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1.DIGITAL ENVIRONMENTS

Per descrivere in maniera adeguata le applicazioni per il digital heritage è necessario comprendere la natura di un digital environment e i fattori che influenzano l’esperienza di un utente che opera al loro interno. Questa operazione non è semplice, sia per la complessità dei fattori che caratterizzano l’user

experience, sia per l’ambiguità e la confusione che aleggiano attorno al concetto di ambiente virtuale.

Spesso questo concetto viene assimilato a quello di cyberspace, un ambiente virtuale in cui un individuo può assumere diverse identità e trascendere i limiti di un ambiente reale. Quanto appena descritto non definisce in maniera completa ed esaustiva il concetto di digital environment (DE), ma solo uno degli aspetti che lo caratterizzano. DE è un termine ricco e complesso, che si lega ad altri fenomeni come le tecnologie virtuali, internet, la rivoluzione digitale, l'affermazione dei dispositivi mobili, il passaggio, in ambito didattico, dal metodo deduttivo alla promozione dell'apprendimento centrato sullo studente, da un paradigma di divulgazione passivo ad uno attivo. I DE permeano la realtà quotidiana di ogni individuo, «even those who continue to resist computers, faxes, e-mail, personal digital assistants, let alone the Internet and the World Wide Web, can hardly avoid taking advantage of the embedded microchips and invisible processors that make phones easier to use, cars safer to drive, appliances more reliable, utilities more predictable, toys and games more enjoyable and the trains run on time»456.

Nonostante l'onnipresenza del mondo digitale e degli ambienti virtuali, non esiste ancora una definizione chiara ed univoca di digital environment, e molti teorici invece di chiarire il concetto di ambiente virtuale, hanno preferito descrivere alcune delle sue qualità. In Hamlet on the Holodeck457, Janet Murray individua quattro proprietà fondamentali che caratterizzano i digital environments. Secondo la teorica i digital environments sono prima di tutto procedural, poiché non derivano dalla mera giustapposizione di elementi statici, ma sono formati dalle rappresentazioni digitali sia degli oggetti reali che delle forze naturali che li influenzano e governano. I DE sono sistemi complessi in cui le entità singole che compongono l'ambiente virtuale reagiscono alle azioni dell'utente in maniera dinamica, sulla base di un insieme di regole espresse sotto forma di script e algoritmi. I digital

environments, secondo la teorica, sono partecipatory, poiché l'utente è in grado, attraverso le azioni

e le scelte compiute, di provocare determinate reazioni nell'ambiente virtuale all'interno del quale opera, infatti «procedural environments are appealing to us not because they exhibit rule-generated

456 John Seely Brown, Paul Duguid, “The Social Life of Information”, in Craig Hank (a cura di), Technology and Values:

Essential Readings, John Wiley & Sons, Chichester, 2010, pp. 510 – 521, p. 511.

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behavior but because we can induce the behavior. They are responsive to our input»458. La maggior parte dei linguaggi di programmazione che vengono utilizzati nei software e nei motori grafici sono di alto livello459, per cui il codice scritto dal programmatore passa attraverso un compiler460, un software, che lo trasforma in linguaggio macchina461. La necessità di questo ulteriore passaggio consente al programmatore di ricevere feedback dalla macchina, che valuta la correttezza del codice inserito. In questi casi il rapporto discorsivo non si stabilisce solo tra utente e ambiente virtuale, ma anche, ad un livello più profondo, tra ambiente virtuale e programmatore. La natura spaziale dei

digital environments è evidente, non soltanto perché una ricostruzione virtuale fornisce una

riproduzione di oggetti e spazi, come fanno in modo diverso Cinema, Letteratura ed altri media, ma soprattutto perché queste rappresentazioni virtuali non sono oggetti statici, ma elementi interattivi che l'utente può esplorare, con cui può interagire e sviluppare, come visto in precedenza, un rapporto discorsivo.

La caratteristica finale dei digital environment, individuata da Murray, è la loro natura enciclopedica. Il falso mito secondo il quale il cyberspace ha una potenzialità di espansione infinita, o che tutte le informazioni saranno interconnesse ed accessibili a tutti, nasce dall'incredibile capacità degli strumenti digitali di archiviare ed organizzare, con relativa semplicità, immense quantità di dati. Ovviamente la realtà dei fatti si discosta molto dalle attese e aspirazioni che per anni hanno accompagnato l'idea di web e cyberspace. Infatti, per quanto esistano numerosi database e piattaforme online, allo stato attuale il panorama delle informazioni accessibili a tutti, soprattutto nel settore del cultural heritage, è ancora molto limitato e frammentario. Questo non toglie che gli strumenti digitali presentano l'opportunità unica di gestire una quantità immensa di informazioni, che si traducono in rappresentazioni digitali non soltanto ricche di contenuti, ma anche molto dettagliate. La definizione di virtual environment, a differenza di quella di digital environment, è in qualche modo più semplice e, in generale, più condivisa. Anche in questo caso la circoscrizione semantica del termine è resa più problematica da un utilizzo improprio, che lo porta ad essere utilizzato spesso come sinonimo di cyberspace, rispetto al quale ha una natura più determinata e specifica, che rende la sua descrizione in qualche modo più semplice. Ellis462 definisce un virtual environment come «interactive, virtual images displays enhanced by special processing and by nonvisual display modalities [...] to convince users that they are immersed in a synthetic space»463. Questa definizione

458 Ivi, p.74.

459 Notazioni formali caratterizzate da un alto grado di astrazione.

460 Software che traduce da un linguaggio di programmazione (codice sorgente) ad un altro linguaggio (codice oggetto).

461 Linguaggio codificato tramite sequenze di bit che accede ai dati tramite gli indirizzi di memoria o i registri interni della CPU.

462 Cfr. Stephen R. Ellis, “What are virtual environments?”, IEEE Computer Graphics and Applications, vol. 14, n. 1 (gennaio 1994), pp. 17 – 22.

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è una delle più semplici e condivisibili. Per prima cosa non limita la propria prospettiva teorica al mondo del 3d, come fanno altri teorici come Thomas Schubert, Frank Friedmann e Holger Regenbrecht che descrivono i virtual environments come «computer based three dimensional spaces presented via various media such as pictures on head-mounted displays or monitors»464. Questa definizione, per quanto corretta, è limitata e non tiene in considerazione, ad esempio, tutte quelle applicazioni che combinano interfacce 2d ad elementi 3d465 per creare virtual environments, sia nell'ambito dell'augmented reality e della mixed reality, che nella virtual reality vera e propria. Anche la definizione di Ellis, pur rappresentando un buon punto di partenza per definire un digital

environment, non è sufficientemente inclusiva, anche perché si riferisce in realtà ai virtual environments. Come è stato dimostrato in precedenza466, esistono applicazioni per il digital heritage che pur non utilizzando rappresentazioni visive, ma file audio, riescono a creare ciò che Ellis definisce come uno synthetic space, che risponde a tutte le caratteristiche che sono state considerate come i tratti distintivi di un digital environment; inoltre, andando oltre l'ambito del cultural heritage, è possibile trovare altre applicazioni, software e serious game467 sviluppati principalmente per utenti non vedenti, che utilizzano Aural Representations dello spazio. In questi casi si parla di 3d acoustic

virtual worlds in cui gli utenti esplorano mondi virtuali altamente interattivi, interagendo grazie

all'audio 3d, senza elementi visivi di nessun tipo. Nonostante le diverse formulazioni, il passaggio da

virtual ad acoustic a digital environment, rimangono costanti le caratteristiche e le dinamiche che

determinano il rapporto tra utente e ambiente virtuale, indipendentemente dalle tecnologie utilizzate e dalle modalità di visualizzazione. Nei capitoli seguenti, quando si parlerà di interazioni e presence nei digital environments non saranno considerati ambienti 3d puramente visivi, ma piuttosto si farà riferimento a qualsiasi tipo di rappresentazione digitale interattiva in grado di creare nell'utente l'impressione di uno spazio artificiale.

464 Thomas Schubert, Frank Friedmann, Holger Regenbrecht, “Embodied Presence in Virtual Environments”, pp 269 - 278, in Ray Paton, Irene Neilson (a cura di), Visual Representations and Interpretations, Springer, London, 1999, p. 270.

465 Cfr. Björn Zehner, “Mixing Virtual Reality and 2D Visualization - Using Virtual Environments as Visual 3D Information Systems for Discussion of Data from Geo- and Environmental Sciences.”, in Paul Richard, José Braz, Adrian Hilton (a cura di), GRAPP 2010 - Proceedings of the International Conference on Computer Graphics Theory and

Applications, Angers, France, May 17-21, 2010, INSTICC Press, 2010, pp. 364 – 369.

466 Cfr Alessandro Bollo, “Tecnologia e storytelling per valorizzare il patrimonio culturale. Il progetto MP3 -Mondovì”, cit. p. 66;

Jason Farman, “Stories, spaces, and bodies: The production of embodied space through mobile media storytelling”, cit. p. 56.

467 Cfr. Jaime Sánchez, Mauricio Lumbreras, “Virtual Environment Interaction through 3D Audio by Blind Children”,

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2. PRESENCE E AGENCY

La dimensione interattiva che caratterizza i digital e virtual environments ha costretto a ripensare i processi e le dinamiche che caratterizzano il rapporto tra l'utente e i media. I progressi tecnologici nel campo della computer graphic, dell'animazione 3d e nello sviluppo dell'AI hanno permesso la creazione di rappresentazioni virtuali, NPC (Non Playable Character), in grado di imitare in maniera accurata non solo l'apparenza fisica di un'entità reale ma anche il suo comportamento. Rappresentazioni virtuali in 2d e 3d popolano non solo i videogiochi ma anche le applicazioni mobili e i software468 impiegati in diversi settori produttivi. REA (Real Estate Agent), ad esempio, è una rappresentazione virtuale di un agente immobiliare che è in grado di percepire, grazie ad un sensore, la presenza di un utente, di comprenderne le domande e di interagire con lo stesso attraverso gesti e parole. Lo sviluppo di rappresentazioni virtuali il più possibile fedeli, nell'aspetto e nel comportamento, ai corrispondenti reali nasce dall'esigenza di aumentare il senso di presenza dell'utente, all'interno del digital environment.

La presenza è stata descritta in maniera diversa dalla letteratura teorica469, per Gibson470 il concetto non si riferisce alla realtà fisica di ciò che ci circonda, ma ai processi mentali, controllati ed automatici, che mediano la percezione di quest’ultima, per Slater e Wilbur la presenza «is both a subjective and objective description of a person’s state with respect to an environment»471, secondo Lee, invece, la presence è uno stato psicologico in cui oggetti virtuali «are experienced as actual objects in either sensory or nonsensory ways»472. Il concetto di presenza può offrire informazioni non solo sul grado di coinvolgimento dell'utente all'interno del digital environment ma anche sul rapporto che quest'ultimo instaura con altri utenti che vi operano all'interno. Per questo motivo la teorizzazione

468 Cfr. Aa.Vv., “Embodiment in conversational interfaces”, in Proceeding CHI '99 Proceedings of the SIGCHI

conference on Human Factors in Computing Systems, ACM, New York, 1999, pp. 520 - 527

469 Mel Slater, Anthony Steed, Martin Usoh “Depth of Presence in Immersive Virtual Environments, Presence: Teleoperators and Virtual Environments”, Presence: Teleoperators and Virtual Environments, vol. 3, n. 2 (1994), pp. 130 – 144;

Matthew Lombard, Robert D. Reich, Maria Elizabeth Grabe, Cheryl Campanella Bracken, Theresa Bolmarcich Ditton, “Presence and television. The role of screen size”, in Human Communication Research, vol. 26, n. 1 (gennaio 2000), pp. 75 – 98.

470 James J. Gibson, The Ecological Approach to Visual Perception: Classic Edition, Taylor & Francis, New York, 2015. (Edizione originale 1979).

471 Mel Slater, Sylvia Wilbur, “A framework for immersive virtual environments five: Speculations on the role of presence in virtual environments”, Presence: Teleoperators and Virtual Environments, vol. 6, n. 6 (dicembre 1997), pp. 603 – 616, p. 606.

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del concetto di presenza passa attraverso la definizione delle sue dimensioni. La prima dimensione è la telepresenza, telepresence. Il termine venne teorizzato da Marvin Minsky nel 1980473, in un articolo che descriveva i teleoperation systems, sistemi utilizzati per manipolare a distanza oggetti fisici. Il concetto venne successivamente elaborato per poter essere applicato non solo ai processi di

teleoperation ma anche ai virtual environments. Secondo Sheridan474, la telepresence rappresenta la sensazione di esistere all'interno di un virtual environment o di un ambiente percepito attraverso l'intercessione di un altro medium. Quando un utente è telepresent, si sente immerso nell'ambiente rappresentato attraverso un medium, anche se il suo corpo fisico reale si trova in un altro luogo. Esistono cinque variabili475 secondo Sheridan, che indentificano e favoriscono il senso di telepresenza, di cui tre sono puramente tecniche: extent of sensory information, control of sensor, e

ability to modify the environment, e due invece sono proprietà delle task «which affect behavior, both

subjective and objective: task difficulty and degree of automation»476. La task difficulty descrive, come suggerisce il termine, la difficoltà che l'utente incontra nel completare una determinata task, mentre il degree of automation misura quanto il controllo di una task sia automatico.

I tentativi di categorizzare i fattori che favoriscono la telepresenza da parte della letteratura teorica sono molteplici, dalla matrice a sei variabili di Zeltzner477, alle sei categorie di Niamrk478, alle nove variabili presentate da Robinett479 per descrivere gli ambienti virtuali percepiti attraverso HMD. Le due idee principali che ricorrono attraverso la letteratura che si occupa di telepresence sono

interactivity e vividness. L'interactivity misura la capacità di un utente di partecipare nella modifica

dei contenuti di un virtual environment, in tempo reale, ed è caratterizzata, secondo Steuer480, da

speed, range, e mapping. Tradizionalmente l'interactivity viene analizzata principalmente nell'ambito

della realtà virtuale, ma esistono alcuni studi che hanno dimostrato la sua influenza nel creare un effetto di telepresence anche nelle applicazioni web utilizzate per il marketing481, e nell'intensificare

473 Cfr. Marvin Minsky, “Telepresence”, OMNI magazine, (giugno 1980).

474 Cfr. Thomas B. Sheridan, “Musings on Telepresence and Virtual Presence”, Presence: Teleoperators and Virtual

Environments, vol. 1, n.1 (inverno 1992), pp. 120 – 126.

475 Cfr. Thomas B. Sheridan, Telerobotics, Automation, and Human Supervisory Control, MIT Press, Cambridge, 1992.

476 Ivi, p. 210.

477 Cfr. David Zeltzer, “Autonomy, interaction, and presence”, Presence: Teleoperators and Virtual Enviroments, vol. 1, n.1 (inverno 1992), pp. 127 – 132.

478 Cfr. Michael Naimark, “Elements of real-space imaging: a proposed taxonomy”, in John O. Merritt, Scott S. Fisher (a cura di), Proceeding Volume1457, Stereoscopic Displays and Applications II, WA: SPIE, Bellingham, 1991, pp. 169 - 179.

479 Cfr. Warren Robinett, “Synthetic Experience: A Proposed Taxonomy”, Presence, vol. 1, n. 2 (primavera 1992), pp. 229 – 247.

480 Cfr. Jonathan Steuer, “Defining Virtual Reality: Dimensions Determining Telepresence”, Journal of Communication,

vol. 42, n. 4 (autunno 1992), pp. 73 - 93.

481 Cfr. James R. Coyle, Esther Thorson, “The Effects of Progressive Levels of Interactivity and Vividness in Web Marketing Sites”, Journal of Advertising, vol. 30, n. 3 (autunno 2001), pp. 65 – 77.

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la social presence482 dell'utente. Lium e Shrum483 elaborano una definizione di interactivity diversa rispetto a quella proposta da Steuer484, identificando le dimensioni che la caratterizzano come: active

control, communication e synchronicity. Active control e synchronicity sono molto vicini ai concetti

di range, mapping e speed di Steuer, ma communication, o mutual discourse485, rappresenta un’idea inedita nel panorama della telepresence, e si riferisce alla capacità di scambiare messaggi e quindi instaurare una comunicazione all'interno di un ambiente virtuale. Synchronicity, e il suo corrispettivo

speed nel framework di Steuer, descrivono la velocità con cui la comunicazione ha luogo, se avviene

in tempo reale, oppure in maniera asincrona. La speed e la synchronicity sono fattori molto rilevanti non solo per l'interactivity ma anche più in generale per il senso di telepresence. Diversi studi486 dimostrano come, ad esempio, il fenomeno della response latency487 danneggia il senso di

telepresence dell'utente. La synchronicity, come la communication, è anche legata alla social presence, infatti «when an immediate response is expected but is not received the sense of social

presence decreases»488.

Vividness si riferisce alla ricchezza dell'ambiente virtuale, alla portata e al dettaglio delle

rappresentazioni che lo compongono, ma non si limita solo a questo, infatti definisce anche il senso di social location, che a sua volta dipende, ancora una volta, dal range e dalla varietà dei social

input489. La vividness, secondo Steuer490, è una variabile bidimensionale che si compone di una

sensory width e una sensory depth, dove la prima misura il numero di dimensioni sensoriali presentate

in maniera simultanea nel virtual environment, mentre la seconda descrive la profondità di ogni dimensione sensoriale. L'idea di una vividness definita da due dimensioni specifiche anche se largamente condivisa non è unanimemente accettata. In particolare, Mohamed Khalifa e Ning Shen491

482 Cfr. Chih-hsiung Tu, Marina McIsaac, “The Relationship of Social Presence and Interaction in Online Classes”, The

American Journal of Distance Education, vol. 16, n. 3 (2002), pp. 131 – 150.

483 Cfr. Yuping Liu, L. J. Shrum, “What is Interactivity and is it Always such a Good Thing? Implications of Definition, Person, and Situation for the Influence of Interactivity on Advertising Effectiveness”, Journal of Advertising, vol. 31, n. 4 (2002), pp. 53 - 64.

484 Cfr. Jonathan Steuer, “Defining virtual reality: dimensions determining telepresence‟, cit. p. 117.

485 Cfr. Karl-Erik Bystrom, Woodrow Barfield, Claudia Hendrix,”A Conceptual Model of the Sense of Presence in Virtual Environments”, Teleoperators and Virtual Environments, vol. 8, n. 2, (aprile 1999), pp. 241 – 244.

486 Tra gli studi presentati in precedenza confronta soprattutto:

Katerina Mania, Bernard D. Adelstein, Stephen R. Ellis, Michael I. Hill, “Perceptual Sensitivity to Head Tracking Latency in Virtual Environments with Varying Degrees of Scene Complexity”, cit. p. 26;

Stephen R. Ellis, Katerina Mania, Bernard D. Adelstein, Michael I. Hill, “Generalizeability of Latency Detection in a Variety of Virtual Environments”, cit. p. 26.

487 Cfr. Capitolo I.1 I dispositivi e le tecnologie: storia ed evoluzione.

488 Mohamed Khalifa, Ning Shen, “System Design Effects on Social Presence and Telepresence in Virtual Communities”, in Proceedings of the International Conference on Information Systems, ICIS 2004, ICIS, Washington, 2004, pp. 547 – 558, p. 551.

489 Cfr. Robert Pennington, “Enhanced Social Presence Through eBranding the Consumer in Virtual Communities”, in Kapoor Avinash, Chinmaya Kulshrestha (a cura di), Branding and Sustainable Competitive Advantage: Building Virtual

Presence: Building Virtual Presence, IGI Global, Hershey, 2012, pp. 189 – 206.

490 Cfr. Jonathan Steuer, “Defining virtual reality: dimensions determining telepresence‟, cit. p. 117.

491 Cfr. Mohamed Khalifa, Ning Shen, “System Design Effects on Social Presence and Telepresence in Virtual Communities”, cit. p 118.

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sottolineano come sensory width e sensory depth, pur essendo distinte nettamente a livello teorico, nella realtà pratica non possono essere separate o quantificate attraverso alcun tipo di strumento statistico o psicometrico, e quindi rappresentano categorie sterili che non possono essere utilizzate come strumenti pratici d'analisi.

Ciò che è invece empiricamente dimostrabile è che questo fattore, come quello dell'interactivity, è intrinsecamente legato alla presence dell'utente. Alcuni studi492 dimostrano che maggiore è la vividity degli stimoli sensoriali nell'ambiente virtuale, maggiore sarà il senso di telepresence dell'utente. Nonostante l'esistenza di questo rapporto sia assodato la sua definizione è ancora oggetto di controversia teorica.

Secondo Short, Williams e Christie493 una rappresentazione virtuale accurata delle espressioni, della postura e dei gesti reali, contribuisce a rafforzare il senso di intimità negli utenti coinvolti nella comunicazione all'interno del virtual environment. Per Khalifa e Ning Shen494 invece la vividness non è legata in alcun modo alla social presence e «any possible relationship between the two constructs is mainly due to the underlying common factors»495, che derivano dal legame che unisce presenza,

telepresence e vividity.

La co-presence, o co-presenza – un'altra dimensione della presenza –, è un concetto prima di tutto sociologico496 che descrive la condizione che si realizza quando gli individui interagiscono faccia a faccia, quando una persona percepisce in maniera attiva un'altra persona e viceversa. Le condizioni principali per la copresence, secondo Goofman497, uno dei primi teorici ad elaborare questo concetto, si realizzano quando gli individui «sense that they are close enough to be perceived in whatever they are doing, including their experiencing of others, and close enough to be perceived in this sensing of being perceived»498.

La terza dimensione della presenza, la social presence, nacque come strumento per valutare la capacità degli individui di interagire attraverso un sistema di telecomunicazioni. Short, Williams e Christie499 nel 1976 svilupparono la teoria della social presence per spiegare l'influenza dei media nelle comunicazioni tra individui. Questi teorici definirono la social presence come «the degree of

492 Cfr. Matthew Lombard, Robert D. Reich, Maria Elizabeth Grabe, Cheryl Campanella Bracken, Theresa Bolmarcich Ditton, “Presence and television. The role of screen size”, cit. p. 116;

James R. Coyle, Esther Thorson, “The Effects of Progressive Levels of Interactivity and Vividness in Web Marketing Sites”, cit. p. 117.

493 John Short, Ederyn Williams, Bruce Christie, The social psychology of telecommunications, John Wiley & Sons, New York, 1976.

494 Cfr. Mohamed Khalifa, Ning Shen, “System Design Effects on Social Presence and Telepresence in Virtual

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