1. Schelling: centralità del «centro»
Per sapere che con la questione del «centro» si tocca davvero un nervo sco- perto della moderna spiritualità non occorre evocare la diagnosi nietzschiana dell’età postcopernicana236, o la consueta lagnanza, poi divenuta di moda,
per la «perdita del centro». Già il fatto che Friedrich Schlegel scorgesse la vera esistenza «artistica» di un uomo nel fatto che egli possieda un proprio «centro vivente», o quanto meno sia «iniziato» al centro altrui237, mostra quanto privile-
giata fosse la metafora del centro in un’antropologia negativa come quella ro- mantica238, non per caso abitualmente popolata da pellegrini e avventurieri
asintoticamente o ellitticamente in cammino verso (il centro di) se stessi. Ba- luardo dell’individuo, che rischiava più che mai la dissoluzione e comunque la deriva «eccentrica» in un universo sociale e naturale retto da un vero e proprio «principio di ragione insufficiente»239, il centro pareva rimasto la sola salvaguar-
dia di ogni originalità (se non proprio di ogni genialità), col suo alludere a un luogo meno geometrico che ontologico e morale, all’urgenza di una «conversione» dalla caoticità cometaria alla perfetta orbita planetaria240. A
questa autentica ossessione dell’età goethiana per la «centratura», dalla cui inestricabile sintesi di io e non-io s’irradierebbe ogni possibilità di senso, per il momento diastolico (con quanto di classicistico esso comporta) ma senza per- dita della ricchezza sistolica – tra i cui ascendenti troviamo l’immagine antica ma sviluppatasi soprattutto nell’età barocca di Dio come sphaera, cujus centrum ubique, circumferentia nusquam241 – appartiene forse anche la
misteriosa nozione di Zentralschau, di tanto in tanto affiorante negli scritti schellinghiani.
236 Proprio perché rotola su un piano inclinato sempre più rapidamente lontano dal centro
(Genealogia della morale, III, §25), l’uomo moderno sente sempre più il bisogno di soddisfare la «fregola devozionale» con l’illusione di una intuizione intellettuale (Al di là del bene e del male, §11).
237 F. Schlegel, Frammenti critici e scritti di estetica, a cura di V. Santoli, Firenze, 1967, p. 139. 238 Cfr. G. Gusdorf, L’homme romantique, Paris 1984, pp. 62-75.
239 Ibid., p. 71.
240 Cfr. Griffero, Signatura siderum, cit..
241 Formula studiata dall’ormai classico lavoro di D. Mahnke, Unendliche Sphäre und
Ci riferiamo qui, per esempio, al tono lapidario con cui Schelling dichiara (a Windischmann, 8-5-1801) di aver guadagnato, di là dalle molteplici (non false ma parziali) prospettive, un unico Gesichtspunkt «centrale, che vede le cose nel centro», e assurge così a «Naturansicht vera nella totalità» (Plitt I, 328). L’aver invece mancato la Central-Idee di qualcosa (è il caso del fermissimo rifiuto di considerare A. W. Schlegel un vero filosofo della poesia; ibid., 428), e cioè il non aver saputo avviare il processo di interiorizzazione anamnestica delle idee attraverso il quale, soltanto, si perverrebbe alla «comunione con l’essere divino», partecipando di «quell’Urwissen la cui immagine è l’universo visibile e la cui origine è nel capo della potenza eterna» (SW V, 218), è per Schelling inequivocabilmente lo stigma di una inferiorità filosofica o addirittura di una assoluta estraneità alla filosofia. La condizione di possibilità, nei Weltalter, di una conoscenza archetipica, della Mitt-Wissenschaft (cfr. supra cap. 1, nota 32), che per mezzo del dialogo ermeneutico tra un maestro e un discepolo interiori riattiva la condizione epistemicamente privilegiata delle origini, è a sua volta quella di essere comunque rimasti nel «centro». Ma il dialogo con il cerchio quale simbolo perfetto della ragione (dell’unità di particolare e universale), pur se anticipato dalla Naturphilosophie degli anni di Lipsia (l’universo si forma «dal centro verso la periferia» secondo l’iterazione di un’opposizione fondamentale) (SW III, 312) aveva raggiunto il suo massimo sviluppo solo nella filosofia dell’identità (ad es. SW IV, 271), laddove più marcata era stata l’identificazione della restitutio in integrum con la trasformazione dalla temporalità lineare- eccentrica (che svolge nel fenomenico tanto una funzione anagogica quanto di tutela della differenza ontologica) alla perfetta circolarità di una riconquistata immediatezza verso il divino – un’immediatezza, peraltro, ambiguamente ritenuta a volte universalmente disponibile, a volte conseguibile solo attraverso una qualche strategia esoterica (a prescindere poi dalla circostanza, non meno ambigua, per cui solo la massima eccentricità pare garantire la prossima centratura242; SW VI, 42s.). In generale si può dire che
per Schelling una cosa è più o meno perfetta a seconda del suo grado di Cen- trirung, cioè del grado di compenetrazione del corpo, come unità nella totalità, e dell’anima, come totalità nell’unità (SW VII, 236), che è quanto dire a seconda del suo grado di somiglianza con Dio, la cui unità di affermante e af- fermato è geometrizzata nel modo che segue: «non pongo propriamente né il centro [Mittelpunkt] come centro né la periferia come periferia per sé, bensì pongo in ciascuna cosa e necessariamente il cerchio, ossia l’assoluta unità, che in sé non è né centro né periferia ma appunto cerchio» (SW VI, 166). Ne consegue che ogni anche minima separazione di centro e periferia attesta la «caduta dal cerchio» (ibid., 167), da quel «cerchio magico, che si dà tutto in un solo colpo» (SW VII, 206), coinvolgendo l’osservatore stesso. La svolta della Freiheitsschrift, pur congedandosi dal geometrizzare degli anni di Jena, non fa che irrobustire questa modo di pensare con la distinzione tra gli esseri periferici (naturali e subordinati in maniera veterotestamentaria alla Legge) e l’uomo, che è gratificato e insieme gravato dalla missione centrale di redimere se stesso accanto alla natura ex-centrica (ibid., 410s.).
242 Non per caso Schelling paragona la «costruzione» o dimostrazione, in quanto esposizione
dell’unità di universale-particolare o essenza-forma nell’intuizione intellettuale (SW V, 252, 255), all’andare dal centro alla periferia e non dalla periferia al centro (ibid., 322), cui s’avvicina piuttosto la «spiegazione». Ma per le affinità tra i temi della costruzione e della conoscenza centrale cfr. T. Griffero, Mathesis universalis. Costruzionismo e metodo assoluto in Schelling, «Rivista di estetica»36 (1996), 1-2, pp. 103-136, in specie pp. 105-109
E non ci fermiamo qui, per ovvi motivi, sull’analogia tra l’intuizione intel- lettuale243 e la Centralerkenntnis di Oetinger, una nozione che per molti studiosi
Schelling avrebbe semplicemente assimilato, alla stregua di un dato ambien- tale e familiare244. Invero, egli avrebbe potuto pervenirvi (a prescindere dalla
predominante influenza di Fichte e Hölderlin) anche con un percorso stretta- mente estetico, visto che quanto intorno a fine secolo si dice della contempla- zione estetica replica nell’essenziale i tratti salvifico-escatologici ascritti per se- coli alla visio Dei beatifica (totalità e simultaneità, afinalità e singolarità dell’esperienza, trasparenza intersoggettiva e felicità). Persino l’idea protoeste- tica di una cognitio clara et confusa (nel senso non peggiorativo di con-fundo) e la nozione kantiana di comprehensio aesthetica245 traducono,
massimamente nella nozione di «idea estetica», la comprensività e il nunc stans tipici della visio Dei, magari attraverso la mediazione dell’estetica escatologica di Duns Scoto246. È comunque solo nel periodo monachese che, come già
sappiamo (cfr. supra cap. 1), l’influenza a lungo rimasta sotterranea247 dei Padri
Svevi su Schelling (anche relativamente all’idea di una cognitio centralis) affiora prepotentemente. Altamente indicativo, in questo senso, è che in Clara si alluda esplicitamente ad una centralische Anschauung, sebbene le si conferisca uno status di eccezionalità rispetto alla «sobrietà della vita presente» (SW IX, 42). D’altra parte, persino quando Schelling nell’introduzione ai Weltalter sconfessa la pretesa dell’immediatezza teosofica, ha in mente appunto l’intuizione centrale, di fatto dunque paradossalmente ridimensionata (certo meno risolutamente e con minore sarcasmo di Hegel)248 proprio nel momento
in cui la si nomina per la prima volta. Il che però non esclude che proprio questa intuizione centrale fosse alla base dello sguardo estetico-contemplativo che, come Vernunftanschauung, legittimava il sistema dell’identità, e che solo ora, venuta allo scoperto, sia stata retrocessa ad uno dei due poli (per l’esattezza quello che «risponde») nel cui conflitto consiste il processo conoscitivo. Essa appare ora agli occhi di Schelling come lo strumento con cui gli «antichi» (col che bisogna pensare sicuramente anche a Böhme e Oetinger; cfr. supra cap. 1) coglievano bensì la necessità, ma non quella libertà delle cose cui si accede solo a posteriori in una filosofia radicalmente storica249. Se
non vi sono dubbi circa la radice pietista della nozione schellinghiana di Cen- tralerkenntnis250, resta da vedere con maggiore precisione donde egli la ricavi,
e se di conseguenza davvero la Zentralwissenschaft quale cifra prolettica della scienza dell’età dell’oro possa essere considerata «una diretta anticipazione del concetto idealistico di scienza»251.
243 Cfr. Griffero, Intuizione intellettuale, cit.
244 Cfr. Schneider, Schellings und Hegels schwäbische Geistesahnen, cit., pp. 85ss., la cui
genericità è giustamente criticata da Piepmeier, Aporien, cit., pp. 21-22, 28, 40, 48.
245 I. Kant, Critica del Giudizio, a cura di A. Bosi, Torino, 1993, §27, p. 233: comprehensio
aesthetica è la «comprensione unitaria del molteplice (non del pensiero, ma dell’intuizione), quindi la comprensione istantanea di ciò che è stato appreso successivamente è [...] un regresso, che torna a sopprimere la temporalità del processo immaginativo, rendendo intuibile la coesistenza».
246 Cfr. T. Rentsch, Der Augenblick des Schönen. Visio beatifica und Geschichte der ästhetischen
Idee, in H. Bachmaier-T. Rentsch (a cura di), Poetische Autonomie? Zur Wechselwirkung von Dichtung und Philosophie in der Epoche Goethes und Hölderlins, Stuttgart, 1987, pp. 339-341.
247 Cfr. X. Tilliette, Recherches sur l’intuition intellectuelle de Kant à Hegel, Paris, 1995, p. 114. 248 Cfr. Hegel, Sämtliche Werke, cit., IX, pp. 40ss. Cfr. Habermas, Das Absolute, cit., pp. 297-298. 249 Cfr. Heinze, Bengel und Oetinger, cit., p. 113.
250 Cfr. Vetö, Le fondement, cit., pp. 105-106, nota 44., e Tilliette, Recherches, cit., p. 231, nota 1. 251 Benz, Schelling, cit., p. 46.
2. L’ipotesi Johann Michael Hahn
Più che alla metaforica barocca e pansofica del centro, non di rado come in Athanasius Kircher modellata sul fenomeno magnetico252, converrà riferirsi qui
da un lato alla galassia lessicale (Mittelpunkt, Brennpunkt, Zentrum, Seelenzen- trum, innere Grund, Seelefunken, ecc.) che alimenta la concezione mistica del Ruhepunkt come unio dell’uomo con Dio, dall’altro all’ispessimento cognitivo- ontologico cui tale concezione va incontro nella tradizione teosofica settecen- tesca. In breve: la visione secondo cui nel Zentrum dello spirito l’anima dell’illuminato coglie il cuore divino delle cose nello stesso momento in cui Dio conosce se stesso attraverso la creatura in cui e per cui si rivela, subisce ri- levanti infiltrazioni da parte del sensualismo estetico (metaforica del lampo e della repentinità) e di quell’etica che, appellandosi alla natura o al sensus communis, scommette tutto sull’esistenza e la laboriosità di un «senso interno» in stretta cooperazione con la rectitudo cordis. Se a tutto ciò si mescola poi la tra- dizione della Weltssele e quella, via via emergente, della Volksseele, possiamo dire di possedere per intero la ricetta tanto della anschauende Urteilskraft253,
che non è assurdo far valere come cifra dell’intera Goethe-Zeit, quanto dell’insistenza romantica sull’organicità (Kunstmass e innere Form) di ogni testo, il cui modello va trovato nella Scrittura e, meno ambiziosamente, nell’omiletica pietista, in genere nel discorso ispirato, reinterpretato alla luce di un processo di derazionalizzazione che coinvolge la retorica dell’effetto254.
Una prima ipotesi che intendiamo percorrere è che Schelling abbia desunto la nozione che è al centro della nostra indagine dalla teosofia di Johann Michael Hahn, il cui lessico potrebbe aver assimilato attraverso alcuni membri delle comunità pietiste indirettamente frequentate nell’infanzia. Hahn parla esplicitamente di Zentralschau: la si acquisirebbe nella passività che meglio si confà alla grazia divina, e tuttavia solo al termine di un’estenuante lotta per conoscere l’«originario Muttergrund» e le «occulte profondità della sapienza»255.
Nella sua qualità di sguardo «dal centro in tutte le linee [...] in tutti i gradi della vita»256, di unione di conoscenza ed esperienza che porta l’uomo a vedere,
«per così dire con l’occhio di Dio»257, il principio e la fine di tutte le cose, la
Zentralschau non è nel caso di Hahn l’oggetto di una trattazione «quasi acca- demica» (alla maniera, come vedremo, di Oetinger)258, bensì un autentico Er-
lebnis259 e, al tempo stesso, una dottrina, dunque una formula capace di
252 In Dio si vede il magnes centralis come paradigma del topos «tota in tota & tota in qualibet
parte», ossia della concezione dell’universo retto da un magneticus nexus: cfr. T. Leinkauf, Mundus combinatus. Studien zur Struktur der barocken Universalwissenschaft am Beispiel Athanasius Kircher S.S. (1602-1680), Berlin 1993, pp. 327ss.
253 J. W. Goethe, La metamorfosi delle piante, trad. it. di B. Groff, B. Maffi, S. Zecchi, a cura di S.
Zecchi, Parma 1989, deregolativizza il kantiano intellectus archetypus, da cui discende la possibilità che «mediante l’intuizione di una natura sempre creante, ci si renda spiritualmente partecipi delle sue creazioni». Per il nesso tra Zentralschau (Oetinger) e anschauende Urteilskraft (Goethe) cfr. G. Wehr, F. C. Oetinger. Theosoph, Alchymist, Kabbalist, Freiburg i. B. 1978, pp. 54- 55, 75.
254 Cfr. A. Langen, Der Wortschatz des deutschen Pietismus, Tübingen, 1958, pp. 334ss.; W.
Dierauer, Hölderlin, cit., pp. 63-81.
255 J. M. Hahn, Schriften, a cura di una Società di amici amanti della verità, 13 voll., Tübingen
1819-41, VII, III, p. 5; V, II, pp. 94, 100.
256 Ibid., XI, II, p. 13. 257 Ibid., VII, III, p. 4.
258 Cfr. Schneider, Schellings und Hegels schwäbische Geistesahnen, cit., p. 49.
tenere insieme i due momenti paolini della conoscenza immediata, ossia causata dallo spirito, e della conoscenza mediata, ossia conforme allo spirito. Ma purtroppo nulla dimostra che si tratti di un concetto originale di Hahn, anzi è facile ipotizzare che egli si sia limitato a interpretare la propria vocazione nel segno della Zentralschau solo dopo essere venuto a conoscenza di questa no- zione da un oetingeriano di ferro (ben noto anche a Schelling; cfr. supra cap. 1, nota 14) come il pastore e inventore Philipp Matthäus Hahn (incontrato nel 1783) e, più in generale, in seguito alla crescente consuetudine coi testi böhmiani. Forse, attraverso Oetinger, Hahn ha semplicemente trovato un’autorevole conferma linguistica della propria esperienza, fino ad allora ritenuta inesprimibile260. È così solo ex post che Hahn può affermare di aver
vissuto una Zentralschau in due occasioni: con la prima (forse 1775/76), della durata di sole tre ore, sostiene di aver avuto la meglio sul dubbio cartesiano che aveva stretto nelle sue spire la fede giovanile, con la seconda (1783), durata invece quasi ininterrottamente per sette settimane e poi destinata a ripetersi spesso (enigmaticamente senza che tale durata e i connessi fenomeni di levitazione261 andassero a scapito della portata gnoseologica e della
espressione scritta della suddetta visione)262, racconta di aver definitivamente
sostituito alla «morte dell’ignoranza» l’«autentica conoscenza di Dio»263, acqui-
sendo così gli strumenti essenziali per comprendere la Scrittura e la storia della salvezza.
Ma sforziamoci di ascoltare le parole dello stesso Hahn: la Zentralschau lo avrebbe condotto ad un rapporto immediato con Dio, senza più una vera ne- cessità della mediazione chiesastica o scritturale, se non quale conferma dell’intuìto, ossia ad un rapporto libero da ogni «fede di seconda mano»264.
«Quando egli [l’autobiografia racconta tutto alla terza persona; NdA] fu nello spirito e quindi nell’origine del suo spirito, vide con gli occhi di Dio nella nascita divina, e tutto ciò dall’interno [...] vide quanto vi è di più nascosto, ossia il trono originario della divinità, del quale la sua anima era un’immagine, e certamente vide nel contempo anche la divinità in questo eterno centro»265, ne scrutò il
«cuore» e di conseguenza la creazione che ne scaturiva. Val la pena di notare (un tema sul quale torneremo in conclusione) che si tratta di una visione squisitamente genetica e nient’affatto inconsapevole, un’intuizione «con gli occhi dello spirito e a partire dal Centralpunkt così rivelatosi, in tutte le linee che muovono dal centro, in tutte le sfere divergenti»266. Intuire centralmente si-
gnifica dunque per Hahn ricondurre la varietà delle forme viventi dal caos at- tuale all’ordine del grandioso Gottes Plan a cui si deve la loro genesi. Si tratta di una visione tanto profonda da trasformare integralmente chi l’ha avuta, tanto sicura nelle sue acquisizioni (a cominciare dalla comprensione del «piano della restitutio» che si troverebbe tracciato nelle pagine della Bibbia) da sottrarsi ai dubbi di ogni disincantata acribìa ermeneutica e a ogni malizioso paragone con la condizione onirica, e tuttavia assai meno precisa e drammatica di
questo proposito J. Trautwein, Die Theosophie Michael Hahns und ihre Quellen, Stuttgart 1969, pp. 280-281, nota 3, e in generale W. Nigg, Michael Hahn (1758-1819). Das Erlebnis der Zentralschau, in Id., Heimliche Weisheit. Mystisches Leben in der evangelischen Christenheit, Zürich-Stuttgart 1959, pp. 394-414.
260 Hahn, Schriften, cit., IV, Eb, p. 567. 261 Ibid., I, p. 28.
262 Cfr. Trautwein, Die Theosophie, cit., p. 115 e nota 4.
263 Hahn, Schriften, cit., XI, II, p. 7; Cfr. anche III, Col, p. 11; VIII, II, p. 231. 264 Trautwein, Die Theosophie, cit., p. 116.
265 Hahn, Schriften, cit., V, II, p. 100. 266 Ibid., XI, I, p. 22.
quella con cui l’amato Böhme aveva gettato uno sguardo sull’eterna polarità tra bene e male (anche se altrettanto capace di vincere la malinconia che, more solito, ne è il bacino d’incubazione). Essa consiste nello «sguardo sulla fine anticipata di ogni disarmonico conflitto. È la percezione più intensa dei princìpi della vita nell’origine di ogni cosa»267, in una parola della conciliazione di tutte
le scissioni che dalla caduta inficiano le relazioni tra Dio e l’uomo. In conclu- sione, si può ben dire che Johann Michael Hahn potrebbe essere la fonte della Zentralschau schellinghiana, se non fosse che questa nozione è già con ogni evidenza in Hahn un’eredità, nella fattispecie un’ascendenza oetingeriana.
3. Oetinger e l’archetipo böhmiano
Che quello di cognitio centralis sia un concetto assai marginale e perciò di difficile ricostruzione ci pare venga confermato anche dalla sua assenza sia nei più aggiornati e autorevoli lessici del pietismo268, sia negli studi, d’altra parte
non più che pionieristici, di filologia della letteratura visionaria269. Né è davvero
d’aiuto chi ne dà una descrizione sbrigativa in contesti che eufemisticamente potremmo dire poco scientifici270. Questa latitanza lessicografica, a prima vista
non del tutto giustificabile nel Settecento, un secolo ormai particolarmente smaliziato nel dar vita ad una psicologia mistica differenziata, si spiega in parte rimarcando l’evidente condizionamento storico-culturale di questa come di qualsiasi altro tipo di visione (circolo fra teoria e modalità o contenuto della vi- sione). Nonostante alluda a costanti archetipiche e si presenti, anche lessical- mente, come un’ovvietà con cui si indica un’atemporale potenzialità dell’uomo, questa nozione risulta in ultima analisi comprensibile (e ricostruibile) solo entro un ben determinato contesto spirituale, il cui nucleo è costituito, come si vedrà, dalla mistica della natura di Oetinger, non senza riferimenti alla teosofia böhmiana e alla iatrochimica di Johannes Baptista van Helmont. Al di là infatti del più generale riferimento a due fondamentali passi paolini271,
l’orizzonte a cui più di ogni altro pensa Oetinger nell’elaborare la dottrina della cognitio centralis è quello böhmiano. Il tema del Centrum in effetti è assai frequentato da Böhme272, alla cui rechte Theologie, e con ciò anche alla
267 Trautwein, Die Theosophie, cit., p. 288.
268 Langen, Der Vortschatz, cit., si sofferma brevemente sulla nozione di Zentrum e più
ampiamente su quella di Mittelpunkt, senza peraltro neppure segnalare l’esistenza di una Zentralschau o –Erkenntnis (cfr. pp. 342-344).
269 L’ampio studio di E. Benz, Die Vision. Erfahrungsformen und Bilderwelt, Stuttgart 1969, si limita a
sfiorare in varie occasioni la questione della cognitio centralis, che pure conosce attraverso i suoi studi oetingeriani.
270 Cfr. W. Bonin, Lexicon der Parapsychologie. Das gesamte Wissen der Parapsychologie und
ihrer Grenzgebiete, Bern-München 1984, p. 547 (“Zentralschau”).
271 Tanto 2Cor 3,18, così tradotto da Oetinger: «Noi tutti riceviamo in noi stessi come in uno
specchio la gloria del Signore, e siamo tramutati proprio in questa stessa immagine dal Signore, dallo Spirito», quanto la gnoseologia escatologica (dall’indiretto al diretto, dalla parte al tutto, dall’oscuro al chiaro, ecc.) implicita nell’inno all’agape di 1Cor 13,10-12 («La carità non viene mai meno. Le profezie invece avranno fine, come cesseranno le lingue e la scienza avrà termine. Perché ora noi parzialmente conosciamo e parzialmente profetiamo. Ma quando sarà venuta la cognizione perfetta, sparirà ciò ch’è parziale. [...] Noi ora vediamo, infatti, come per mezzo di uno specchio, in modo non chiaro; allora invece vedremo direttamente in Dio; ora conosco solo in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente nello stesso modo in cui io sono co- nosciuto».
profondità teosofica della sua geometria mistica, Oetinger era stato precoce- mente rinviato, entrambe le volte in maniera inattesa, sia dall’eccentrico fabbricante di polveri di Tübingen che dal cabalista francofortese Cappel Hecht. Ed ecco quanto afferma il calzolaio di Görlitz, definito da Oetinger «l’angelo dell’eterno evangelo»:
se un uomo vuole avere una conoscenza divina, è addirittura necessario che egli [sia; NdA]