1. Economia e guerra: due casi a confronto
Si propongono qui due aderenze cittadine – due casi, cioè, di città che hanno aderito alla signoria di San Marco – quasi contemporanee ma in un certo modo antitetiche, vale a dire quella anconetana e quella senese. Se la prima (1446), infatti, si prefigura da parte veneta come un’operazione di controllo, circoscrivendo l’impegno veneziano all’invio di un numero di galee armate nel porto anconetano, in teoria a difesa dei traffici mercantili, la seconda (1450) appare più che altro dettata da un temporaneo interesse bellico, essendo votata ad ostacolare Firenze e a creare un avamposto militare marciano in Toscana477.
Guardando al rapporto fra Ancona e Venezia è impossibile scindere la dimensione politica da quella economica. Questo non avviene nel caso di Siena: i contatti fra Veneziani e Senesi erano stati nel Medioevo occasionali e discontinui, niente a che vedere con la secolare politica veneziana nelle Marche, mirata a rafforzare la posizione egemonica della Serenissima sulle coste adriatiche478. A contesti diversi corrispondevano pratiche diverse, e una minore o maggiore mobilitazione sul territorio di funzionari veneziani: un conto era difendere un porto con qualche imbarcazione, un altro affrontare una guerra.
Quando si doveva venire alle maniere forti, come vedremo, i Veneziani si preoccupavano di coordinare le operazioni militari inviando subito sul posto i loro uomini, incaricati di controllare che tutto procedesse per il meglio. Soltanto dopo aver assicurato in città la presenza di un ambasciatore o di un ufficiale Venezia mandava in aiuto dei propri aderenti derrate alimentari, denaro e soldati, assumendo di fatto il controllo delle milizie cittadine, che venivano sottoposte a un capitano di fama, scelto per l’occasione fra i condottieri della Serenissima. Il comune che aderiva aveva tutto l’interesse a cedere un po’ di potere al condottiero di turno: più era rinomato il capitano che Venezia mandava in campo, più la reputazione della città cresceva. E in un sistema gerarchico come quello dell’Italia quattrocentesca la reputazione poteva cambiare il destino di una comunità: anche
477 Ancona aderiva a Venezia e Firenze il 18 febbraio 1446 (ASVe, Secreta, reg. 16, cc. 245v-246v); Siena aderiva a Venezia il 28 agosto 1450 (ASVe, Secreta, reg. 19, cc. 2r-2v).
478 Vitale, Una contesa tra Ancona e Venezia; Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città
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la potenzialità militare e la qualità degli uomini assoldati contribuivano infatti ad aprire la via verso il riconoscimento formale di un ruolo nell’ambito del sistema di potere italiano479.
1.1. Ancona
Limitandoci a ricordare i primi contatti di Ancona con Venezia va detto che, da quando la Serenissima aveva messo gli occhi sul Mare Adriatico, la città di Ancona, che sull’Adriatico si affacciava – e su quel mare aveva incentrato le proprie ambizioni di successo commerciale –, aveva avuto più di una ragione per detestare i fastidiosi rivali veneziani480. Alla metà del XII secolo i Bizantini avevano instaurato su Ancona un protettorato atto a disturbare i disegni egemonici del comune Veneciarum. Anconetani e Veneziani avevano continuato a rivaleggiare fino alla fine del Duecento, finché i primi avevano dichiarato apertamente guerra alla repubblica di San Marco, reclamando la propria libertà di commercio sul mare e protestando per le gabelle che i Veneziani imponevano a tutte le navi in transito lungo il Po. Soltanto grazie alla mediazione del Papato, nel 1281, si era giunti a un accordo pacifico fra le due potenze, e Ancona era stata lasciata libera di commerciare senza l’obbligo di pagare le gabelle a Venezia481. Si era assistito così a un vero e proprio rovesciamento della situazione: certo scontenta della schiacciante superiorità economica veneziana, Ancona da quel momento in poi avrebbe desistito infatti dalle offensive militari contro la Serenissima, ricercando piuttosto con Venezia una collaborazione amichevole482. Nel 1417, con la speranza che il gesto scoraggiasse il signore di Pesaro che le muoveva contro, la comunità marchigiana inalberava addirittura il gonfalone di San Marco e offriva di darsi in dedizione a Venezia, offerta che i Veneziani rifiutavano per non inimicarsi il pontefice483.
A metà del Quattrocento, Veneziani e Anconetani decidevano di concludere una «vera amicicia, singularisque benivolentia ac reciproca animorum conformitas»: in difesa della
479 Chittolini, Ascesa e declino di piccoli stati signorili, pp. 486-491.
480 Su Venezia e il dominio del Mare Adriatico cfr. Cessi, La Repubblica di Venezia e il problema adriatico; Cozzi, Il dominio del Mare Adriatico; De Vivo, Historical Justifications of Venetian Power in the Adriatic; Fredona, Angelo degli Ubaldi and the Gulf.
481 Sulle difficili relazioni veneto-anconetane cfr. Vitale, Una contesa tra Ancona e Venezia; Luzzatto, I più
antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane; Petronio, Venezia, Ancona e l’Adriatico; Orlando, Venezia e il mare, pp. 39-40.
482 Vitale, Una contesa tra Ancona e Venezia, p. 60 e ss.; di recente è tornata sui trattati veneto-anconetani Spallacci, I rapporti commerciali tra le città delle due sponde adriatiche (specialmente pp. 65-67).
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città marchigiana la repubblica di San Marco s’impegnava infatti a mandare nel porto di Ancona il capitano del «colfo» («capitaneum nostrum Culfi»), cioè del Mare Adriatico, «cum rationabilibus numero galearum», con la promessa di difendere il porto anconetano per 4 anni (24 dicembre 1445)484. L’oratore veneto a Firenze, Andrea Venier, riceveva l’incarico di comunicare anche ai Fiorentini la notizia che gli Anconetani avevano mandato in Laguna come proprio ambasciatore un fraticello, e che la Serenissima si era decisa a provvedere «cum solertia ad defensionem» del porto di Ancona485. Il 18 febbraio 1446 gli ambasciatori anconetani erano in Laguna per mettere insieme i capitoli dell’aderenza di Ancona alla Serenissima: la convenzione era letta in Senato e approvata; Venezia e Firenze, collegate, prendevano la città marchigiana come «veram adherentem, ac sub eorum defensione et protectione»486.
Nel luglio dello stesso anno fra Giovanni Bigozini, il frate francescano che rappresentava Ancona a Palazzo ducale, domandava ai Veneziani di mandare nella città marchigiana il capitano del «colfo» per la difesa di Flumesino et recuperatione turrium487. Questi rassicuravano gli Anconetani dicendosi orientati in modo benevolo alla sicurezza della loro comunità, «ob singularem affectionem nostram ad omnia comoda status et libertatis vestre et ob nostram confederationem»488. Il mese successivo gli ambasciatori di Ancona, Paolo Onofri e Giovanni di Biagio, avvisavano il governo di San Marco di essere intenzionati a stipulare certi patti con il Papato per la difesa della loro città, e di non volerlo fare senza il consenso della Serenissima. I Veneziani acconsentivano, a patto che la comunità provvedesse a inserire in una clausola «quod [...] secundum capitulum in instrumento adherentie nostre positum, in quo de portu sit mentio, firmum remaneat et ei non derrogetur»: insomma che gli Anconetani si preoccupassero di non contraddire la confederazione che avevano con la repubblica marciana («quod capitula que ipsa comunitas habet cum liga firma remaneant, que non contradicunt ei quod ipsa comunitas facere de iure obligatur ecclesie»)489. I due ambasciatori rispondevano che era senz’altro intenzione della comunità perseverare in adherentia. Paolo Onofri, in special modo, suggeriva di chiedere al Papato una fideiussione, mentre Giovanni di Biagio riteneva che ciò non fosse necessario, dal momento che Ancona intendeva conservare integralmente l’adherentiam
484 ASVe, Secreta, reg. 16, cc. 235r-235v. 485 ASVe, Secreta, reg. 16, cc. 236v-238r.
486 ASVe, Secreta, reg. 16, cc. 245v-246v. Il 19 febbraio 1446 il patto era registrato nei Libri Commemoriali: cfr. Appendice C, doc. 17.
487 ASVe, Secreta, reg. 17, cc. 32r-32v. 488 ASVe, Secreta, reg. 17, c. 38r. 489 ASVe, Secreta, reg. 17, cc. 45v-46r.
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suam cum liga. La Serenissima lodava l’ottima disposizione della comunità e confidava
nell’intenzione di Ancona di conservare l’aderenza («servandi adherentia quam lige fecit»): nessun bisogno di chiedere fideiussioni, bastavano le promesse490.
Da parte loro, come al solito, i Veneziani si preoccupavano di non mancare in nessun modo alla parola data ai propri alleati. Quando Francesco Sforza chiedeva alla repubblica d’intervenire militarmente via mare contro i Malatesta, la Serenissima negava recisamente «el favore de l’armata», poiché questo significava danneggiare degli amici (i Malatesta erano aderenti di Venezia) e rimuovere le galee ormeggiate nel porto di Ancona a discapito degli Anconetani: «li dicti Anconitani ogni hora richiedeno et pregano che per Dio non se removano quelle gallee del porto suo», rispondevano i Veneziani, ché «quella armata, stando lì, defende non tanto lo porto, ma anche la citade»491. La presenza delle galee veneziane ad Ancona non soltanto garantiva la protezione dei traffici commerciali anconetani, ma contribuiva ad affermare il potere veneziano sulla città, che trovava sicuro conforto sotto le ali del leone marciano: come ebbe a dire Vito Vitale nel suo contributo pionieristico sulle relazioni veneto-anconetane, «se non vero dominio sulla città, la repubblica esercitava un’assoluta supremazia sul mare»492.
È difficile non vedere delle affinità fra le modalità dell’aderenza anconetana e i patti che, a partire dal XII secolo, il comune Veneciarum stipulava con le cittadine della costa marchigiana493. Il primo patto a mettere per iscritto il modo della presenza veneziana nelle Marche era stato quello tra Venezia e Fano, nel 1141: dal momento che ancora non era invalso il ricorso alla figura giuridica degli aderenti, i Fanesi da parte loro si erano sottomessi formalmente a Venezia, salvo non cedere nella pratica alcuna parte di territorio al comune Veneciarum, e limitarsi a osservare le condizioni della collaborazione commerciale veneto-fanese, così come erano state fissate nel giuramento di fidelitas. Gli accordi con Fano del 1141 sono stati analizzati da Attilio Bartoli Langeli, che ha rilevato come Venezia, in questa occasione, accogliesse da parte fanese un giuramento di sottomissione che dal punto di vista formale/documentario non apparteneva per nulla al repertorio ‘liberista’ delle pattuizioni veneziane, e che per questo rappresenterebbe «un caso a sé nel complesso della documentazione veneziana»494. Ciò che lo studioso ha
490 ASVe, Secreta, reg. 17, c. 46v.
491 Osio, Documenti diplomatici, III, pp. 428-429 (Doc. 358), Giovanni Stavoli, Matteo Giordani e Vincenzo Amidani a Francesco Sforza, 2.VII.1446.
492 Vitale, Una contesa tra Ancona e Venezia, p. 65.
493 Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane.
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mancato di sottolineare, tuttavia, è che negli ultimi righi della promissio veneziana si era parlato in modo esplicito di amicizia: il doge aveva sigillato i suoi impegni promettendo di rispettare i patti a quelle stesse condizioni «que facta habemus hominibus ipsarum civitatum cum quibus in amicitia sumus»495. Va da sé che i Fanesi fossero considerati come degli amici; del resto, come abbiamo visto, il comune Veneciarum conosceva bene questo linguaggio, perché lo aveva sperimentato in Dalmazia e Croazia nel 1098, e a Imola nel 1099496.
Il trecentesco consilium di Baldo in favore di Fano citato da Bartoli Langeli, che rispondeva al quesito se i Fanesi dovessero o meno subire le rappresaglie stabilite dai Veneziani contro la signoria riminese dei Malatesta et suos subditos ac fideles – questione certamente spinosa, giacché Fano era compresa nel dominio malatestiano –, in nessun modo considerava i Fanesi «sudditi di Venezia», come ha suggerito lo studioso. Baldo asseriva, semmai, che Venezia fosse tenuta a trattare i Fanesi alla pari dei cittadini veneziani («Comune Venetiarum tenetur Fanenses suis civibus pares facere in protectione»). Le rappresaglie potevano avvenire soltanto contra non subditos; i Fanesi, pur non essendo sudditi di Venezia, dovevano secondo le convenzioni vigenti tra Venezia e Fano essere trattati alla pari, in protectione, dei cittadini veneziani, e quindi il comune
Veneciarum non era autorizzato a molestarli497.
Su questi termini, di amicizia e parità, era impostato il rapporto di Venezia con le città marchigiane. Nel 1260, ad esempio, Venezia ricorreva all’istituto dell’amicizia per legarsi al comune di Fermo, i cui abitanti ottenevano il diritto di circolare liberamente in territorio veneto con le proprie cose, tamquam speciales amicos498. Una «nova amicitia, pacto sive compositione et concordia» era stabilita qualche anno dopo tra Venezia e, guardacaso, la città di Ancona (1264), cui il comune Veneciarum si era alleato una prima volta nel 1152, quando i Veneziani avevano promesso di sostenere gli Anconetani «sicut adiuvamus homines unius ex melioribus contradis Venetie»499.
Nel 1446 lo scenario politico è profondamente mutato. Venezia, che ora è fra le «potentie grosse» d’Italia, si è imposta in modo inequivocabile sui concorrenti marchigiani; Ancona non ha più interesse a contrastare questo avversario così temibile, né può pensare di porsi sullo stesso piano della Serenissima. Raffaele Fulgosio e Raffaele Raimondi da
495 Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane, pp. 43-44 (Doc. 4). 496 Cfr. § I.4.
497 Bartoli Langeli, Il patto con Fano, pp. 17-18.
498 Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane, pp. 61-65 (Doc. 11). 499 Ivi, pp. 65-72 (Doc. 12) e 7.
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Como addirittura, fra il 1421 e il 1422, lo avevano determinato con un loro famoso consiglio: gli Anconetani potevano transitare sul Mare Adriatico soltanto se i Veneziani glielo consentivano; altri tempi, quando un soggetto giuridico, in questo caso Venezia, poteva vantare diritti su un bene comune, in questo caso il mare500. Da lì a poco, nel 1427, prendendo a pretesto la minaccia turca, i Veneziani avevano precluso agli Anconetani il commercio verso la Romània e la Schiavonia501. Era naturale che all’amicizia, fra le due città, subentrasse l’aderenza, e che Ancona si ponesse in una posizione d’inferiorità netta rispetto agli indiscussi padroni dell’Adriatico. In questo modo Ancona si proteggeva dalle minacce esterne e Venezia tutelava i propri affari: nel fondaco comunale di Ancona i Veneziani depositavano le proprie merci, in primo luogo spezie e tessuti di pregio, godendo d’importanti agevolazioni fiscali502.
Pro favore di Ancona, in definitiva, i Veneziani non facevano altro che armare e spedire
le proprie galee a protezione del porto, come emerge anche dall’istruzione all’ambasciatore veneto ad Ancona Francesco Sagredo (3 marzo 1447)503. Si trattava di una confederazione dettata dal mero interesse economico: se è chiaro che, in generale, qualsiasi alleanza, non solo a Venezia, è guidata da principi d’interesse commerciale, le ragioni politico-militari dell’intesa appaiono, nel modo della collaborazione veneto-anconetana, talmente subordinate all’interesse mercantile da diventare irrilevanti; in linea, d’altronde, con la secolare politica veneziana nelle Marche.
Per quanto riguarda gli Anconetani, invece, essi da parte loro non sembra che ricambiassero la protezione veneziana con particolari favori. Ma l’assenza di testimonianze scritte talvolta costituisce essa stessa un indizio, e se dalle scritture di governo in questi anni non traspare uno speciale favoritismo politico degli Anconetani nei confronti dei Veneziani, questo non significa che la città marchigiana non garantisse ai mercanti lagunari un trattamento privilegiato. Che la difesa del porto anconetano spettasse alla Serenissima era un fatto rilevante, e dobbiamo immaginare in quale modo si svolgessero i commerci in quel luogo, sotto gli occhi vigili dei sovrintendenti veneziani. È facile supporre che in una certa misura la presenza marciana contribuisse a indirizzare i traffici in direzione di
500 Petronio, Venezia, Ancona e l’Adriatico, pp. 545-555. È utile per una panoramica sul diritto marittimo Scovazzi, Libertà o dominio nell’evoluzione del diritto del mare.
501 Spallacci, I rapporti commerciali tra le città delle due sponde adriatiche, p. 56. 502 Ivi, p. 261.
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Venezia: in fondo gli Anconetani dovevano fare i loro affari con il fiato della Serenissima sul collo, per non dire i cannoni504.
1.2. Siena
Fa da contraltare a quella anconetana, fra le altre, la coeva aderenza senese. Di Siena ai Veneziani interessava la collocazione del territorio, più che la piazza commerciale: l’idea era quella di creare un avamposto veneto in Toscana, nelle immediate vicinanze di Firenze. Non si trattava di una strategia rivoluzionaria: già i Visconti, fra il 1399 e il 1404, avevano sperimentato una signoria su Siena in funzione anti-fiorentina. Adesso, a metà del Quattrocento, Venezia aveva la possibilità di portare dalla propria parte la città del Palio: l’ascesa al rango ducale di Francesco Sforza e il rafforzamento del partito mediceo a Firenze costringevano infatti i Senesi a mettere in discussione la leadership di Antonio Petrucci, figura di riferimento dell’oligarchia senese, la cui politica spregiudicata aveva promosso fino a quel momento l’alleanza di Siena con Milano e Napoli contro Firenze. L’amicizia tra Francesco Sforza e Cosimo de’ Medici allontanava Siena da Milano: privati del sostegno milanese, i Senesi ricercavano l’appoggio di Venezia505.
Il 28 agosto 1450, in Senato si rispondeva agli ambasciatori senesi che si erano recati in Laguna per contrattare i termini dell’aderenza di Siena alla Serenissima. A far discutere erano, in particolare, tre capitoli: il 1°, per cominciare, in cui si diceva che Siena si doveva obbligare a essere amica degli amici e nemica dei nemici di Venezia, e in cui si specificava che l’alleanza veneto-senese in nessun modo avrebbe derogato la lega che Siena aveva con Milano e Napoli. I Senesi chiedevano che l’impegno a essere nemici dei nemici di Venezia fosse limitato ai nemici coi quali i Veneziani erano in aperto bello, e di modificare il passaggio sulle obbligazioni di Siena verso Milano e Napoli, essendo naufragata l’alleanza milanese. In secondo luogo, laddove si diceva che i Senesi dovessero tenere 600 equites in tempo di pace e 1.000 in tempo di guerra, da mandare in sostegno della repubblica veneta
504 È di diverso avviso Giulia Spallacci, che vorrebbe Ancona libera dalla subalternità nei confronti di Venezia, ma che scambia l’aderenza della città alla Serenissima per un atto di «neutralità»: cfr. Spallacci, I
rapporti commerciali tra le città delle due sponde adriatiche, pp. 56-57. A questo si può obiettare facilmente
che il concetto di neutralità non appartiene alla dottrina giuridica medievale (vedi Soldi Rondinini, Il diritto
di guerra in Italia nel secolo XV, p. 300), e che le convenzioni fra Venezia e Ancona segnavano la preminenza
della repubblica sul comune.
505 Su questi avvenimenti e per un profilo del dominio territoriale senese nel ’400 cfr. Ascheri, Siena nella
storia e Zorzi, Politica e istituzioni in Toscana, pp. 30-38. Su Antonio Petrucci si può vedere la voce
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su richiesta, gli oratori contestavano di non poter tenere più di 400 cavalli, e di non poter dirigere le proprie forze extram Tusciam. Da ultimo, a creare problemi era il capitolo in virtù del quale i Veneziani avrebbero avuto il diritto di non sostenere i Senesi nel caso in cui questi avessero iniziato una qualche guerra senza il consenso di Venezia; per quanto riguarda la durata della lega, inoltre, gli ambasciatori di Siena chiedevano che la medesima fosse fissata a 20 o 25 anni. I Veneziani rispondevano per prima cosa di voler avere i Senesi
tanquam fratres, e di poter circoscrivere il passaggio «quod sit amica amicorum et inimica
inimicorum nostrorum» ai soli nemici che offendevano direttamente Venezia (qui nos
offenderent), nonché d’intendere, a questo punto, rimuovere completamente la frase sulle
obbligazioni di Siena verso Milano e Napoli. Per quanto riguarda il capitolo sulle milizie, il governo veneto diceva di poter accordare ai Senesi di tenere un numero di 800 cavalli in tempi di guerra, ma che «si in partibus istis bellum haberemus, et ipsi in Tuscia in pace essent», Siena avrebbe dovuto mandare in aiuto dei Veneziani tale contingente per intero. Infine il Senato stabiliva che l’ultimo capitolo restasse così com’era, anche dal momento che «consimilem condictionem habuimus cum ex illis quos ipsimet reputant principalioribus potentiis Italie», e che la lega durasse 10 anni, con buone possibilità di rinnovo («semper aperti erimus prolongari»). Venezia acconsentiva al patto a queste condizioni, affermando, tuttavia, che fosse necessario specificare nel primo capitolo, poiché così si era sempre fatto («quam iuxta mores et consuetudines nostras observare intendimus»), che entro 2 mesi le parti sarebbero state tenute a nominare i propri raccomandati, aderenti, collegati, complici e seguaci («quod partes omnes suos recommendatos, adherentes, colligatos, complices et sequaces infra duos menses in scriptis dare debeant»). Avrebbero fatto eccezione quei raccomandati, aderenti ecc., che erano al momento della stipula già obbligati verso Napoli o Venezia, e ai quali si sarebbe chiesto, prima di procedere con le nominazioni e quindi (entro il termine prestabilito di 2 mesi) di ratificare e approvare i capitoli506.
Le trattative si dimostravano particolarmente impegnative, perché il 15 dicembre, in Senato, si discuteva ancora della forma del primo capitolo: l’oratore della comunità senese chiedeva nuovamente ai Veneziani d’inserire in esso qualche parola per chiarire che il trattato non avrebbe derogato la lega col re di Napoli. Stent fidei nostre, rispondevano i Veneziani, ché «pro honore nostro non esset conveniens hoc in dictis capitulis