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G de Maupassant, Pazzo?, 1882

L'altro testo che inseriamo nella nostra analisi è rappresentato dal racconto di Guy de Maupassant

115 Ivi, p. 129

116 M. Veronesi, Eros e pathos nei racconti di Mérimée, art. cit.

intitolato Pazzo? e pubblicato nel 1882.

In questo e in altri racconti del crimine, l'autore francese racconta le spinte della follia dei suoi personaggi, gli assalti del sangue e della gelosia, l'obbedienza a una cultura che diventa essa stessa assassina118; ogni racconto è connotato da una visione complessa dell'essere umano, visto in preda ai

sintomi di un malessere più profondo dei sentimenti o della ragione stessa.

Quella di Maupassant non è la tipica tecnica dei racconti gialli o polizieschi, i protagonisti non si annoverano tra quelli caratteristici del genere, tra i personaggi non compaiono detective che svolgono indagini di sorta. Non è la scoperta dell'assassino che interessa l'autore, ma lo studio di una mente che sta per compiere un'azione turpe, la scoperta dell'itinerario sinistro della sua coscienza.

Tutto è visto, spiegato e appare palese, perché allo scrittore non interessa fornire informazioni sul personaggio che compie il crimine, ma approfondire i moventi, le cause e gli stati d'animo che lo spingono al delitto.

Proprio mostrando al lettore la ragione che conduce all'assassinio, nell'analizzarla, il racconto si spinge in profondità; la sostanza narrativa che precede l'atto brutale si arricchisce di dettagli, le cause si accumulano e sono descritte meticolosamente, vortici di pensieri al confine col patologico preannunciano e nutrono l'ossessione.

Contrariamente a quanto avverrà in Zola, Maupassant non fa riferimento a nessuna tara ereditaria che predestina al crimine, a nessun antecedente perverso nella vita dei personaggi di cui racconta le azioni nefande.

Gli assassini appartengono a diversi ceti sociali, sono borghesi e operai, impiegati e sindaci, donne di mezza età o pazzi criminali, tutti possono compiere un delitto e avere una simile propensione.

Nel nostro racconto un uomo uccide la propria compagna e il suo cavallo, di cui crede sia innamorata; la forza della narrazione risiede in più punti: nel carattere imprevedibile della follia che conduce l'uomo a formulare la grottesca ipotesi sull'amore tra la donna e l'animale e a decidere poi di ucciderli entrambi; nella disposizione particolare del materiale narrativo, incorniciato e interrotto sovente dai martellanti interrogativi del colpevole, dai tentativi di giustificare il proprio delitto, scongiurando l'eventualità che lo si possa ritenere pazzo.

Procediamo con la nostra analisi seguendo passo dopo passo il racconto, che così comincia:

Sono pazzo? O soltanto geloso? Non lo so, ma ho sofferto orribilmente. Ho compiuto un atto di follia, di follia furiosa, è vero; ma l'affanno della gelosia, ma l'amore esaltato, tradito, condannato, ma il dolore atroce che mi tortura non sono forse sufficienti a far commettere delitti e pazzie, pur senza avere il cuore o il cervello dei veri criminali. Oh! Ho sofferto, sofferto, sofferto in un modo continuo, acuto, spaventoso. Ho amato quella donna con slancio frenetico... Ma è poi veramente così? L'ho amata? Davvero? No, no, no. Mi ha posseduto anima e corpo, mi ha invaso, legato. Sono stato e sono una cosa sua, un giocattolo nelle sue mani. Appartengo al suo sorriso, alla sua bocca, al suo sguardo, alle forme del suo corpo, ai tratti del suo viso; ansimo sotto l'impero della sua apparenza esteriore; ma Lei, la donna a cui tutto ciò appartiene, l'essenza di quel corpo, la odio, la disprezzo, l'esecro, e l'ho sempre odiata, disprezzata, esecrata; perché è perfida, bestiale, immonda, impura; è la donna della perdizione, l'animale sensuale e falso in cui non vive un'anima, in cui il pensiero non circola mai come aria libera e vivificante; è la bestia umana; meno ancora: è solo un grembo, una meraviglia di carne dolce e rotonda abitata dall'Infamia119.

L'uomo comincia a raccontare con veemenza, angosciato, adducendo tutte le possibili motivazioni all'atto di follia furiosa commesso, non ancora espresso, ma legato all'amore, alla gelosia, che lo accomuna ai veri criminali; si rivolge a qualcuno, riversa tutta l'apprensione sull'interlocutore fantomatico, non è pazzo, insiste.

A sua discolpa dichiara d'aver sofferto in modo spaventoso, le ripetizioni dello stesso concetto evidenziano il tormento in cui versa; si trova in quello stato perché ha amato una donna; passato e presente si confondono: lei lo ha posseduto, ma lui ancora le appartiene; i sentimenti si mescolano, si contrastano freneticamente, odio, amore, disprezzo, desiderio, tutto nasce per un'unica donna e proviene dallo stesso uomo.

La precisione nella scelta dei termini che identificano gli stati emozionali è notevole, protagonista la carnalità, la ferinità che si nasconde in ogni donna; le considerazioni sulla compagna si susseguono in brevi frasi a un ritmo vertiginoso; il pronome con cui si riferisce alla donna, quel Lei, reso con la maiuscola, è volto a segnalare probabilmente le peculiarità, il potere di una creatura perfida, fuori dal comune, la donna, che non ha nome proprio; è l'animale sensuale, la bête humaine (parole che, al contrario, Zola attribuirà al femmicida Lantier), che con le sue carni dolci e morbide, e non con un sortilegio da maliarda, lo ha intrappolato: significativo che il termine immediatamente successivo, trascritto con la maiuscola, sia Infamia, condizione di disonore che il narratore ritiene abiti nel grembo femminile.

Poi l'uomo rievoca il passato; ricorda, in un fremito di passione, i primi tempi “strani e deliziosi”120 del

loro legame, la “rabbia di desiderio insaziabile” al cospetto degli occhi cangianti della donna. Rammenta le labbra verso cui dischiudeva la bocca “arso di sete”; la sua lingua vibrante come quella di un rettile e lo sguardo ardente e languido; gli sovviene soprattutto il “bisogno d'uccidere quella bestia”, la “necessità di possederla senza fine” e l'“infinito e vile languore” avvertito allo spogliarsi della donna. Un giorno si accorge che questa è stanca di lui, l'uomo attende ogni mattina lo sguardo rivelatore del risveglio, pieno di rabbia, odio, di disprezzo “per la bestia addormentata” di cui è schiavo.

I cambiamenti presunti della compagna sono spiegabili solo con la fine del sentimento; nella noia della donna, nella sua ricerca di tranquillità e solitudine, l'uomo ravvisa la rovina del loro amore.

Quel giorno, quando dischiuse le palpebre, scorsi uno sguardo indifferente e spento che non desiderava più nulla. Oh! Lo vidi, lo seppi, lo sentii, lo compresi di colpo. Era finita, finita per sempre. E ne ebbi la prova ad ogni ora, ad ogni secondo. Quando la chiamavo con le braccia e le labbra si volgeva annoiata, mormorando: - Ma lasciatemi! - oppure: - Siete odioso! - oppure: - Non posso stare mai in pace! Allora fui geloso, ma geloso come un cane, e scaltro, diffidente, simulatore. Sapevo che di lì a poco avrebbe ricominciato, che un altro sarebbe venuto a riaccenderle i sensi. Fui geloso con frenesia; ma non sono pazzo; no, assolutamente no121.

Anche il brano appena letto si conclude con la richiesta dell'uomo di non essere considerato pazzo: assassino per gelosia sì, pazzo no.

Nella coscienza dell'uomo si agita una bestia, un mostro, l'“inquilino nero”122 che Alberto Savinio vede

muoversi dentro lo stesso Maupassant, l'altro che vive dentro lo scrittore e nell'uomo, che gli parla, cresce e a poco a poco gli si sostituisce completamente, divenendo infine l'“esigente dio”123 che uccide

il proprio ospite.

La collera dell'uomo cresce, la compagna è di nuovo attiva, appagata, perché? I sospetti si fanno atroci, l'uomo spia la donna, diventa geloso di lei stessa, della sua indifferenza, della solitudine delle sue notti; dei suoi gesti, del suo pensiero sempre infame.

E quando talvolta, al suo risveglio, aveva quello sguardo morbido che un tempo succedeva alle nostre notti ardenti, come se una concupiscenza avesse ossessionato il suo animo e rinfocolato le sue voglie, mi sentivo soffocare di collera, fremere d'indignazione, desideravo strozzarla, schiacciarla sotto i piedi e farle confessare, stringendola alla gola, tutti i vergognosi segreti del suo cuore. Sono 120Ibid.

121Ivi, p. 30

122A. Savinio, Maupassant e l'altro, Adelphi, Milano, 1975, p. 63 123Ivi, p. 65

pazzo? - No124.

Ancora una volta la stessa domanda, stavolta posta a se stesso, “sono pazzo”? La risposta, palesemente volta a un'autorassicurazione, è ancora negativa.

Una sera l'uomo avverte che la donna è felice, sente che una nuova passione vibra in lei, ne è “sicuro, sicurissimo”125.

Palpitava come dopo i miei amplessi; gli occhi le fiammeggiavano, le mani erano calde, tutto il suo corpo vibrante emanava quel fluido d'amore da cui era nata la mia passione. Finsi di non capire, ma la mia attenzione l'avvolgeva come una rete. Eppure, non scoprivo nulla. Attesi una settimana, un mese, una stagione. Ella si schiudeva nello sbocciare d'un incomprensibile ardore, si placava nella felicità di un'inafferrabile carezza. E, di colpo, indovinai! Non sono pazzo. Lo giuro, non sono pazzo!126

Un simile sviluppo ossessivo verrà ricreato da Tolstoj nella mente del suo protagonista Pòzdnyšev, ma nel racconto di Maupassant si valica un limite ulteriore, l'amante formulato dalla coscienza perde le sembianze dell'essere umano: il rivale ipotizzato dalla gelosia dell'uomo si rivela essere un cavallo. A questo punto il narratore è terrorizzato dalla diffidenza, legittima, dell'uditorio, che potrebbe non credergli.

Come dirlo? Come farmi capire? Come esprimere una così abominevole e incomprensibile cosa? Ecco in che modo me ne accorsi. Una sera, ve l'ho detto, una sera in cui rientrava da una lunga passeggiata a cavallo, ella si lasciò cadere con le guance rosse, il petto ansante, le gambe rotte, gli occhi pesti, su una piccola sedia di fronte a me. L'avevo già vista così! Era innamorata! Non potevo ingannarmi! Allora sentii che perdevo la testa, e per non guardarla più, mi volsi verso la finestra; scorsi un domestico che conduceva per la briglia, verso la stalla, il suo gran cavallo che s'impennava. Anche lei seguiva con gli occhi l'animale focoso e scalpitante. Poi, quando fu scomparso, s'addormentò di schianto. Passai tutta la notte a riflettere; e mi parve di penetrare dei misteri che non avevo mai sospettati. Chi scruterà mai le perversioni della sensualità femminile? Chi ne comprenderà gli inverosimili capricci e l'appagamento strano delle più strane fantasie? Ogni mattina, all'alba, partiva al galoppo per pianure e boschi; ed ogni volta rientrava illanguidita, come dopo le frenesie d'amore. Avevo capito! Ero geloso ora del suo cavallo nervoso e galoppante; geloso del vento che le accarezzava il viso quando andava ad una velocità folle; geloso delle foglie che le baciavano al passaggio le orecchie; delle gocce di sole che le cadevano sulla fronte attraverso i rami; geloso della sella che la portava e ch'ella stringeva con la coscia. Era questo che la rendeva felice, che l'esaltava, l'appagava, l'esauriva e me la rendeva poi insensibile e come assente127.

124G. de Maupassant, Pazzo? in ID., Racconti del crimine, op. cit., p. 30 125Ivi, p. 31

126Ibid. 127Ibid.

La donna, agli occhi del compagno, è follemente innamorata, esaltata, voluttuosa e piena di desiderio, appagata e soddisfatta. L'uomo diventa geloso di un cavallo, medita la vendetta; giorno dopo giorno riempie la donna d'attenzioni, apparentemente complice della relazione morbosa tra donna e bestia. Il legame adulterino assume la canonica forma di continuità, le passeggiate, i sentieri percorsi: l'uomo può preparare il proprio piano. Attende paziente l'occasione perfetta, una delle solite mattine in cui la donna passa per lo stesso sentiero, nel boschetto di betulle nella foresta.

Giungiamo all'epilogo.

Uscii prima dell'alba, con una corda in mano e le mie pistole nascoste sul petto, come se andassi a battermi in duello. Corsi verso il sentiero da lei preferito; tesi la corda fra due alberi; poi mi nascosi nel verde. Avevo l'orecchio contro il suolo; intesi il suo galoppo lontano; poi la vidi laggiù, sotto le foglie, come in fondo a una galleria, arrivare di gran carriera. Oh! Non m'ero ingannato: era vero! Sembrava ebbra di gioia, col sangue alle gote, lo sguardo da folle; e il movimento precipitato della corsa le faceva vibrare i nervi d'un godimento solitario e furioso. L'animale urtò la mia trappola con le due gambe anteriori, e ruzzolò, con le ossa spezzate. Ella mi cadde nelle braccia. Sono tanto forte da sostenere un bue. Poi, quando l'ebbi deposta a terra, m'avvicinai a Lui che ci guardava; allora, mentre cercava ancora di mordermi, gli puntai una pistola all'orecchio... e lo ammazzai... come un uomo. Ma caddi anch'io col viso sferzato da due scudisciate; e poiché ella si avventava di nuovo su di me, le tirai l'altra pallottola nel ventre. Ditemi, sono pazzo?128

L'uccisione della donna è collaterale a quella del cavallo, decisa nell'istante in cui questa gli si avvicina per salvare il proprio oggetto d'amore, Lui, l'animale antropomorfizzato anche dal pronome; e così, evidenziati da maiuscole anche nella versione francese129, Elle e Lui appaiono strettamente legati

dall'Infamie.

Nella sua ottica l'assassino realizza un vero e proprio delitto d'onore: l'amante legittimo, tradito, spara a bruciapelo, mentre il rivale, il cavallo, lo guarda.

La bestia interiore dell'uomo, la bestia umana colpisce l'animale vero: due bestie, in una paradossale rivalità, si affrontano in duello.

Il paradosso che si realizza nella ferinità e permette di apparentare due nature antitetiche, l'uomo e la bestia, in seguito si sposta sul piano opposto, quello dell'umanità, quando il cavallo è ucciso così, come un uomo. Nella follia e nella violenza estrema, animali ed esseri umani finiscono in ogni caso per assomigliarsi.

La donna si lancia nell'ultima speranza di proteggerlo, decisa a sacrificare se stessa, l'uomo non può

128Ibid.

sopportare questa visione, le spara.

A differenza di altri racconti maupassantiani, quale ad esempio La petite Roque (1885), in cui pure è una donna a subire violenze da parte di un uomo, ma dove tutto tende a confondersi, quindi la vittima si trasforma in carnefice e l'assassino diviene vittima, in Pazzo? assassino e vittima restano tali, le colpe sono ferme al loro posto, nessun personaggio scivola nel ruolo dell'altro130.

Il racconto assurdo, che aggiunge elementi interessanti e nuovi alla nostra indagine sui femmicidi letterari, quali l'eccentrico e il grottesco, si conclude con la solita domanda rivolta a noi lettori, ascoltatori e giudici, “ditemi, sono pazzo”131?