1. Amicizia e potere-contratto
Quello dell’amicitia era, in età classica, un istituto al quale i Romani facevano ricorso quando volevano riportare alla propria autorità delle nationes externae senza sottometterle direttamente36. Poteva trattarsi di regioni poste in aree di difficile accesso o sulle quali l’esercizio di un dominio diretto avrebbe incontrato altri ostacoli; come in Cilicia Trachea, dove prosperavano i pirati37. Uno studio recente su una disputa territoriale presentata al Senato romano dalle città di Meliteia e Narthakion (II secolo a.C.), in particolare, ha ben evidenziato come gli amici et socii greci non mostrassero ai Romani segni di aperta subordinazione. Tra i Romani e le città greche sarebbe intercorso semmai un rapporto informale, non una societas regolata da un foedus ma un insieme di norme mutualmente accettate, non precetti imposti dall’alto ma regole non scritte, che erano il prodotto di una negoziazione costante38. La denominazione stessa di socii avrebbe indicato, in modo generico, gli alleati ai quali Roma si univa, con o senza trattati39. Di tali amici et socii i Romani avrebbero tenuto traccia nella cosiddetta formula amicorum/sociorum/amicorum
et sociorum, l’elenco delle città amiche di Roma40.
Il Medioevo ereditava dal diritto romano il concetto di amicitia come forma di relazione pacifica tra ordinamenti (in senso verticale), ma anche la concezione ciceroniana dell’amicizia come legame ‘esclusivo’, elitario (in senso orizzontale)41. Il termine assumeva un significato nuovo, non più limitatamente a una direzione verticale o orizzontale: l’amicizia diventava il ‘collante’ della società in un’epoca in cui il potere era frantumato42. Parlare di amicizia, allora, non significava parlare di sentimenti o di emozioni, bensì di rapporti politici: le nuove amicizie si suggellavano con un giuramento, si trasmettevano in eredità e, dal momento che erano esclusive, contribuivano a stabilire
36 Burton, Friendship and Empire, con bibliografia. 37 Braund, Rome and the Friendly King, pp. 91-92. 38 Snowdon, “In the Friendship of the Romans”, p. 424. 39 Rich, Treaties, allies and the Roman conquest of Italy, p. 56.
40 Burton, Friendship and Empire, pp. 82-83; Snowdon, “In the Friendship of the Romans”, pp. 435-437. 41 Moeglin-Péquignot, Diplomatie et «relations internationales, p. 150; Rosenwein, Ancient theories, p. 21 e
ss.
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una gerarchia sociale. Quid est amicitia?, chiedeva Pipino ad Alcuino; aequalitas
amicorum, questi rispondeva43. Come ha sottolineato Gerd Althoff, a cui si deve il più importante studio sull’amicizia politica nell’alto Medioevo, era senz’altro a un giuramento di amicitia che Gregorio di Tours († 594) faceva riferimento quando nell’Historia
Francorum parlava della promessa di mutua fedeltà (fides) e carità (caritas) tra i dinasti
merovingi Cramno e Childeberto. Tali giuramenti erano affidati a formule basilari e generiche, come l’impegno a farsi amicus amicis inimicus inimicis, vale a dire, in concreto, a non fornire aiuto ai nemici dei propri amici, ma già in età merovingia erano considerati come trattati ufficiali44.
In Italia meridionale a questo genere di giuramenti avrebbe fatto ricorso Roberto d’Altavilla († 1085), con lo scopo di unire in un legame verticale soggetti di rango disuguale che s’impegnavano all’uopo a prestarsi consilium et auxilium45. L’influenza della cultura feudale connotava ora l’amicizia diversamente: non più un legame fra pari, ma un rapporto fra soggetti disuguali, un maior e un minor: consilium et auxilium era quanto si domandava ai vassalli nei capitolari carolingi; l’espressione richiamava intuitivamente il ruolo complementare di pensiero e azione, e assumeva un valore vincolante. Ne aveva parlato Fulberto di Chartres nella sua celebre lettera a Guglielmo di Aquitania (del 1021): assistere il dominus fornendo lui consilium era una forma di servizio, e implicava l’obbligo di presentarsi al suo cospetto qualora richiesto; gli Hohenstaufen avrebbero chiamato quest’obbligo Hoffahrt46. L’auxilium era, secondo Fulberto di Chartres, più impegnativo. Poteva concedersi anche sotto forma di versamento pecuniario, ma ciò che si chiedeva ai feudatari era, in primo luogo, il servitium militis, il servizio militare: certi vassalli erano tenuti a prestarlo personalmente, altri a fornire truppe a sostegno del signore, a volte «cum omnibus viribus hominum suorum, tam equitum quam peditum», altre con un numero limitato di soldati47.
È stato studiato come, al tempo della Lega Lombarda (sec. XII), le amicizie intercittadine prevedessero la collaborazione commerciale e militare, vale a dire la prestazione di auxilium et favorem. Nel 1119 il vescovo di Pisa definiva boni amici et vicini i Nizzardi, mentre nel 1126 Amalfitani e Pisani s’impegnavano a essere tra di loro amici:
43 Il quesito è tratto da un’opera pedagogica di Alcuino di York († 804), la Disputatio regalis et nobilissimi
iuvenis Pippini cum Albino scholastico: citata in Althoff, Family, Friends and Followers, p. 66.
44 Ivi, pp. 69-70.
45 Moeglin-Péquignot, Diplomatie et «relations internationales», p. 153.
46 François, «Auxilium et consilium», p. 115; Ganshof, Qu’est-ce que la féodalité?, pp. 148-149; Tabacco, Il
feudalesimo, pp. 67-72; Albertoni-Provero, Storiografia europea e feudalesimo italiano, pp. 254-259.
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sono esempi che dimostrano come fosse già in via di tecnicizzazione allora la figura dell’amico-alleato48. Prima di vendicare un’offesa, magari ricorrendo all’omicidio, in età comunale individui o famiglie potevano richiedere il consiglio degli amici, come illustra il
Liber consolationis et consilii (1246) di Albertano da Brescia49. Nell’opera di Albertano il protagonista (Melibeo) è in dubbio se vendicare le offese subite dalla moglie (Prudenza), e per questo riunisce intorno a sé i propri amici, per chiedere loro consilium. La vendetta è la soluzione che il protagonista, alla fine, decide di intraprendere, ma quello che conta davvero è il ruolo di amicitia e consilium, al centro, nella società del tempo, della concreta prassi deliberativa50.
L’armamentario concettuale arrivava integro, e non con diminuita importanza, al XV secolo: sull’amicizia fra Medioevo e Rinascimento si è scritto (e si scrive) così tanto che è impensabile delineare un quadro esauriente della produzione storiografica sull’argomento. Quale amicizia poi, e quali amicizie? L’oggetto sembra indefinibile se prendiamo, fra tutti, uno studio come quello di Dale Kent sull’amicizia nella Firenze medicea, in cui si spazia dalle opere di carità alla sodomia51. Del resto l’amicizia costituiva, nell’epoca considerata, un grande contenitore nel quale fare rientrare tutte le relazioni che prevedevano affinità e scambio di favori: Nicodemo Tranchedini, oratore sforzesco, nel suo dizionario italiano-latino associava la voce «amico» a termini come amans, beneficiarius, familiaris,
domesticus, cliens, hospes52. Si dicevano fra loro amici i mariti e le mogli, i parenti, i conoscenti, i vicini; in diplomazia, gli informatori o le spie53. Così, a titolo di esempio, nel 1467 i Veneziani avevano un loro confidente a Roma, «l’amico secreto», mentre Marin Sanudo si riferiva a una spia dalmata come «amico fidel» (dal 1497)54.
Ciò che a noi interessa è, invece, la declinazione contrattuale e politica dell’amicizia, che ha a che fare con il potere55. La società quattrocentesca può essere vista, infatti, come una maglia di rapporti di potere più o meno informali: l’amicizia, che prevedeva uno scambio d’informazioni e di favori (militari, ad esempio, o economici), era quel collante
48 Fasoli, La Lega Lombarda; Grillo, Alle origini della diplomazia comunale, pp. 162-163.
49 Zorzi, Consigliare alla vendetta, consigliare alla giustizia, in particolare le pp. 268-275; Artifoni, Prudenza
del consigliare.
50 Artifoni, Prudenza del consigliare, pp. 197-204. 51 Kent, Il filo e l’ordito della vita.
52 Tranchedini, Vocabolario italiano-latino, p. 10.
53 Crouzet-Pavan, Les faux-semblants, p. 150; Klapisch, «Parenti, amici e vicini»; Zemon Davis, Il dono, pp. 31-32. Sugli amici in diplomazia cfr. Senatore, «Uno mundo de carta», pp. 282-295. Più in generale sull’amicizia nella prima età moderna cfr. Aymard, Amicizia e convivialità e Burke, Humanism and
Friendship.
54 Preto, I servizi segreti di Venezia, pp. 218, 221.
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che teneva insieme principati e repubbliche, regni e potentati minori, ma anche, nella vita di tutti i giorni, individui, uomini e donne56. È in questa fitta trama di relazioni, che univano «simbioticamente (ma non stabilmente)» poteri maggiori e minori, che si sarebbe sviluppato il nuovo linguaggio delle alleanze e amicizie per contratto, con nuovi termini (adherentes, sequaces ecc.) atti a indicare una consociazione fra soggetti politici superiori e inferiori57. Nel Quattrocento il cancelliere di Basilea (1417) avrebbe inserito in un registro una rubrica in cui teneva conto di coloro che avevano fatto «fruntschaft» (amicizia) e «unfruntschaft» (inimicizia) alla sua città; nel Medioevo non esisteva, del resto, il concetto di neutralità: ognuno doveva schierarsi, e chi non lo faceva, magari intendendo conservare una doppia vassallità, era visto con diffidenza58.
Un’indagine condotta su alcuni trattati diplomatici (17 trattati di pace e 15 alleanze) dalla pace di Lodi (1454) alla Lega di Cognac (1526) ha permesso a Randall Lesaffer di affermare che in politica quello di amicitia era un concetto ampio, che indicava l’intenzione di condurre relazioni pacifiche, e che il vocabolo era usato indifferentemente in accostamento a termini come alliance, concordia, confoederatio, foedus, fraternitas,
intelligence, liga, pax e unio. Mentre alliance, confoederatio, liga e unio sono parole che
indicherebbero una condizione di alleanza, e pax una condizione di pace, termini come
concordia e fraternitas avrebbero avuto un significato più generico (come amicitia). Il fatto
che un termine esprimesse una condizione di alleanza non impediva tuttavia che esso fosse impiegato in un trattato di pace e viceversa, il che ha indotto lo studioso a pensare che tali vocaboli fossero usati in modo disordinato, senza prestare troppa attenzione alla componente giuridica. Parlare di amicitia sarebbe stato quindi un modo per dichiarare l’intenzione dei contraenti di non danneggiarsi reciprocamente, ovvero di non fornire aiuto ai rispettivi nemici, con le annesse restrizioni allo ius pactandi. Tali impegni si sarebbero estesi naturalmente anche agli amici delle potenze alleate, inclusi nei trattati senza bisogno di negoziati particolari, sulla base del principio che l’amico del mio amico è mio amico59.
Nel formulario notarile lombardo del pieno Quattrocento, studiato da Marco Gentile, termini come amicitia, squadra e pars avrebbero indicato la fazione, mentre gli amici,
adherentes, benivolos, fideles, sequaces et colligatos coloro i quali vi aderivano.
Espressioni come «adherenti e amici» ritornavano frequentemente, nel contesto rurale e in
56 Ferente, Reti documentarie e reti di amicizia; Lazzarini, Amicizia e potere. 57 Lazzarini, Amicizia e potere, pp. 11-14.
58 Moeglin-Péquignot, Diplomatie et «relations internationales», pp. 147-148. 59 Lesaffer, Amicitia in Renaissance Peace and Alliance Treaties.
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quello urbano, a dimostrazione del fatto che il lessico dell’amicizia durante il XV secolo si era tecnicizzato, andando a indicare l’appartenenza a una parte. Soltanto in seguito alle guerre d’Italia si sarebbe assistito a una ridefinizione del linguaggio del potere peninsulare, con il risultato che si sarebbe parlato sempre meno di amicizia ‘fazionaria’60. Senza, però, che l’istituto scomparisse del tutto: in Veneto, per fare un esempio, nel 1574 Malo (VI) si appellava ancora, nello scontro che la vedeva opporsi alla consorteria dei Muzzan e ai loro «amici» e «parenti», a un insindacabile diritto alla concordia sociale per giustificare, agli occhi della Serenissima, un eventuale ricorso alla violenza da parte della comunità o dei suoi «adherenti et complici»61.
L’amicizia-contratto, tirando le somme, legava sia territori che persone, in un rapporto di osmosi fra ciò che oggi chiameremmo ‘pubblico’ e ‘privato’, ma che nel XV secolo era un tutt’uno62. A tale linguaggio si attingeva allorquando si alludeva a pratiche non aggressive di comportamento ispirate, più che a una scienza giuridica ancora in via di definizione, all’agire sociale degli individui, quella che Pierangelo Schiera ha voluto chiamare la «zona meno istituzionalizzatae anche più consolidata e radicata delle relazioni tra gli uomini»63. È a questo alluso, a questo implicito, che si rivolge la presente indagine.
2. Aderenze e «potentie grosse»
In un’opera, la Storia delle compagnie di ventura in Italia, pubblicata in 4 volumi fra il 1844 e il 1845, Ercole Ricotti portava all’attenzione degli storici un interessante istituto del tardo Medioevo italiano, la «raccomandigia», una tipologia pattizia in virtù della quale una potenza si sarebbe impegnata a proteggere i dominii dei propri condottieri qualora essi fossero stati anche «signori padroni di castella». In nota egli accennava alle raccomandazioni a Firenze di Giovanni e Nicola Colonna, signori di Palestrina, che si obbligavano a corrispondere annualmente al comune l’omaggio di un palio (1395), e di Gian Luigi Fieschi, conte di Lavagna, che durante la guerra con Milano apriva ai Fiorentini terre e castelli, a patto che ogni cosa gli fosse resa al termine del conflitto (1424)64.
60 Gentile, «Cum li amici et sequaci mei»; Id., Amicizia e fazione. Sul tema dell’amicizia nelle relazioni
dominus/rustici cfr. Gamberini, La legittimità contesa, p. 197 e ss. Sul lessico della pars nel Mezzogiorno
cfr. Vitolo, Linguaggi e forme del conflitto politico, specialmente pp. 52-59. 61 De Benedictis, Amicizia e resistenza.
62 Chittolini, Il ‘privato’, il ‘pubblico’, lo Stato.
63 Schiera, L’amicizia politica in Francesco Patrizi, p. 72.
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Ci sarebbe voluto quasi un secolo perché qualcuno, Domenico Bandini, producesse un primo contributo totalmente incentrato sull’‘accomandigia’ (1926-1927). Nel suo studio, dedicato all’accomandigia fra il «piccolo comune» di Sarteano e il «comune maggiore», la repubblica di Siena (1467), Bandini faceva derivare l’istituto dalla commendatio vassallatica, ma rilevava che il comune accomandato non riceveva alcuna concessione di terre, a differenza dei feudatari, poiché esso restava «sovrano»: sarebbe stata questa «la più profonda differenza esistente tra il rapporto feudale e quello d’accomandigia»65. I Sarteanesi avrebbero concluso una prima accomandigia con Siena nel 1379, poi rinnovata nel 1401, 1415, 1439, 1455 e 1467. In questi trattati Siena prometteva di prendere i Sarteanesi in protezione, mentre essi s’impegnavano a essere amici degli amici e nemici dei nemici di Siena, a eleggere ogni sei mesi un podestà senese e assegnare ai Senesi la custodia del cassero, ai quali inoltre avrebbero dovuto offrire annualmente, in ricorrenza della festa dell’Assunzione di Maria (ogni 15 agosto), un palio scarlatto del valore di 25 fiorini d’oro. Il Bandini, originario di una famiglia nobile senese, affermava di possedere ancora presso gli archivi familiari le «vetuste ricevute» rilasciate da Siena ai Sarteanesi per la corresponsione del palio (dal 1380 al 1435); dagli stessi archivi egli traeva i capitoli di
recomendigia del 1467, che restituiva in un’elegante edizione66.
L’importanza più ampia dell’istituto raccomandatizio per gli sviluppi della politica tardo medievale italiana era più tardi segnalata da Fabio Cusin, ne Il confine orientale d’Italia
nella politica europea del XIV e XV secolo (1937). Nella sua indagine, volta a rivalutare i
rapporti fra le realtà territoriali friulano-istriano-carinziane e le dinastie dell’Europa centro-orientale, Cusin s’imbatteva negli elenchi di raccomandati degli «stati cittadini e regionali di tipo italiano», e ne derivava che tale etichetta avrebbe avuto nella prassi della politica quattrocentesca «significato di classificazione in un rango politico inferiore con diminuite capacità di rapporti internazionali». Quello della raccomandazione sarebbe stato, secondo lo storico triestino, un istituto originariamente feudale, ma che aveva acquistato un nuovo significato quando le maggiori potenze, nelle varie paci e leghe, avevano introdotto l’uso di scambiarsi le liste dei propri raccomandati e aderenti, andando a definire «le condizioni politiche internazionali dei singoli elementi feudali e patrimoniali». In tale pratica Cusin avrebbe visto «un primo passo verso la delimitazione precisa dei confini degli Stati
65 Bandini, Capitoli di accomandigia tra il Comune di Sarteano e la Repubblica di Siena, p. 59. Sull’istituto della commendatio nella società feudale cfr. Ganshof, Qu’est-ce que la féodalité?, pp. 23-28; Tabacco, Il
feudalesimo, pp. 64-65.
66 Bandini, Capitoli di accomandigia tra il Comune di Sarteano e la Repubblica di Siena, pp. 61-65, 119-140.
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completamente sovrani, che implicitamente presumono di poter disporre con sempre maggior efficacia e senza limitazioni dei diritti e dei beni non patrimoniali dei loro raccomandati»; un’abitudine che avrebbe contribuito «a creare il nuovo Stato moderno»67. In due articoli usciti in seguito sulla «Rivista storica italiana» (Per la storia del castello
medioevale, 1939; La guerra di parte ed il sistema di politica estera degli stati italiani alla fine del Medioevo, 1942), egli ribadiva queste posizioni, osservando inoltre l’assenza nella
storiografia di contributi specifici sul tema, ignorando il lavoro di Bandini. I raccomandati, a suo dire, si trovavano «in tutte le zone di confine (nel senso di zone estreme di rifugio, di zone alle quali il centro politico maggiore si disinteressa)»: erano quei soggetti politici minori che si erano rifugiati sotto l’ala protettrice di una potenza maggiore senza per questo aver rinunciato ai propri poteri territoriali e giurisdizionali, e che avevano ricevuto in cambio una promessa di protezione politica, una pratica che per lui sembrava già delineare i contorni delle aree d’influenza degli «Stati italiani»68. Datati appaiono oggi, com’è ovvio, diversi aspetti della ricostruzione, per quanto precorritrice dei tempi: in primo luogo l’approccio finalistico che guardava alla politica quattrocentesca in relazione all’emergere dello ‘stato’ (moderno), e che portava Cusin, pur avendo egli affermato che i raccomandati non rientravano nel dominio giurisdizionale dei loro raccomandatari, a ragionare sul tema in termini di centro e periferia69. È impropria, inoltre, la dizione di politica ‘internazionale’: nel XV secolo non vigeva, infatti, un codice di diritto internazionale, e le due maggiori autorità ordinanti, l’Impero e il Papato, si collocavano in posizione sovranazionale. L’Impero era, dal punto di vista giuridico, una monarchia, e l’imperatore un re (Romanorum Rex); il diritto canonico legge ‘universale’ (della cristianità)70.
Poco dopo che Cusin lanciava il suo appello per uno studio specifico sull’aderenza vedeva la luce il contributo di Giovanni Soranzo su Collegati, raccomandati, aderenti negli
Stati italiani dei secoli XIV e XV (1941), il primo tentativo di definire le più comuni
«denominazioni indicanti politici rapporti correnti tra minori e maggiori signorie o comunanze cittadine», vale a dire le etichette di colligati, recommendati, adherentes. L’autore suggeriva che i colligati fossero da identificare con le signorie o comunità che avevano stipulato con la potenza che li nominava una qualche lega; i recommendati con
67 Cusin, Il confine orientale d’Italia, pp. 103-104, 211, 239-240. Su Fabio Cusin e la sua opera cfr. Cervani,
La storia d’Italia ed il concetto del confine orientale nel pensiero di Fabio Cusin; Trebbi, Italia ed Europa nel pensiero di Fabio Cusin.
68 Cusin, Per la storia del castello medioevale, p. 540; Id., La guerra di parte ed il sistema di politica estera
degli stati italiani alla fine del Medioevo, pp. 105-106.
69 Sul paradigma centro-periferia ci limitiamo a ricordare Fasano Guarini, Centro e periferia. 70 Cavanna, Storia del diritto moderno in Europa, I, pp. 21-32.
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coloro i quali si raccomandavano a un potere maggiore in cambio di protezione; gli
adherentes con i feudatari imperiali o i signori dello stato pontificio71. Solo a partire dagli anni ’70, tuttavia, questi spunti sarebbero stati raccolti e sviluppati in modo più organico dalla nostra storiografia, e in special modo da Giorgio Chittolini, che da un lato ha studiato il tema dell’aderenza, e dall’altro è stato la voce più autorevole del dibattito sugli stati regionali72. Essa avrebbe privilegiato, in un rinnovamento generale degli studi sul potere signorile nell’Italia tardo medievale, l’attenzione ai protagonisti minori della politica (formale e informale) quattrocentesca: nelle pagine che seguono si tenterà un primo bilancio.
Il contratto di aderenza prendeva forma dapprima come un accordo personale, in cui un
principalis si sarebbe assunto l’obbligo della tutela di un minor: in Toscana, fra Tre e
Quattrocento, si sarebbe fatto ricorso a questo strumento (detto ‘accomandigia’) per stabilire dei vincoli personali (meno rigidi del giuramento di sudditanza o di fidelitas) fra i signori e gli abitanti delle signorie. A poco a poco, venendo l’istituto ad assumere un valore territoriale, si sarebbero stipulate aderenze anche fra signori, città, condottieri, che s’impegnavano a prestarsi auxilium, consilium et favorem; una formula che indicava, in sostanza, la collaborazione militare73. Consilium et auxilium nella società
vassallatico-beneficiaria era, come si è spiegato, quanto era dovuto dal vassallo al proprio signore, e, prendendo in prestito un luogo comune della diplomazia quattrocentesca, si può dire che se il consilium si realizzava a «parole», l’auxilium si realizzasse cogli «effecti». Il termine
favorem, in accostamento al consilium et auxilium, sembra semplicemente rafforzare il
concetto74. Capitava anche che, oltre alla protezione militare, per suggellare un’aderenza le
71 Soranzo, Collegati, raccomandati, aderenti.
72 Ricordiamo i contributi più significativi di Giorgio Chittolini sul tema dell’aderenza: Chittolini,
Infeudazioni e politica feudale; Id., Guerre, guerricciole e riassetti territoriali; Id., Ascesa e declino di piccoli stati signorili; Id., Note sul Comune di Firenze e i «piccoli signori» dell’Appennino secondo la pace di Sarzana; Id., I rapporti tra la città dominante, le città soggette e i centri minori. Sul ruolo di Chittolini nel
rinnovamento della ricerca sugli stati regionali cfr. Varanini, Qualche riflessione conclusiva, pp. 249-251.