1. Mediazione e controllo
Quando, agli inizi del Quattrocento, la Serenissima costituiva il proprio dominio di Terraferma, la posizione di Venezia nel quadro politico peninsulare mutava. La repubblica veneta cresceva d’influenza e di capacità attrattiva: ora i signori che si trovavano nel raggio del possibile espansionismo veneziano la corteggiavano, si raccomandavano a essa. Oggetto di questo capitolo è l’aderenza a Venezia dei signori (domini) e delle signorie (dominia), termini che, nelle fonti medievali, designavano una grande varietà di rapporti di superiorità: a noi interessano le signorie territoriali, le forme personali di governo del territorio, in altre parole, dalla fisionomia locale o sovralocale. Allorché la geografia politica italiana aveva cominciato a gerarchizzarsi, verso la metà del Trecento, i signori della penisola, fossero essi signori laici o ecclesiastici, signori rurali o domini investiti del titolo marchionale, avevano infatti iniziato a gravitare nell’orbita degli ordinamenti territoriali maggiori238.
I Veneziani ricercavano l’alleanza dei signori dell’Italia centro-settentrionale al fine di assicurarsi le migliori vie commerciali: il 17 febbraio 1405 concludevano un patto di aderenza con i castellani della Vallagarina, nel Trentino meridionale, in modo da controllare il corso dell’Adige; il 1° luglio 1407 si stringevano in lega con Pandolfo Malatesta, signore di Brescia, e il 30 luglio con Nicolò III d’Este, marchese di Ferrara, in modo da controllare il corso del Po239. Il 5 agosto 1407 anche Gianfrancesco Gonzaga entrava nella ligam, unionem et confederationem tra la Serenissima, Pandolfo Malatesta e Nicolò d’Este240. Noi intendiamo formulare due modelli tipologici di aderenza signorile, al fine di mettere ordine fra la varietà dei casi che ci apprestiamo a illustrare: chiameremo questi modelli ‘aderenza di mediazione’ e ‘aderenza di controllo’.
238 Sulle forme del potere signorile cfr. Carocci, Signori e signorie; Signorie cittadine nell’Italia comunale; Cengarle, Signorie, feudi e “piccoli Stati”, pp. 264-269.
239 Ravanelli, Contributi alla storia del dominio veneto nel Trentino, pp. 70-74; Cozzi, Politica, società,
istituzioni, pp. 17-18. Sull’attenzione veneziana verso l’Adige e il Po, le due maggiori vie d’accesso al
mercato di Rialto, cfr. Orlando, Venezia, l’Adige e la viabilità fluviale, pp. 103-110. 240 ASVe, Commemoriali, reg. 10, cc. 54r-55r.
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L’‘aderenza di mediazione’ può essere definita come l’aderenza che Venezia stipula con l’idea di mediare fra più forze concorrenti. È noto, per fare un esempio, il posizionamento politico del dominio gonzaghesco, «bastione de mezo» fra Milano e Venezia: Mantova si trovava nel cuore della pianura padana, e i Gonzaga dovevano far attenzione a scegliere bene i loro alleati, per non rischiare di essere travolti dallo scontro tra i Visconti e la repubblica veneta. L’aderenza a Venezia e la vocazione a porsi come antemurale fra le due potenze consentiva ai Gonzaga di sopravvivere alle guerre veneto-viscontee del 1437-1441, finché, nel 1450, Ludovico Gonzaga non era assoldato da Milano241. Aderenze come quella coi Gonzaga garantivano ai Veneziani, d’altra parte, l’appoggio di signori-condottieri capaci di agire militarmente e diplomaticamente in aree di frizione politica, come quelle di confine.
L’‘aderenza di controllo’ può essere definita come quella che Venezia stipula con l’idea di controllare un territorio. Sono aderenze di controllo quelle che la Serenissima conclude nel Trentino meridionale e nel Friuli occidentale: in questi luoghi, tutti passati in seguito al diretto dominio veneto, la repubblica cercava, al fine di garantire la sicurezza dei traffici commerciali, d’ingerirsi nella conflittualità locale, stabilendo con i signori più influenti protettorati e condotte con funzioni di aderenza242. Come ha rilevato Michael Knapton, una politica di questo tenore era «quasi d’obbligo» nelle aree montane, dove il potere giurisdizionale era conteso fra domini locorum e fazioni: i Veneziani non potevano evitare di trattare amichevolmente con questi interlocutori se l’obiettivo era quello di pacificare i loro territori243. In queste pagine abbiamo raccolto una serie di esempi utili a comprendere meglio la distinzione fra questi due modelli astratti di aderenza. Considereremo aderenze di mediazione quelle dei Correggio, dei Cavalcabò e dei Gonzaga; aderenze di controllo quelle dei da Polenta, di Alessandro di Masovia, dei signori della Vallagarina e degli Estensi.
241 La definizione risale a un cronista mantovano, Andrea Schivenoglia, autore nel XV secolo di una Cronaca
di Mantova: cfr. Lazzarini, «Un bastione di mezo», p. 447.
242 Knapton, Per la storia del dominio veneziano nel Trentino, pp. 187-190; Ortalli, Le modalità di un
passaggio, pp. 15-19; Viggiano, Forme dell’identità locale e conflittualità politico-istituzionale, p. 23.
113 1.1. I Correggio
Nel 1454 gli oratori sforzeschi si trovavano dal doge per regolare la questione di Brescello (RE), che Giberto da Correggio aveva sottratto a Milano quando militava al soldo di Venezia, approfittando del disordine giurisdizionale conseguito alla morte di Filippo Maria Visconti (1447)244. I Veneziani, avendo preso a cuore la causa di Giberto e desiderando porre fine a questa controversia, volevano che i Milanesi avessero i da Correggio per raccomandati, ma gli inviati del duca rispondevano con un diniego, «perché questi zentilhomeni da Correza non hano observato né observano cosa che sia nelli capituli, ma più tosto contra, perché non hano facto la restitutione de le terre et lochi, et continuano a scodere lo datio de l’aqua de Po, et tengono modi tuti contrarii a li capituli de la pace et a la forma del ben vivere, et teneno et observano altri modi, quali sono apti ad incitare guerra» (22 maggio 1454)245. Palazzo ducale insisteva dicendo che Brescello non era «de Parmesana» – non apparteneva, cioè, al Parmense – e che Giberto «havea ben confirmato havere privilegii et cose antiquissime et nòve» a fondamento di questo dominio. Il signore stesso ribadiva la sua incolpevolezza presso gli oratori sforzeschi, e domandava al duca di Milano che prendesse i Correggeschi «per ricommendati»246.
Milano, tuttavia, non intendeva cedere, e per questo i Veneziani si adoperavano per convincere i Correggio a giurare fedeltà a Francesco Sforza247. Gli ambasciatori sforzeschi, dal canto loro, continuavano a mettere in guardia il doge sulla disonestà dei signori da Correggio, e riferivano, «aciò che vostra signoria intenda tutto, non solo quello audiamo, ma etiam ogni suspecto», che secondo certe voci i Correggio intendevano avvicinarsi ai Veneziani con l’intenzione di truffare anche loro, «per havere quelli adherenti de quello debbe essere vostro»248. In quei mesi si stava preparando la Lega italica: a Venezia erano quindi presenti, come ci dicono i dispacci sforzeschi, «duy doctori excellenti del studio de Padoa, chiamati per la forma de la liga», i quali erano incaricati dal governo veneto di
244 Su Giberto da Correggio si può vedere la voce biografica di Marini Nicci, Correggio, Giberto. Un profilo introduttivo della famiglia in Gentile, Terra e poteri, pp. 93-99. Giberto e Manfredo da Correggio erano stati condotti all’esercito sforzesco nel 1449, ma nel 1452, appoggiati dai Veneziani, dagli Estensi e dagli Aragonesi, avevano avviato una campagna militare contro Milano nel Parmense: cfr. Covini, L’esercito del
duca, pp. 79-80.
245 ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Paolo Barbo a Francesco Foscari, 22.V.1454.
246 ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Guarnerio Castiglioni e Nicolò Arcimboldi a Francesco Sforza, 1.VI.1454. 247 Persuasimus prefatis dominis de Corrigia quod faciant iuramentum iuxta intentionem excellentie vestre,
et ita eos libenter facturos esse non dubitamus: ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Francesco Foscari a Francesco
Sforza, 3.VI.1454.
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sostenere anche «quelli da Correzo nel facto de Bressello». L’opinione dei giuristi della Serenissima era che Brescello non appartenesse al Parmense: i legum doctores dello studio patavino portavano a sostegno dei Correggio non solo «molti privilegii che monstrano non essere de Parmesana», ma la «Cosmographia de Tholomeo», la cui riscoperta nel Quattrocento passava proprio da Venezia. Gli oratori sforzeschi, naturalmente, sostenevano il contrario. I giuristi della Serenissima suggerivano allora – a ribadire ancora una volta, nel caso ce ne fosse bisogno, che lo ius commune, in Veneto, lo si conosceva eccome – che i nobili da Correggio giurassero a Milano «la fidelitate in forma de rasone comune, come mette el Speculatore». La proposta incontrava le resistenze dei Milanesi: Francesco Sforza, infatti, considerava l’intero Parmense come una proprietà di Milano, e non apprezzava l’iniziativa autonomista dei signori da Correggio, che cercavano la libertà giurisdizionale facendosi forti dell’aderenza veneziana. Ma Brescello non valeva una guerra con Venezia, e così erano gli stessi ambasciatori sforzeschi a suggerire al duca di accettare il giuramento di fedeltà dei Correggio, semmai poi, in privato, «chiarendoli che seranno tractati come gli altri zentilhomeni de Parmesana»249.
I Veneziani sapevano quanto fosse lontano dalla prassi di governo milanese il riferimento allo Speculatore (dal titolo della sua opera, lo Speculum iudiciale), il francese Guillaume Durand († 1296)250. Già prima dell’età sforzesca, infatti, i Visconti si erano avvalsi del contributo di Baldo degli Ubaldi e di Martino Garati da Lodi per limitare il margine di azione dei propri sudditi, le cui promesse di fedeltà (soprattutto durante il ducato di Filippo Maria Visconti) avevano assunto un valore maggiormente vincolante rispetto alla forma dello Speculum iudiciale suggerita (opportunamente) dai dottori dello studio di Padova251. Le trattative per la Lega italica erano troppo importanti, però, per mandarle a monte: «qua se tracta de dare forma ad tutti li stati et reconzare tutta Italia», scrivevano al loro duca gli ambasciatori252.
249 ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Guarnerio Castiglioni e Nicolò Arcimboldi a Francesco Sforza, 8.VII.1454. Sulla riscoperta di Tolomeo nel primo ’400 veneziano si può vedere Baumgärtner-Falchetta, Lo spazio
cartografico, Venezia e il mondo nel Quattrocento. Sulla posizione del Parmense negli equilibri della pace di
Lodi cfr. Somaini, Geografie politiche italiane, p. 112. In Senato già il 1° luglio i Veneziani sostenevano il diritto dei nobili da Correggio di giurare fedeltà a Milano anche per Brescello, facendo riferimento a certe allegazioni e ragioni avanzate dai giuristi dello studio di Padova in favore di questa materia («allegationibus et rationibus introductis per doctores nostros in favorem istius materie»): ASVe, Secreta, reg. 20, c. 22v. 250 Su Guillaume Durand e la sua opera si può vedere la voce biografica di Gaudemet, Durand (Durant,
Durante), Guillaume (Guglielmo).
251 Sull’avallo dei giuristi alla politica feudale viscontea cfr. Cengarle, Immagine di potere e prassi di governo, pp. 61-86; Gilli, Les consilia de Baldo degli Ubaldi et l’élévation ducale de Gian Galeazzo Visconti. 252 ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Guarnerio Castiglioni e Nicolò Arcimboldi a Francesco Sforza, 14.VII.1454.
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E allora che si procedesse pure. Francesco Sforza mandava a Venezia «la forma de la fidelitate se rechiede a quelli da Correzo, reformata et reducta» (18 luglio 1454), e i suoi oratori si sforzavano di farla passare, sostenendo che non soltanto si trattava di una proposta sufficiente ma generosa, «peroché li dà separatione, iurisditione, mero et mixto imperio et exemptione». Ma alla Serenissima questo non bastava, e per questo si decideva «de mandare ad Padoa per duy singuli doctori [...] per disputare la cosa». Come osservavano gli attenti ambasciatori milanesi, la repubblica di San Marco dava mostra «de havere questo facto molto al core», di tenerci, cioè, al destino dei propri aderenti253. Altro che mercanti a digiuno di diritto comune: in quest’occasione i Veneziani esibivano l’artiglieria pesante, i giuristi dello studio di Padova, che utilizzavano per mettere pressione ai Milanesi. Con grande teatralità, i «duy excellentissimi doctori del studio da Padoa» nemmeno si presentavano all’appuntamento con gli oratori sforzeschi: «gli havemo expectati per tutto el zorno, et may non sonno venuti», lamentavano questi. Bastava l’idea di doversi confrontare con i legum doctores della Serenissima a allarmare quelli di Milano, che si preparavano a un vero e proprio duello giurisprudenziale. «Se veneranno», essi scrivevano al duca, «faremo tutto per sostenere l’honore et utile vostro; et quantuncha quelli doctori vengano da la fusina armati de libri legenti ogni giorno, nondimanco credemo nuy con la veritate sostenere il facto vostro et monstrare che non siamo domenticati tutte le leze»254.
Alla fine, i giuristi dello studio patavino si presentavano davanti agli ambasciatori lombardi dicendo «cose assai» – la vaghezza dell’espressione fa pensare a un mare di allegazioni e termini legali – e insistendo per il diritto dei Correggio di giurare la fedeltà in
forma iuris255. I Veneziani ottenevano ciò che volevano, e il 2 settembre il duca di Milano infeudava Giberto di Brescello, concedendogli «merum et mixtum imperium, gladii potestatem et omnimodum iurisdictionem», e confermando quindi la separazione di quella terra dal Parmense, a patto che i nobili da Correggio non s’intromettessero nella riscossione del dazio sulle acque del Po o facessero qualcosa in preiudicium di esso256. I signori di Correggio erano assolti ab omni eorum culpa et defectu, liberati da ogni imputazione, perdonati per le loro azioni contro il ducato di Milano257. E, soprattutto, Francesco Sforza
253 ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Guarnerio Castiglioni e Nicolò Arcimboldi a Francesco Sforza, 18.VII.1454. 254 ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Guarnerio Castiglioni e Nicolò Arcimboldi a Francesco Sforza, 21.VII.1454. Dal momento che nella metafora degli oratori sforzeschi i giuristi dello studio patavino appaiono «armati» di libri, riteniamo che la «fusina» sia da intendersi come la forgia del fabbro, e non come la località veneziana di Fusina: cfr. Tranchedini, Vocabolario italiano-latino, p. 74 (voce «fucina»).
255 ASMi, SPE, Venezia, b. 341, Guarnerio Castiglioni e Nicolò Arcimboldi a Francesco Sforza, 24.VII.1454. 256 ASMi, RD, reg. 45, cc. 61v-63r.
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accoglieva la loro promessa di fedeltà «non obstantibus quibuscunque provisionibus, adherentiis et obligationibus antecedentibus versus quoscunque per eos de Corrigia factis»258. Era un chiaro riferimento alla Serenissima, nella cui sfera d’influenza i Correggio ormai erano entrati a pieno titolo dal 1452, quando avevano promesso al doge di essergli
boni verique recomendati. Così Giberto e i suoi discendenti potevano continuare
liberamente nella loro fedeltà alla repubblica, comparendo più volte nella seconda metà del secolo fra gli aderenti veneziani259.
Fig. 2. I collegati, aderenti e raccomandati della Serenissima nel 1454.
1.2. I Cavalcabò
Per un signore, quand’anche piccolo, erano molte le complicazioni da tenere in conto qualora si fosse presa la decisione di aderire a un’altra potenza. Ai nobili da Correggio San
258 ASMi, RD, reg. 45, cc. 64r-64v.
259 L’aderenza dei Correggio a Venezia (9 settembre 1452) è edita in Appendice C, doc. 20. I Correggio erano nominati aderenti nel 1454 (ASVe, Commemoriali, reg. 14, cc. 132v e 156r), 1468 (Appendice A, doc. 19), 1472 (Appendice A, doc. 21), 1474 (Appendice A, doc. 22), 1480 (Appendice A, doc. 23), 1484 (Appendice A, doc. 24), 1485 (Appendice A, doc. 25), 1493 (Appendice A, doc. 26), 1495 (Appendice A, doc. 27), 1496 (Appendice A, doc. 28).
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Marco aveva portato fortuna; altre volte la Serenissima non era stata capace di garantire ai propri consociati nemmeno la più essenziale sopravvivenza politica. È il caso dei Cavalcabò, signori di Viadana. Il trionfo della parte guelfa a Cremona (1403) aveva di fatto messo la città nelle mani di Ugolino Cavalcabò, che si proclamava «gubernator generalis partis guelfe totius Lombardie». Non passava molto tempo prima che i Visconti punissero tale impertinenza e nel 1404 Ugolino, fatto prigioniero, cedeva loro il dominio cremonese. La famiglia si spaccava: Carlo Cavalcabò, il cugino di Ugolino, invalidava la cessione della città e instaurava su di essa un dominio personale. Tradito da Cabrino Fondulo, condottiero con il quale egli era in stretti rapporti, e che con un colpo di mano s’impadroniva della città, anche Carlo da lì a poco si ritrovava privato della signoria su Cremona260.
I Cavalcabò uscivano da questa vicenda molto ridimensionati: si rifugiavano nel loro piccolo dominio di Viadana, ma nemmeno quello, ormai, sembrava essere al sicuro. Il 27 novembre del 1409 Bertolino e Giacomo Cavalcabò di Viadana aderivano alla Serenissima, alla quale giuravano di essere boni et veri recommendati et adherentes; in cambio, come sempre, i Veneziani promettevano loro di proteggerli e difenderli «tamquam suos filios et amicos ac recommendatos carissimos»261. Era una manovra delle più tipiche: minacciati dall’ambizione delle potenze confinanti (Milano e Mantova), Bertolino e Giacomo cercavano rifugio presso la repubblica di San Marco, alla quale si rimettevano con la speranza di conservare il loro piccolo dominio lombardo. Giusto un paio d’anni prima, nel 1407, Venezia e i Gonzaga si erano però legati in una ‘lega, unione e confederazione’ quinquennale, così, quando nel 1415 il marchese di Mantova conquistava Viadana, i Veneziani restavano a guardare262. I Cavalcabò non avevano fatto nemmeno in tempo a essere nominati fra gli aderenti di Venezia in qualche pace o lega che il loro dominio era sparito.
260 Sulla parabola signorile dei Cavalcabò a Cremona cfr. Gamberini, Cremona nel Quattrocento, pp. 2-7. Sul guelfismo nel Quattrocento cfr. il volume collettaneo a cura di Gentile, Guelfi e ghibellini nell’Italia del
Rinascimento, e la monografia di Ferente, Gli ultimi guelfi.
261 Appendice C, doc. 4.
262 ASVe, Commemoriali, reg. 10, cc. 54r-55r. Sulla dedizione di Viadana ai Gonzaga si può ora vedere il volume a cura di Chittolini, Il destino di una comunità.
118 1.3. I signori della Vallagarina
Nel Trentino meridionale, il 17 febbraio del 1405, la repubblica di San Marco si stringeva in aderenza con Siccone di Castelnuovo, Iacopo di Castelbarco di Beseno, Antonio e Castrono di Castelnuovo d’Ivano, Aldrighetto e Guglielmo di Castelbarco di Lizzana, Ottone di Castelbarco di Albano e Marcabruno e Antonio di Castelbarco di Gresta263. Nella pace con Nicolò III d’Este del 25 marzo 1405, meno di un mese dopo la sottoscrizione dei capitoli di aderenza, i Veneziani si affrettavano a elencare i propri recommendati trentini. Tra essi non figurava Azzone Francesco di Castelbarco-Avio, all’epoca in contrasto con la sua famiglia, il quale però si collegava a Venezia due anni dopo, e convinceva addirittura il figlio Ettore a nominare come propria erede la Serenissima nel celebre testamento, che assegnava ai Veneziani i castelli di Avio, Ala e Bretonico-Dossomaggiore (1411)264. Il 3 giugno 1407, incassato il favore dell’ultimo Castelbarco, i Veneziani si associavano a Vinciguerra e Antonio d’Arco e completavano la cornice di alleanze265.
Queste aderenze tornavano utili alla repubblica per una serie di ragioni: anzitutto, come si è ribadito più volte, lo strumento si prestava ottimamente ai soggetti di più difficile imbrigliamento, e tali erano i domini della Vallagarina, signori feudali ai confini d’Italia. Trattandosi inoltre di territori posti in zone montuose, di cui i Veneziani non erano pratici, era chiaro che un tentativo di imporsi con la forza militare sarebbe risultato poco proficuo sia in termini di risorse economiche che di risorse belliche. E stabilire un protettorato sul Trentino meridionale, avviare con quei signori un rapporto di collaborazione politica, consentiva alla Serenissima d’impratichirsi nel complesso sistema della frontiera italo-germanica, nonché di tenere traccia degli equilibri di forza, delle rivalità familiari, della prassi concreta del potere in quei luoghi in cui il castellano medievale ancora regnava indisturbato266. Dopo l’acquisizione di Verona (giugno 1405) il principato vescovile tridentino era diventato una potenza confinante, e controllare la Vallagarina significava
263 Appendice C, doc. 1. Gli ambasciatori dei signori trentini («dominorum confinantium cum civitate Verone») erano a Venezia il 13 febbraio, e si dicevano «contenti adherere nostro dominio et ponere se in adherentiam et recommendisiam nostram»: ASVe, Secreta, reg. 2, c. 90v.
264 ASVe, Commemoriali, reg. 9, cc. 176v-178r (pace con Nicolò III d’Este). Per una sintesi di questi avvenimenti cfr. anche, oltre allo studio classico di Ravanelli, Contributi alla storia del dominio veneto nel
Trentino, Varanini, I Castelbarco dal Duecento al Quattrocento, pp. 35-36.
265 È errata l’affermazione di Paris, Aristocratic Prestige and Military Function, per cui «the Nobles of Arco never formally signed an alliance with Venice» (p. 220). Il trattato col quale i nobili d’Arco si dichiaravano
boni filii et servitores ac amici, adherentes et recommendati di Venezia si può leggere infatti in Appendice
C, doc. 3. Per il patto con Azzone Francesco di Castelbarco-Avio cfr. Appendice C, doc. 2.
266 Sulla gestione del potere e l’amministrazione della giustizia da parte dei feudatari trentini si rimanda a Bellabarba, La giustizia ai confini (particolarmente le pp. 55-65).
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estendere l’influenza veneziana al di là di questo confine, farsi degli amici (e informatori) al varco tra Venezia e i rivali oltramontani267. L’idea era quella di lasciare ai signori feudali trentini, assieme alla libertà giurisdizionale, la responsabilità di contenere l’urto eventuale del nemico: anche dopo le dedizioni del secondo decennio del secolo e quelle del biennio 1439-1440, almeno fino agli anni ’60-’70, i Veneziani non s’impegnavano in interventi sistematici di rafforzamento delle fortificazioni lagarine268.
Stando così le cose, i Veneziani dovevano tenere d’occhio gli aderenti trentini, cercando a un tempo di assicurarsene la fedeltà e frenarne l’irrequietezza (limitare, cioè, il loro spazio di azione politica indipendente). Nel 1423, ad esempio, rimproveravano il signore di Beseno per essersi presentato con un numero eccessivo di soldati a un normale sopralluogo per una vertenza confinaria fra il Vicentino e il Trentino: un’esibizione di forza, questa, poco gradita da parte di un raccomandato269. A colpire tuttavia, scorrendo fra le antiche carte, è soprattutto la modalità dei rinnovi delle convenzioni: Giacomo di Castelnuovo,