Negli ultimi anni c’è stato un crescente interesse nella letteratura scientifica in merito allo sviluppo d’imprese avviate da donne nelle aree rurali, inclusa l’Europa occidentale (Markantoni, van Hoven, 2012).
Come già accennato, questa letteratura sottolinea da una parte il ruolo pionieristico delle donne nelle nuove imprese nelle aree rurali (Anthopoulou, 2010; Kloeze, 1999), dall’altra il dato per cui le donne sarebbero in prima linea nella diversificazione (O’Toole, Macgarvey, 2003) e nella rivitalizzazione sociale dell’economia rurale (Little, 2002; Warren-Smith, Jackson, 2004). In particolare, un focus argomentativo piuttosto fecondo è stato posto sull’assunto secondo cui quando le don- ne iniziano un’attività imprenditoriale, questa diventerebbe una parte inestricabile della loro vita quotidiana, oltre che della loro identità e stile di vita. Contrariamente agli uomini, sembrerebbe che il principa- le mezzo di soddisfazione da esse espresso non sia quello economico (Baines, Wheelock, 2000; DeMartino, Barbato, 2003; Driga et al., 2009; Egan, 1997; Still, Timms, 2000), ma la capacità di coniugare le respon- sabilità primarie connesse alla cura dell’infanzia e delle attività familiari in generale (Mirchandani, 1999) alla capacità di trasformare questa esperienza in attività di guadagno. Questa prospettiva è certamente adottabile nell’ambito delle imprese rurali femminili, sebbene anche il ruolo della famiglia giochi una funzione importante nell’avvio o nella trasformazione del business. Nell’economia rurale, e soprattutto nelle imprese femminili, appare evidente quanto la famiglia assuma una veste di rilievo nella mobilitazione delle risorse finanziarie, nella fornitura di capitale umano e risorse fisiche, ridisegnando un nuovo spazio familiare, in cui sia possibile generare reddito di genere e familiare.
La mancanza di attenzione per la famiglia come fattore abilitante e cruciale per portare avanti attività imprenditoriali di genere può essere spiegata, almeno in parte, dalla percezione predominante dell’azione imprenditoriale come dominio maschile (Ahl, 2006), contrassegnato dalla produzione e non dalla riproduzione. In una prospettiva di genere, l’intreccio tra cura e impresa supporterebbe la trasformazione degli spazi domestici in spazi misti, rendendo l’impresa rurale un contesto al contempo produttivo e riproduttivo.
Questa saldatura tra i segnali di femminilizzazione delle aziende familiari e la diversificazione dell’attività d’impresa, che combina si- nergicamente alla produzione agroalimentare in senso stretto diverse altre funzioni remunerative (Cois, 2019), sembrerebbe essere frutto, da un lato, dell’uso consapevole di un’identità multipla che il genere femminile, più di quello maschile, è chiamato a sviluppare per trovare cittadinanza nel mondo della produzione, oltre che in quello della riproduzione; dall’altro lato, di un utilizzo strategico di diverse carat- teristiche/stereotipizzazioni attribuite all’universo femminile. In buona sostanza emerge chiaramente in questo settore produttivo, più che in altri, il doing gender nel fare impresa agricola. Fare affari è una pratica sociale e lo stesso vale per il “fare genere”, ma il secondo meccanismo appare meno evidente del primo, perché il senso comune attribuisce il genere alla corporeità delle persone e quindi al loro essere, piuttosto che al loro fare (Bruni et al., 2004).
Sono ancora pochi oggi gli studi che in quest’ambito hanno applicato l’approccio del “fare genere” nel fare “business”, considerando il genere come una costruzione sociale in relazione a un’altra costruzione sociale (Brandth, Haugen, 2010; Hedberg, 2016; Pettersson, Heldt-Cassel, 2014). In questo senso, la letteratura sull’imprenditoria femminile nelle aree rurali sembra rispecchiare in qualche modo il più generale dibattito sull’imprenditoria femminile, nel senso che mancano ancora studi che adottino esplicitamente questa prospettiva per esplorare il fenomeno.
Provando a applicare la menzionata prospettiva del “fare genere” nelle/delle imprese rurali è possibile fare emergere ed enucleare alcune peculiari strategie attivate dalle imprenditrici, che definiscono una pro- duzione e ri-produzione di capitale culturale unica se si considera che “la maggior parte delle proprietà del capitale culturale può essere dedotta dal fatto che, nel suo stato fondamentale, è legato al corpo (e dunque al genere) e ne presuppone l’incarnazione (Bourdieu, 1986), ovvero quel processo di acquisizione e accumulazione implicato nell’ottenere conoscenze culturali che non possono essere dissociate dalla persona e dunque dal proprio genere.
A tale proposito la seppur poca letteratura esistente (Gusmeroli, 2014) ha già messo in luce quanto le carriere morali di genere siano declinate su stereotipi culturalmente incarnati nel costrutto femmi- nile, e in grado di attivare alcuni processi che consentirebbero una crescente visibilità delle donne nel fare impresa, soprattutto laddove questa si leghi all’utilizzo di particolari tratti di differenza: sensibilità, senso estetico, capacità comunicative, lavoro emotivo (emotion work; Hochschild, 1979).
Più specificamente, la disamina della crescente partecipazione femminile nei ruoli apicali di conduzione e gestione aziendale è stata tendenzialmente codificata, sul piano dell’immaginario simbolico, come un esito aggregato di scelte professionali ancora piuttosto inusuali, soprattutto per le giovani donne. Questa “eccentricità” spiega in larga misura l’interesse per il fenomeno, in una duplice declinazione: la più consueta tracciatura dei percorsi in accesso e in ascesa nelle imprese agricole “nonostante” la connotazione di genere e, viceversa, la narra- zione del successo imprenditoriale, spesso in forma aneddotica d’ec- cellenza, proprio “in ragione” del medesimo fattore di genere. Sotto quest’ultimo profilo, le rappresentazioni collettive sulle imprenditrici agricole (veicolate ad esempio dalla stampa di settore, dalla produzione di documentari ecc.) tendono ad assumere sempre più di frequente l’inu- sualità di questo connubio tra genere e carriera professionale in qualche misura quale carta vincente per il posizionamento dell’azienda in uno specifico mercato di nicchia, dove il portato semantico dell’“inusuale” è tradotto come affascinante, distintivo, perfino “esotico”, una vera e propria eccellenza rispetto alla norma: si pensi a titolo esemplificati- vo alla popolarità riscossa dal docufilm Le donne del vino (2011), su un’associazione che conta oggi 880 iscritte, 30 delle quali in Sardegna.
E se è vero che il genere conta, nel senso attributivo di un valore d’uso sul fronte delle strategie d’impresa, l’interpretazione sottesa a questo assunto ha teso a oscillare tra due estremi: uno essenzialista, laddove la vocazione alla cura di cose e persone – dal territorio, al cibo locale, alla responsabilità sociale d’impresa – varrebbe ancora e sempre come portato della carriera morale femminile anche quando la funzione “naturale” di caregiver in seno alla famiglia trasla nella gestione di un’azienda sul mercato contadino; uno performativo, nel senso assegnato alla costruzione sociale delle identità di genere da Judith Butler (1990), laddove una pervasiva retorica pubblica intorno alle donne imprenditrici nel settore agricolo, specialmente in Sardegna, tende ad attribuire un valore posizionale al fatto di essere donna, per ragioni non strettamente correlate alla competitività o alla performance economica in senso stretto, ma al fascino distintivo che la combinazione “donne più produzione più potere” eserciterebbe sotto due fronti: uno sub-culturalista, che evocherebbe per l’ennesima volta la mitopoiesi del matriarcato isolano per spiegare in modo pressoché inevitabile la ricom- posizione tra la figura della meri ‘e domu e quella del capo-azienda; l’altro abilmente strumentale, che corrisponderebbe in ultima analisi a meri scopi di marketing, poiché essere una donna imprenditrice “che ce l’ha fatta” nel settore agro-alimentare genererebbe attenzione e popolarità e
l’“esotico” fattore di genere produrrebbe una valutazione positiva utile come carta da giocare, non tanto per una forma di finzione artificiosa e fine a se stessa, ma quale adattamento strategico alle aspettative di una nicchia di crescente importanza nel mercato alimentare.