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Appendix C Texts used in study 5 Texts used in the first experiment

I. Geni, popoli e lingue

Nel mondo si parlano 5 mila lingue, che si sono evolute e differenziate nella storia, come fanno gli organismi viventi. Da qui l’interrogativo: è possibile che tutte queste lingue siano “figlie” di un unico linguaggio primordiale? Negli anni ’60 il genetista Luigi Luca Cavalli-Sforza, con Anthony Edwards e Alberto Piazza, cominciò a costruire una mappa mondiale delle frequenze dei gruppi sanguigni e di altre caratteristiche ereditarie come il colore della pelle (che però è influenzato anche dal clima, mentre i gruppi sanguigni no). Queste caratteristiche genetiche cambiavano gradualmente da un luogo all’altro: così si potevano ricostruire i movimenti migratori che, nella storia, avevano portato all’attuale distribuzione geografica delle popolazioni. Con risultati sorprendenti, poi confermati dagli studi successivi, per quanto riguarda il genoma umano. «Dal punto di vista genetico, l’intera umanità discende da un gruppo che circa 130 mila anni fa viveva in Africa centrale» spiega Alberto Piazza. «Poi, 80 - 90 mila anni fa, l’uomo cominciò a migrare a est, verso l’Indonesia e l’Australia» continua Piazza. «Quindi dal Medio Oriente, 40 mila anni fa, conquistò l’Asia centrale e l’Europa. In seguito partirono tre ondate migratorie dall’Asia all’America: la prima, degli Amerindi, avvenne 20-30 mila anni fa e conquistò tutto il continente fino a sud; poi ci fu un’ondata di popolazioni che parlavano lingue Na-Dene (nativo-americane) e infine di popolazioni che parlavano l’Eschimo-aleutino, che giunsero meno di 10 mila anni fa e si fermarono nelle aree più settentrionali». Questi studi hanno dimostrato che non ha senso parlare di “razze” umane. E hanno aperto la strada alla possibilità di studiare l’evoluzione della cultura e delle lingue, con l’idea che popoli e lingue evolvano insieme. Dunque esiste un unico linguaggio primordiale, dal quale derivano tutti gli altri? Ovviamente non lo sappiamo, perché le più antiche forme di scrittura risalgono a 5 mila anni fa. E, secondo alcuni linguisti, non ha senso spingersi oltre questo limite. Ma il metodo usato dall’équipe di Cavalli-Sforza per i gruppi sanguigni e i geni si può applicare anche alle lingue: basta definire una “distanza” tra lingue, basata sulla differenza nella radice lessicale di alcuni significati rappresentativi (per esempio “io”, “noi”, “testa”…). E poi si applica a questi “lessemi” (o anche ai “fonemi”, cioè ai suoni base della lingua parlata) il metodo dell’analisi genetica. Con quali risultati? «Si osservano correlazioni tra popolazioni e lingue» spiega Piazza, «anche se l’evoluzione delle une e delle altre non coincide sempre. Non è una sorpresa, perché i fattori evolutivi di geni e lingue sono simili: in ambo i casi sono trasmessi da una generazione all’altra e cambiano per mutazioni spesso casuali. Ma mentre le mutazioni genetiche sono lente, quelle linguistiche sono più veloci». Che cosa si può dire, dunque, dell’indoeuropeo? «Alcuni ritengono che fosse la lingua del

Neolitico, che dal Medio Oriente si è diffusa in Europa e verso l’India in seguito alla scoperta dell’agricoltura 10 mila anni fa» spiega Piazza. «Altri pensano che la lingua si sia diffusa da una regione di steppe tra il Mar Caspio e il Mar Nero, in seguito a un’altra importante innovazione tecnologica: la scoperta del trasporto su ruota 7 mila anni fa». Nei millenni successivi, l’indoeuropeo si è diffuso e differenziato in sanscrito, latino, celtico ecc.: tutte le lingue europee derivano da questo linguaggio, tranne alcune eccezioni come il basco, l’ungherese e il finlandese, forse testimonianza di popoli vissuti in Europa prima dell’invasione da est. Prima dell’indoeuropeo, alcuni linguisti ritengono che fosse esistita una lingua più antica, da loro chiamata “nostratico”, e, prima ancora forse, una “lingua madre” che avrebbe dato origine a tutte le lingue parlate dai nostri antenati prima di partire alla conquista di altri continenti. «Quest’ultima lingua potrebbe essere stata simile a quella che oggi parlano i San (boscimani) del deserto del Kalahari, in Africa» dice Piazza. «Tutte le evidenze genetiche confermano che i San sono tra le popolazioni più antiche».

II. Il computer

Nella nostra frenetica civiltà occidentale, l’informazione riveste un’importanza strategica. L’informazione è stata certamente importante anche in altre epoche storiche, contribuendo a determinare i rapporti di potere, ma mai come oggi la quantità e la velocità di diffusione delle informazioni hanno raggiunto questi livelli. Uno dei protagonisti di questo cambiamento epocale è il computer. Grazie all’affermazione, nei primi anni Ottanta, per merito dell’IBM, del personal computer, la luce azzurrina dei monitor ha invaso pressoché ogni ambiente abitato dall’uomo. Ai fini della diffusione e dell’elaborazione della conoscenza e delle informazioni soltanto l’invenzione della scrittura, prima, e della stampa, poi, hanno avuto nei secoli precedenti un impatto superiore. Il computer ha letteralmente rivoluzionato le nostre vite. Il tempo che vi trascorriamo davanti sta ampiamente superando, per molti di noi, il tempo trascorso davanti a uno schermo televisivo, fino a qualche anno fa ancora così seducente. Il computer non è soltanto utile, è divertente. Viene pienamente incontro alle nostre necessità ludiche, ci consente di sfidare in giochi avvincenti familiari e amici. Con lo sviluppo di Internet, tramite il computer abbiamo scambi interpersonali sempre più veloci e flessibili, con un recupero rassicurante e affascinante della parola scritta, della scrittura, che alcuni apocalittici volevano irrimediabilmente negletta. La Rete mette poi a disposizione di tutti, almeno di tutti gli abitanti dei paesi cosiddetti sviluppati, banche dati un tempo inaccessibili se non a una ristretta elite; favorisce la ricerca scientifica; contribuisce alla democratizzazione della nostra società, in quanto tutti hanno la possibilità di esprimersi in mille modi: chat, newsgroup, forum, siti personali, weblog, accesso spesso gratuito a giornali e riviste di ogni genere, posta elettronica, community di ogni tipo. Cittadini e istituzioni sono più vicini, gli scambi più

frequenti; il rapporto sta lentamente diventando bidirezionale. Rispetto alla televisione, il computer permette una cittadinanza attiva, ci rende protagonisti, in grado di modificare significativamente l’ambiente con cui entriamo in relazione. L’impatto del computer sul mondo economico, della produzione, è stato formidabile. Lo si usa, con profitto, nelle banche, negli ospedali, nelle fabbriche, nei complessi commerciali. La “new economy” non è ancora decollata, ma il calcolatore ha intanto modificato le nostre abitudini lavorative. Difficilmente chi oggi lavora, in qualsiasi ambito e a qualsiasi livello dell’organigramma, anche il più basso, può permettersi di evitare l’interazione col computer. Il ronzio dei processori è più diffuso ormai del rumore delle presse. Nella scuola stessa, dopo l’avvento del computer, ferve il dibattito su come cambiare l’educazione scolastica in seguito alla rivoluzione informatica. Cd-rom multimediali, ipertesti, persino videogiochi, stanno modificando il modo di apprendere di milioni di ragazzi. E di certo, il computer sta modificando il nostro modo stesso di pensare. E la nostra velocità e capacità di rispondere agli stimoli, a più stimoli diversi. I neurofisiologi saprebbero dimostrarci come alcune aree del cervello si stanno progressivamente modificando, in seguito alle nuove stimolazioni. Il computer inoltre ha probabilmente portato all’estremo alcuni sviluppi del razionalismo occidentale. Col computer la matematica è come scesa fra noi, nella realtà concreta della nostra vita, come non mai. E non è un caso se, dopo l’abaco greco, le prime macchine calcolatrici sono state messe a punto da filosofi-scienziati come Pascal e Leibniz. Non nascondo il mio entusiasmo futurista per il calcolatore. Forse eccessivamente unilaterale. Sarebbe senz’altro un atteggiamento più saggio e prudente quello di difendersi un po’ da questa “hybris” del computer. Stimare maggiormente i pericoli della rivoluzione informatica. I cultori delle cosiddette scienze umane già paventano l’avvento di uomini dimidiati, tutti raziocinio e con la parte emotiva rimossa, atrofizzata, e quindi pericolosa. Paventano alienazioni, solitudini, perdite di contatto con la realtà, dipendenze, schizofrenie, ossessioni. Difficilmente l’uomo del futuro potrà affidarsi soltanto alla razionalità. Già adesso i software denominati “sistemi esperti” si sono rivelati non in grado di risolvere problemi complessi, di prendere decisioni efficaci, che esulino da un ristretto campo specialistico. In molti settori, in molte discipline, l’uomo deve rinforzare, semmai, il pensiero narrativo, ancora così importante per dare un senso alla nostra umana esistenza e per padroneggiare la realtà nella sua totalità. E poi una razionalità algida, priva di emozioni, non è certo il futuro felice, che tutti ci auguriamo.

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