, retoricamente convenzionale, suscettibile di espansione discorsiva e legata alla finitezza del dicibile, il simbolo è viceversa opaco, intransitivo in quanto rappresenta e solo accessoriamente significa altro da sé, intuitivo, naturale e laconico, libero dalla coazione ermeneutica e dalle maglie della ragione per la sua origine inconscia e il suo riferimento all’indicibile118. In altri

termini, il simbolo non significa, ma è, presupponendo a differenza dell’allegoria – ma anche della mera «immagine», che solo il carattere aspaziale distingue dall’oggetto ed è tanto particolare rispetto all’universale o significato da essere in definitiva «privo di un significato» (ibid., 411) – un mondo redento da ogni dualismo, un piano in cui Urbild e Bild, Urphänomen e fenomeno coincidono, ove la particolarità è rivelativa in quanto puntuale variazione metamorfica del fenomeno originario. Il modello archetipico di questa dimensione privilegiata è individuato, com’è noto, nella mitologia greca, in cui «l’assoluta realtà degli dei consegue immediatamente dalla loro assoluta idealità» (ibid., 391), nel senso che «ogni figura va presa per ciò che essa è, giacché proprio in tal modo vien presa anche per ciò che essa significa. Il significato è qui insieme l’essere stesso, passato nell’oggetto, divenuto una cosa sola con esso» (ibid., 411). Nella coincidenza di Sein e Bedeutung, Realität e Idealität, tali figure sono concrete e autoreferenziali quanto il Bild e al tempo stesso universali quanto il Begriff, poiché «lasciano pur sempre trasparire anche il significato» (ibid.).

Con la tripartizione schema-allegoria-simbolo quale «successione di potenze» della Darstellung, Schelling ritiene di offrirci delle «categorie universali» (ibid., 410) che fungono altresì da ontologie regionali, cioè un principio che squaderna l’universo intero nel segno dell'identità. Il simbolo è perciò qui non solo la figuralità euristica grazie a cui l’epos speculativo (tentato da Schelling soprattutto nei Weltalter), facendo coincidere senso e fenomenicità,

118 Cfr. C. Müller, Die geschichtlichen Voraussetzungen des Symbolbegriffs in Goethes

Kunstauffassung, Leipzig 1937, E. Behler, Simbolo e allegoria nel primo Romanticismo tedesco, trad. it di G. Gurisatti in S. Zecchi (a cura di), Estetica 1992. Forme del simbolo, Bologna 1992, pp. 13-39, ma soprattutto i capitoli dedicati al simbolismo schellinghiano all’interno di due studi ormai «classici»: B. A. Sørensen, Symbol und Symbolismus in de ästhetischen Theorien des 18. Jahrhunderts und der deutschen Romantik, Copenhagen 1963 (per il ruolo di Oetinger nello sviluppo del simbolo romantico cfr. pp. 88, 134, 141, 143, 145-146); T. Todorov, Teorie del simbolo, trad. it. di E. K. Imberciadori, a cura di C. De Vecchi, Milano 1984.

sopravanzerebbe lo schematismo strettamente filosofico, ma anche la «chiave» ermeneutica delle sue due forme rappresentative interne (allegoria e schema appunto) e dei loro corrispondenti livelli ontologici tanto nella natura quanto nell’arte e nella scienza. Così, nei corpi la natura allegorizza, perché il particolare significa l’universale senza esserlo – le specie, infatti, non esistono in natura –, nella luce schematizza, e solo negli organismi simbolizza, cioè solo dove «il concetto infinito è legato all’oggetto stesso, l’universale è interamente il particolare e il particolare l’universale» (ibid., 410-411). In quanto terza potenza del mondo naturale, il simbolo è terza potenza però anche nel mondo spirituale (è arte e mitologia, proprio per questo strettamente legate alla natura), rispettivamente nei confronti dell’agire, che è allegorico in quanto non può non rinviare a un concetto antecedente, e del pensiero, che è un «mero schematizzare» comprendendo l’individuale mediante un tratto comune ricavato per sintesi del molteplice. Lo stesso dicasi sia per le scienze, nel senso che se l’aritmetica e la geometria sono, rispettivamente, allegorizzante e schematizzante, la filosofia è scienza simbolica, sia per il sistema delle arti (arti figurative: musica-allegorizzante, pittura-schematizzante, plastica-simbolica; arti della parola: lirica-allegorica, epica-schematizzante, drammaturgia-simbolica). L’aspetto più rilevante che si evince da questa pur cursoria esposizione – che prescinde ovviamente dalla costruzione simbolica, quale emerge da questa triplice possibilità di «in-formazione» dell’essenza nella forma, che regge in Schelling sia l’estetica sia la filosofia della mitologia119 –, è la possibilità,

storicamente attestata, di una doppia lettura (schematica e allegorica) della medesima figura mitica, il che prova persuasivamente la compresenza nel simbolo (Ineinsbildung di particolare e universale) dello schema e dell’allegoria quali possibilità interne e (storicamente e ontologicamente) deiette della forma rappresentativa perfetta, cui comunque alludono. Una spia inequivocabile della peculiarità della simbolica schellinghiana sta nel fatto che alla nozione generica di Symbol subentra ora quella teoreticamente più pertinente di Sinnbild. Unendo Bild e Sinn, il simbolo rappresenta ora in un certo senso l’autoesplicazione della cosa stessa nella condizione edenica miracolosamente ridivenuta potenzialmente reale – è l’unità di ideale e reale «nel reale» garantita dall’«intuizione estetica» come succedaneo dell’«intuizione intellettuale» –, rinviando così esplicitamente, oltre che all’autotelicità dell’organismo naturale e al segno linguistico «naturale», all’emblema barocco120, ovviamente qualora sia concepito più come

Denkform che come Kunstform121 e a partire dalla prospettiva, fertile forse

proprio perché anacronistica, della simbolica idealistica.

119 Cfr. T. Griffero, L’estetica di Schelling, Roma-Bari 1996, pp. 105-120, e soprattutto Id., Senso e

immagine, cit. (e la vasta letteratura ivi citata).

120 Secondo M. Titzmann, Strukturwandel der philosophischen Aesthetik. Der Symbolbegriff als

Paradigma, München 1978, p. 334, nota 68, la nozione romantico-idealistica di simbolo presuppone i seguenti ambiti: teologia, emblematica, retorica, poetica, filosofie della natura più o meno esoteriche, cultura massonica e di altre associazioni segrete (e si aggiunga a questo elenco almeno la mnemotecnica e gli ideali pansofici del sedicesimo secolo).

2. Dall’emblema al Sinnbild

In un’epoca che alla scienza-arte barocca dell’emblematica122 ormai

sovraordina la nozione leibniziana di simbolo come segno logico- convenzionale123, e comunque antepone di gran lunga la concezione

aristotelica del simbolo come semplice metafora illustrata – con conseguente transizione del denotato dall’idea platonica, un relitto affascinante solo più per un «antiquario mistico»124 amante del mistero, al concetto universale di stampo

razionalistico (nonostante la verosimiglianza della tesi che ravvisa proprio nella Frühromantik una reviviscenza della tradizione manierista)125 – Schelling non fa

mistero di richiamarsi esplicitamente a quella che per tutti era ormai una scientia arcaica126, e che tuttavia proprio per questo, ossia per essere rimasta

relativamente indenne dalla sconsolata Zerrissenheit moderna, sembra rivelarsi più funzionale a esprimere simbolicamente la costruenda neue Mythologie, la cui finalità politico-didattica quale «mitologia della ragione» era infatti assolutamente esplicita, soprattutto nella fase aurorale a cui risale il cosiddetto Systemprogramm. L’insistenza se non sull’emblematica in quanto tale, quanto meno sull’esigenza che essa incarna di una significazione non convenzionale ma corporeo-figurale da parte degli autori che formano la «biblioteca» di Schelling (Gottsched, Du Bos, Breitinger, Winckelmann, Schiller, Herder, Hamann, Lavater, e, come già ricordato, Moritz, Goethe e A. W. Schlegel), nonché l’ampia produzione, soprattutto tedesca, di raccolte di emblematica, potrebbero spiegare ulteriormente le ragioni della sua scelta lessicale e quindi anche concettuale.

Bildlichkeit bei Andreas Gryphius, Stuttgart 1966.

122 Cfr. almeno: K. Giehlow, Die Hieroglyphenkunde des Humanismus in der Allegorie der

Renaissance, in «Jahrbuch der kunsthistorischen Sammlungen des allerh. Kaiserhauses», 32 (1915), pp. 1-232; L. Volkmann, Bilderschriften der Renaissance, Hieroglyphik und Emblematik in ihren Beziehungen und Fortwirkungen, Leipzig 1923; W. S. Heckscher-K. A. Wirth, Emblem, Emblembuch, in Reallexikon zur deutschen Kunstgeschichte, 49, Stuttgart 1959, pp. 85-228; R. J. Clements, Picta poesis. Literary and Humanistic Theory in Renaissance Emblem Books, Roma 1960; A. Schöne, Emblematik und Drama im Zeitalter des Barocks, München 1964; A. Henkel-A. Schöne, Emblemata. Handbuch zur Sinnbildkunst des XVI. und XVII. Jahrhunderts, Stuttgart 1967 (Introduzione); D. Sulzer, Zu einer Geschichte der Emblemtheorien, «Euphorion» 64 (1970), pp. 23- 50; M. Praz, Studies in Seventeenth-century imagery, Roma 1975. Sui contributi più recenti torneremo in seguito.

123 Cfr. P. Rossi, Clavis Universalis. Arti della memoria e logica combinatoria da Lullo a Leibniz,

Bologna 1983, p. 21, e E. K. Hill, What is an emblem?, «The Journal of Aesthetics and Art Criticism», 29 (1970), 2, p. 261.

124 Cfr. J. Addison, Dialogue on the usefulness of ancient medals, London 1726, pp. 30-31.

125 Si veda G. R. Hocke, Il manierismo nella letteratura. Alchimia verbale e arte combinatoria

esoterica, trad. it. di R. Zanasi, Milano 1965.

126 Per un primo approccio all’origine «emblematica» della simbolica schellinghiana, cfr. Griffero,

Come si evince dall'imponente diffusione europea dapprima (nei secoli XVI e XVI) dell’emblematica e dell’impresistica127, in seguito degenerate per il

carattere sempre più stereotipato e scadente del loro contenuto e della loro componente iconografica, e poi dell’iconologia (XVIII sec.), il problema a cui esse come sintesi di letteratura e arte visiva davano soluzione128 è lo stesso che

agita Schelling, ossia quello di individuare quale possa essere la forma perfetta di «sensibilizzazione» – che attribuisce nella fase più fichtiana all’attiva Einbildungskraft umana e poi nel sistema dell’identità all’eterna Einbildung divina — delle «idee» (nel senso pregnante-platonico) in immagini. Non è un mistero che Schelling tenti così di elaborare un genere scientifico e artistico insieme che sia in grado di fondere scriptura e pictura, parola e immagine, astratto e sensibile – in altri termini, un Gesamtkunstwek che sia anche una Gesamtwissenschaft –, ossia uno strumento che possa ovviare al caos inestricabile del mondo umano e naturale129 e surroghi con un penetrante

sforzo sinestetico130 la perdita del carattere di Signatur di un mondo che è (e

viene sentito come) sempre più secolarizzato131. Prescindiamo qui ovviamente

da una esposizione più dettagliata delle sincretistiche radici dell’emblematica, che, senza pretese di esaustività, vanno dal culto umanistico dell’ermetismo dei geroglifici alla barocca ponderaciòn misteriosa, dalla moda prima francese e poi anche italiana per l’araldica132 fino alla cristallizzazione dell’etica antica in

proverbi e massime, dal carattere didattico insito nell’estetica rinascimentale sino alla tendenza a compendiare l’universo in immagini argute e sensuali, dalla reviviscenza del mundus symbolicus medioevale (bestiari, erbari e «enciclopedie» di pietre preziose) all’ipostatizzazione del senso tropologico tra quelli spirituali tradizionalmente attribuiti alla Scrittura, dalla biblia pauperum alle raccolte numismatiche ed epigrafiche, dai libri genealogici a quelli seriali

127 Quanto alla differenza tra l’emblema e l’impresa – le cui prime e istitutive definizioni si

trovano, rispettivamente, in A. Alciato[i], Emblematum liber, Augsburg 1531, su cui cfr. H. Miedema, The term “emblema” in Alciati, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», 31 (1968), pp. 234-250, e in P. Giovio, Dialogo dell'imprese militari e amorose, Roma 1555 –, si può semplicemente osservare che per lo più mentre l’emblema è costituito da tre elementi (un’immagine accompagnata da un breve motto o lemma e da un epigramma che del motto e dell’immagine fornisce un’interpretazione morale di valor universale), l’impresa è formata da due elementi (un’immagine più un motto tra loro complementari nell’indicare un certo proposito, una certa condotta, solitamente di carattere personale).

128 Cfr. W. Tatarkiewicz, Storia dell'estetica, trad. it. a cura di G. Cavaglià, 3 voll. Torino 1980, III,

pp. 289-303.

129 Che è poi uno dei fini della visione del mondo emblematica (cfr. Henkel-Schöne, Emblemata,

cit., p. XVII).

130 Cfr. D. Sulzer, Poetik synthetisierender Künste und Interpretationen der Emblematik, in H.

Anton-B. Gajek-P. Pfaff (a cura di), Geist und Zeichen. Festschrift für Arthur Henkel zum 60. Geb., Heidelberg 1977, pp. 401-426.

131 Cfr. S. Penkert, Zur Emblemforschung, in Id. (a cura di), Emblem und Emblematikrezeption.

Vergleichende Studien zur Wirkungsgeschichte vom 16. bis 20. Jahrhundert, Darmstadt 1978, p. 22: «la struttura poetica dell’emblema presenta, grazie al suo preciso carattere deittico, una possibilità unica nel suo genere: è infatti la sola che poteva riuscire a connettere tra loro, mediante una “secolarizzazione dialettica” dei fenomeni linguistici, tanto lo sviluppo della soggettività quanto il decadere dell’oggettività e la sua coazione al rinvio».

132 Cfr. R. Klein, La teoria dell’espressione figurata nei trattati italiani sulle «imprese», 1555-1612

(1957), ora in Id., La forma e l’intelligibile. Scritti sul Rinascimento e l’arte moderna, trad. it. di R. Federici, prefazione di A. Chastel, Torino 1975, pp. 119-149.

sulla danza macabra e l’ars moriendi133. Il meno che se ne possa ricavare è

che, nelle sue varie componenti, essa rappresenta la preistoria di diversi generi espressivi moderni, dall’iconologia (pictura) alla saggistica (subscriptio)134, al

sapere popolare consegnato ai motti e ai proverbi (inscriptio).

Ma perché mai il simbolo autoreferenziale e naturale schellinghiano dovrebbe discendere da forme simboliche in ultima analisi artificiose e (ritenute) mai veramente autoteliche come l’emblema e l’impresa, tra i cui modelli tra l’altro il simbolo schellinghiano effettivamente oscilla, incerto se sposare la causa delle rappresentazioni visive e quindi essoteriche o quella delle allusioni enigmatiche e quindi esoteriche? Le ragioni sono più d’una, se si problematizza adeguatamente lo statuto di nozioni come «emblema» e »impresa».

Intanto, a) allo sfondo inizialmente aristotelico dell’impresa non sembra veramente estranea la fiducia neoplatonica (e proprio per questo anche schellinghiana) in un’intuizione intellettuale o visio beatifica delle «idee»135,

ovviamente mediata dalla concezione diffusa nel cristianesimo neoplatonizzante di un afferramento extradiscorsivo («viso a viso», secondo 1Cor 13,12) del mondo intelligibile altrimenti possibile solo agli esseri sovrasensibili (un’idea su cui convergono, per indicare due «estremi», Plotino e Galilei)136, ossia la fiducia nella possibilità di riscoprire nella Scrittura e nella

natura il simbolismo non convenzionale – perché strettamente correlato alle «idee» di Dio – che era patrimonio dell’Urmensch prima della caduta e che si crede relativamente salvaguardato unicamente dalla più antica sapienza del genere umano (donde il culto rinascimentale dei geroglifici).

In secondo luogo, b) occorre sottolineare che la rapida tradizionalizzazione e accademizzazione delle immagini emblematiche, che si produce nonostante le diversificate riflessioni teoriche (di solito consegnate alle prefazioni delle raccolte di emblemi e imprese) al fine di surrogare la non-canonicità del nuovo «genere», ne aveva da tempo sancito, perlomeno nelle cerchie erudite, una valenza quasi-oggettiva e comunque esorbitante il piano verbale sia dal punto di vista storico-culturale137 sia da quello – ed è ciò che maggiormente ci

133 Così, in uno dei migliori studi recenti, I. Höpel, Emblem und Sinnbild. Vom Kunstbuch zum

Erbauungsbuch, Frankfurt a. M. 1987, pp. 11-12, 24-25.

134 Ma vi è anche chi ha voluto ravvisarvi una sorta di protocollo nel senso della scienza

sperimentale moderna (cfr. H. Steinhagen, Wirklichkeit und Handeln im barocken Drama. Historisch-ästhetische Studien zum Trauerspiel des Andreas Gryphius, Tübingen 1977, pp. 208-209).

135 Cfr. Klein, La forma e l’intelligibile, cit., p. 145. Per gli sviluppi dell’intuizione intellettuale in

Schelling, cfr. T. Griffero, Intuizione intellettuale e intuizione estetica: dalla theoría alla visio beatifica, in Id., Cosmo arte natura, cit., pp. 61-79.

136 Plotino, Enneadi, V 8, 5 (trad. it. a cura di G. Faggin, con presentazione di G. Reale e

appendici di R. Radice, Milano 1992, p. 915): «Perciò non bisogna credere che gli dei e i beati pensino lassù degli assiomi; invece le cose che abbiamo nominato sono lassù, singolarmente, delle belle immagini [...], immagini non disegnate ma reali». Cfr. anche G. Galilei, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, in Id., Le Opere, Firenze 1933, VII, p. 129: «[il nostro modo di conoscere; NdA] procede con discorsi, e con passaggi di conclusione in conclusione, dove il suo [di Dio; NdA] è un semplice intuito».

137 Secondo Zincgref, per esempio, il blasone appare assolutamente perspicuo a chiunque

conosca le vicende pregresse della casata cui si riferisce (cfr. Höpel, Emblem und Sinnbild, cit., pp. 110-111).

interessa – della realtà naturale138, quasi che tali immagini non fossero che una

variante artistica (specie in una filosofia che, come quella di Schelling, vede nell’arte umana la continuazione e il perfezionamento della natura stessa) della lingua cifrata con cui la natura dice se stessa.

Queste due ragioni sarebbero però insufficienti se si tacesse il fatto c) che l’emblema, nella cui forma canonica già chiarita (pictura, inscriptio e subscriptio) coincidono «esibizione sensibile» e «interpretazione», significans e significatio139, si apre col differenziarsi degli autori e dei temi a un’ermeneutica

sempre più libera e personale, concedendo così all’immagine una sempre maggiore autonomia semantica, conforme alla duplice vocazione (espositivo- interpretativa) secondo alcuni da sempre inscritta se non in tutti gli emblemi quanto meno nel loro «ideal-tipo»140. Quel che vogliamo dire è che Schelling

con Sinnbild pensa in certo qual modo a un pre-o post-emblema, in cui ancora non si siano enucleate, o già siano collassate, le dimensioni discorsive, e la cui significazione sia talmente univoca e immediata nell’identità di Bild e Sinn da non aver bisogno di ulteriori interpretazioni.

Ma d) l’affiliazione di Schelling alla tradizione dell’emblematica varrebbe, in ultima analisi, anche se si rivelasse indimostrabile l’ipotesi (tra l’altro riferita alla creazione o alla ricezione dell’emblema?) della «priorità ideale» della pictura141

esemplata da Schöne soprattutto sull’opera di Nicolaus Taurellus142, perché

anche l’orientamento opposto, che viene esemplato da Jöns sull’opera di Nicolaus Reusner143 e che ravvisa nell’emblema la cristallizzazione metaforica di

una tradizione letteraria consolidata o comunque una semplice intensificazione visiva del linguaggio, non sarebbe del tutto estraneo allo Schelling che da sempre ricerca, in qualità di esegeta del kantiano Schematismuskapitel, dei

138 Cfr. Tatarkiewicz, Storia dell’estetica, cit., III, p. 295, e F. Moiso, Idee in Schelling, in M. Fattori-M.

L. Bianchi (a cura di), Idea. VI Colloquio Internazionale, Roma 1990, p. 377.

139 Cfr. Moiso, Idee in Schelling, cit., pp. 376-377, Henkel-Schöne, Emblemata, cit., p. XIII, e

soprattutto Schöne, Emblematik und Drama, cit., pp. 34ss.

140 E’ la tesi di Schöne, Emblematik und Drama, cit., p. 20: lungi dallo spiegarsi in maniera

strettamente funzionale (per cui l’epigramma sarebbe, per esempio secondo Heckscher-Wirth, Emblem, cit., semplicemente la soluzione dell’enigma posto congiuntamente da inscriptio e pictura), l’emblema avrebbe in ogni sua componente un carattere interpretativo-esplicativo, se non altro perché «ciò che è rappresentato significa di più di quanto rappresenti» (p. 21). Una tesi che echeggia quella di L. Dieckmann, Renaissance Hieroglyphics, «Comparative Literature», 9 (1957), pp. 308-321; Id., Hieroglyphics. The history of a literary symbol, St. Louis, Miss., 1970, mentre Jöns, Das “Sinnen-Bild”, cit., sottolinea piuttosto tre diversi requisiti dell’emblema, ossia la tensione che sussiste tra le tre parti, il carattere astratto della inscriptio rispetto alla pictura, l’incarnarsi

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