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Beyond the forest di King Vidor (1949)

L’adattamento di Madame Bovary come esercizio di stile

2. Interpretazione del modello

2.1 Beyond the forest di King Vidor (1949)

71 Cfr. Woody Allen, The purple rose of Cairo, 1985. Dopo aver assistito alla proiezione del film La rosa purpurea del Cairo, la protagonosta ne rimane talmente affascinata da rivederlo più volte fino al punto che il suo personaggio preferito, Tom Baxter, accortosi dell'assiduità della spettatrice esce materialmente dallo schermo prendendo vita autonoma nel mondo reale, e propone alla donna di fuggire via da lì. I due passano così il tempo insieme e si innamorano, mentre i protagonisti del film si vedono costretti ad aspettare il ritorno del personaggio per poter proseguire con la trama, e per passare il tempo conversano tra di loro e con gli attoniti spettatori del cinema.

32 Nello stesso anno del più noto film di Minnelli su Madame Bovary, King Vidor tenta una trasposizione libera dal titolo Beyond the forest (1949), traendola dal romanzo di Stuart Engstrand, ispirato a quello di Flaubert. Il film viene distribuito in Italia con il titolo Il peccato, parola che sembra ricorrente nelle trasposizioni in lingua italiana di Madame Bovary; anche nel caso del film di Oliveira, Val Abraão, la distribuzione italiana preferirà La valle del peccato. Allo stesso modo l’adattamento di Hans Schott-Schöbinger del 1969, Die nackte Bovary, sarà tradotto I peccati di

Madame Bovary. L’opera di Vidor in Francia prenderà il titolo di La garce, come a sottolineare le caratteristiche ferine nel carattere della protagonista, incarnate magistralmente da Bette Davis. La pellicola, considerata minore nella carriera del regista, rappresenterà l’unica occasione di collaborazione tra il cineasta e Bette Davis, la ‘regina della Warner’; tuttavia il regista saprà dipingere un ritratto spietato e del tutto singolare di una Emma Bovary, resa mediocre dal suo odio inestinguibile nei confronti del contesto ambientale a cui è stata destinata. Beyond the forest è, in effetti, l’esempio di un opera non riuscita eppure coinvolgente, un noir esasperato, dominato dal chiaroscuro. La sceneggiatura di Lenore Coffee, tratta dal romanzo di Stuart Engstrand, è farcita di battute, mentre la colonna sonora di Max Steiner riprende la celebre canzone Chicago di Fred Fischer.

Tuttavia, nonostante la stravagante e gesticolante Rosa della Davis contribuisca in gran parte a renderlo un apprezzabile film, tutto nell’opera risulta ovvio o poco credibile, sotto l’indulgente direzione di Vidor: eppure Bette Davis, con una lunga parrucca nera che ricorda molto l’acconciatura di Jennifer Jones in Madame Bovary, un trucco pesante e dei pericolosi tacchi a spillo, non fa rimpiangere il confronto con l’attrice di Minnelli. Bette Davis racconta di aver supplicato Jack Warner di risparmiarle il ruolo di Rosa Moline dipinta come una strega, una peccatrice a cui nulla più interessa se non consumare la sua vita nell’estrema perdizione. La diva cerca di convincere Warner di essere troppo vecchia per interpretare questa Madame Bovary in chiave moderna che odia il mite marito, interpretato da Joseph Cotten. Ma Bette Davis è già una star all’epoca, e lo è diventata, nonostante il suo aspetto e non a causa di esso. Paradossalmente, l'inadeguatezza del suo cast rende il film un successo e la protagonista surclassa chiunque altro e ‘fa’ il film grazie al suo talento, pur non essendo bella, sexy o giovane.

Rosa Moline è una donna di 40 anni che si annoia della vita nella sua provincia sperduta nel Wisconsin dove non accade mai nulla. Sposata con un medico stimato da tutti, sogna di lasciare la città in cui vive, per recarsi a Chicago, la grande città dove tutto sembra possibile, finalmente libera dal giogo della meschinità provinciale e dalla noia della famiglia. Tuttavia Rosa non custodisce il suo sogno in segreto o si adopera per farlo diventare realtà, ma manifesta apertamente il suo disprezzo per i meschini abitanti della provincia. Vestita di bianco virginale, cammina con orgoglio

33 lungo le strade della cittadina. Il suo passatempo preferito è quello di andare alla stazione più vicina a guardare i treni che vanno e vengono da Chicago. Diviene l'amante di un industriale di Chicago, ma quando decide di abbandonare il marito per l'amante, questi la lascia per fidanzarsi con un'altra donna. Quando Rosa è in attesa di un bambino concepito col marito e l'amante ricompare per riprenderla con sé, la donna non esita a uccidere un uomo al corrente del suo segreto e deciso a ricattarla. Per riavere l’amante si spinge a simulare un incidente per tentare di perdere il bambino, ma lo scellerato proposito le sarà fatale: la caduta ha esiti nefasti e Rosa muore per complicazioni conseguenti al procurato aborto unonostante le cure del marito medico.

Esattamente come Madame Bovary, Rosa persegue un sogno che non raggiungerà mai perché mostra come la mediocrità nella costruzione del proprio mondo perfetto finirà ignominiosamente immobilizzato, distrutto prima dal suo stesso odio per gli altri (e quindi per se stessa costretta a condividere quel tipo di esistenza). Le persone che abitano l'esistenza di Rosa non hanno nulla di ammirevole né di rimarcabile, così come nel romanzo di Flaubert, il marito medico ha mostrato una mancanza di carisma piuttosto sconcertante, cedendo ai capricci della moglie, mentre l’amante dispensa promesse che la sua viltà non gli permetterà mai di mantenere. L’originalità di alcune dialoghi, oltre alla interpretazione della protagonista rappresenta il plus, in un film mediocre. La battute celebre «What a dump!» (tradotta in italiano con “Che stamberga!”), sarà pronunciata da Elizabeth Taylor nell’interpretazione di Martha in Who's afraid of Virginia Woolf? (Chi ha paura di

Virginia Woolf?)

King Vidor non ha mostrato alcuna pietà per la sua eroina. Rosa non è altro che un mostro soffocato dal suo stesso veleno. Il regista tuttavia contemporaneamente fornisce un ritratto poco lusinghiero della grande città, che risulta aggressiva e anonima, ma anche della provincia in cui ognuno compete al fine di soddisfare la propria mediocrità. Se la città riesce a ricordare il romanticismo del selvaggio West, l'industrializzazione sembra aver bloccato ogni prospettiva di realizzazione individuale. L'unica relazione reale che la protagonista ha con l’altro da sé è la sua comunione con la propria immagine riflessa in una serie di specchi per tutto il film. Nello stesso anno anche Minnelli, nella sua trasposizione di Madame Bovary, userà nelle scene lo specchio come simbolo del momento in cui Emma prende contatto con (la vera?) sé. Quando Rosa sta morendo, si alza dal letto e fa un ultimo sforzo: barcolla fino allo specchio della camera da letto per applicare il trucco in un gesto fiero e ridicolo poi riproposto in What Ever Happened to Baby Jane? (Robert Aldrich, 1962), con la stessa Davis. Beyond the forest è uno dei pochi film di Hollywood che invitano il pubblico a indugiare negli impulsi proibiti e violenti del suo personaggio principale e forse l’unico che non fornisce una declinazione di Emma come personaggio problematico animato da istinti negativi e da contraddizione, ma nell’unica veste disumana e bestiale.

34 2.2 Die Nakte Bovary di Hans Schott-Shöbinger (1969)

‘La Bovary nuda’ interpretata da Edvige Fenech nel film, frutto di una coproduzione italo- tedesca, viene distribuito in Italia col titolo malizioso, ma più rassicurante per un pubblico meno evoluto nei costumi, I peccati di Madame Bovary. L’opera tuttavia risente della stanchezza del suo regista già prossimo alla pensione (sarà il suo penultimo film). Il senso del dettaglio e la caratterizzazione psicologica di Flaubert svaniscono nella banalità di una narrazione già datata per l’epoca, in cui la pellicola viene ritagliata intorno alle qualità fisiche della sua giovane e bellissima protagonista la quale elargisce nudi provocanti a un pubblico con poche pretese intellettuali che non è certo alla ricerca della fedeltà all’originale o dell’originalità dell’interpretazione del grande autore su un altro grande autore. Il risultato è un superficiale e breve melodramma che in novanta minuti si precipita verso una fine lieta perché l’opera non può essere all’altezza di un finale tragico, né lo svolgimento degli eventi lo potrebbe giustificare. La donna passa da un amante all’altro senza motivo apparente, la figura complessa e contraddittoria del personaggio che la dovrebbe ispirare è ridotta ad una insignificante figura femminile petulante e sterile la quale, alla fine, sommersa dai debiti, è costretta ad abbandonare ogni velleità romantica. Emma, moglie di Charles Bovary, medico in un paese di provincia, rimpiange i piaceri mondani e gli agi della vita a Parigi. Durante un ballo dai marchesi di Andervilliers - una delle rare occasioni in cui può vivere come sogna - il giovane visconte Gaston Fresnay comincia corteggiarla e, per quanto Emma non gli abbia ceduto, la sua successiva morte in duello l'addolora profondamente. Respinte le profferte amorose del giovane Léon - ospite spesso di casa Bovary - Emma si lascia travolgere dalla passione per un ricco proprietario terriero, Rudolph Boulanger, e ne diventa l'amante. Quando, dopo averle proposto di fuggire con lui a Parigi, costui ci ripensa e l'abbandona, Emma accetta la corte di Léon - tornato dopo una lunga assenza - ma la loro relazione viene scoperta da Adolphe Léreux, un sarto per signora col quale la donna si è fortemente indebitata. In possesso di cambiali per ventimila franchi, Adolphe minaccia di mandarle all'incasso, se Emma non diverrà la sua amante. Disperata all'idea di uno scandalo, madame Bovary chiede aiuto a Rudolph, ma inutilmente per cui non le resta che accettare il ricatto di Léreux (dal quale ottiene la restituzione delle cambiali). Quel rapporto la disgusta tanto che decide di uccidersi ma all'ultimo istante comprende che il suo dovere è invece quello di espiare le sue colpe continuando a vivere.

35 Adolphe è un nome estremamente diffuso nella Germania ottocentesca, tuttavia in proposito Donaldson-Evans ha osservato arditamente, ma con interessanti argomentazioni, che è possibile vedere nel rapporto tra l’usuraio e la donna una metafora della prepotenza del Führer sulla Francia. La studiosa afferma che come la Francia, la donna si vende col maquillage da prostituta al suo usuraio e ne è tanto disgustata che vorrebbe uccidersi. La studiosa sostiene inoltre che le numerose allusioni a Verdion, villaggio immaginario consonante con Verdun, luogo della grande battaglia franco-tedesca della Prima Guerra Mondiale, sostiene tale interpretazione politica. Si spinge oltre asserendo che la produzione italo- tedesca rappresenti un Adolphe infame ma anche lui vittima delle sue illusioni. La pellicola sembra così un timido tentativo di giustificazione e una replica ai film francesi anti-nazisti che venivano prodotti regolarmente dopo il 1946.

Dans cette adaptation, Lheureux proteste que son amour pour Emma est sincère et lui déclare son intention de reprendre les billets au vrai usurier de ce film. Comment s’appelle-t-il ? Non pas Vinçart, mais Lumière. Est-ce un hasard si ce personnage évoque par son nom les pères français du cinéma, de ce même cinéma qui profite économiquement d’une glorification ex post facto de la Résistance ? Sans écouter attentivement la bande-son, on n’arriverait jamais à cette interprétation allégorique du film, même si l’idée de faire d’une icône de la littérature française un film quasi-pornographique semble en lui-même inspiré72

Il film in realtà, nonostante i tentativi di accanimento critico volto a trovare un significato più profondo oltre l’immagine banale e povera che fornisce, è più probabilmente il risultato conseguente a una lettura superficiale del romanzo e frutto di una vena creativa manchevole; lo si può annoverare tra i tentativi mal riusciti di adattamento che nulla ha aggiunto, ma molto tolto all’originale, fino a farlo scomparire.

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