Tra le tante emergenze di una metropoli, la fame è una delle più elusive. La questione di un tetto sopra la testa, nella sua priorità, ha un aspetto tracciabile: se dormi ogni sera su una panchina, evidentemente ti manca una casa; e per vedere persone sulle panchine di notte, ahimè, basta fare due passi per Milano.
Ma la fame? Come individuarla, in assenza di forme immediatamente visibili quali le immagini di una carestia in un paese povero?
Rispetto alla questione dell’alloggio, così dibattuta in questi giorni, la malnutrizione può apparire un tema molto remoto, quasi ottocentesco. A Milano si muore di freddo, ma non di fame. Eppure l’intero discorso del cibo è tutt’altro che marginale, e allo stesso tempo attraversato da livelli diversi di complessità.
C’è la fame radicale di chi non ha quasi nulla; c’è quella di chi ha qualcosa, ma non è abbastanza oppure passa uno o due giorni senza nulla nello stomaco; c’è la fame dei pensionati che arrivano a fine mese senza soldi e si recano alle file di distribuzione degli alimenti. C’è la fame di chi va dal panettiere per avere qualcosa in regalo, e quella di chi prende gli avanzi del mercato di quartiere. Ma c’è anche la fame di chi riesce a saziarsi con diete ripetitive e di scarsa qualità – i figli delle famiglie più povere, per esempio – alimentando così l’ulteriore problema della fame nascosta, la sottonutrizione dovuta a carenza di vitamine e minerali.
Il problema del cibo si inserisce quindi in un più vasto problema di difficoltà economiche e sociali che attraversa Milano come tutta l’Italia: ma in un certo senso, Milano è una buona metonimia dell’Italia – oltre che la sua città più europea e moderna, almeno all’apparenza. Qui si può mangiare qualsiasi cosa, ovunque e più o meno a ogni ora: la retorica della cucina, così importante nel nostro paese, non tradisce. Ma la quantità e la varietà del cibo disponibile (e sprecato, continuamente sprecato) creano un evidente contrasto se pensiamo a chi non ha accesso nemmeno a quanto serve per saziarsi in maniera dignitosa.
Se ci pensiamo, certo. E più ancora: se siamo in grado di pensarci correttamente.
Quante sono infatti queste persone? Chi le aiuta a sopravvivere? Quali sono le loro speranze per il futuro? La realtà sta peggiorando o migliorando? Conoscere la vera situazione della fame nella città che sta per ospitare un’Esposizione universale dal titolo “Nutrire il pianeta” (il
cui comitato scientifico si propone, tra l’altro, di “ridurre la povertà e la fame e attenuare le
disparità sociali nel mondo”) appare ancora più urgente e necessario. Soprattutto se si desidera fare un discorso laico sul tema, al di là degli slogan entusiastici e delle narrazioni pacificate che stanno accompagnando il maxievento.
2. I numeri della malnutrizione
Cominciamo con qualche dato. Secondo una stima di Redattore sociale, che considera solo gli enti principali della città, i pasti serviti nelle mense per i poveri a Milano superano i due milioni all’anno. Senza contare appunto gli altri centri di accoglienza o le associazioni che distribuiscono pacchi di cibo a chi sta per strada. Una cifra notevole, ma che va ulteriormente raffinata: il numero di pasti erogati non copre con esattezza il numero di persone che li ricevono (alcuni fanno dei bis) né l’insieme totale di chi ha problemi a nutrirsi (ci sono persone che non frequentano le mense per vergogna o per mancanza di informazioni al riguardo). Dal punto di vista demografico, l’ultimo rapporto sulle povertà nella diocesi di Milano a cura della Caritas ambrosiana evidenzia il continuo aumento degli italiani richiedenti aiuto – aumentati di circa il 23 per cento dal 2008 al 2013 – e la concentrazione dei rischi di indigenza nella fascia anagrafica dai 55 ai 65 anni. L’aumento di anziani di origine italiana con problemi a mettere insieme il pranzo con la cena è una realtà ampiamente verificata in tutte le strutture dove mi sono recato.
Allargando un po’ lo sguardo, infine, anche il Rapporto sulla crisi economica in Europa della Croce rossa (ben sintetizzato da Vita) genera preoccupazioni simili. Nel continente ci sono 43 milioni di persone con insufficienti risorse alimentari, con un incremento del 75 per cento per quanto riguarda le distribuzioni di derrate alimentari da parte della sola associazione dal 2008 al 2012. Che solo a Milano, nel dettaglio, assiste circa 50mila persone.
3. Mense e centri diurni
Come mappare, dunque, la fame in una città? Il modo più ovvio è cominciare dalle mense per i poveri e i centri di aiuto diurno. Le più attrezzate e famose a Milano sono l’Opera san Francesco e l’Opera cardinal Ferrari. Anche solo passare di fronte alle loro sedi attorno a mezzogiorno è utile per comprendere la situazione: un esercizio che consiglierei a qualsiasi milanese.
Il contrasto con la zona centrale dove ha sede l’Opera san Francesco è particolarmente rappresentativo. Il viale alberato di corso Concordia con i suoi marciapiedi ampi e l’apertura luminosa verso corso Indipendenza: i bei palazzi borghesi, i sushi bar, i locali della circonvallazione interna a due passi. E poi i capannelli di persone che attendono l’apertura della mensa, escono con i capelli umidi dalla sala delle docce, o si affacciano nella vicina via Kramer per recarsi alla prima accoglienza dell’Opera. Sono spesso divisi per nazionalità o lingua; si raggruppano fumando e chiacchierando a bassa voce; qualcuno, isolato, siede sul bordo di un’aiuola con la testa fra le mani.
“La maggior parte della nostra utenza è composta dai giovani”, mi spiega l’addetta stampa Marina Nava: “La fascia più ampia è quella fra i 30 e 40 anni, comprensiva di molti stranieri. Un momento particolarmente difficile è stato il grande afflusso di eritrei in fuga durante l’estate 2014; soprattutto per la presenza di molti bambini, per i quali non siamo attrezzati in modo specifico. In ogni caso il centro ha retto la prova”.
Sfoglio il bilancio sociale dell’associazione per avere i dati esatti: dall’inizio della crisi (2008) l’incremento di italiani è stato pari al 61 per cento, e due terzi circa hanno più di 45 anni; è ormai la seconda nazionalità che frequenta l’Opera. Per citare direttamente il documento, “sembra crescere in modo preoccupante una fascia della popolazione non ancora in povertà estrema ma che sta vivendo una situazione d’incertezza o di debolezza economica, sociale, famigliare”.
Come funziona dunque l’Opera san Francesco? Semplice. Ci si presenta allo sportello d’accoglienza, e per essere ammessi al colloquio è sufficiente presentare un documento – l’unica cosa che viene chiesta, sottolinea Marina: “Di certo non chiediamo il permesso di soggiorno, ci è sufficiente identificare la persona”.
Dopo avere dichiarato il proprio bisogno, si riceve una tessera valida tre mesi che dà diritto a due pasti al giorno negli orari previsti, una doccia alla settimana più un cambio di biancheria intima nuova, e un cambio d’abiti al mese. Il tesseramento (una pratica abituale per tutte queste realtà) può sembrare una barriera ulteriore, ma è indispensabile per evitare i raggiri e garantire un’equa distribuzione delle risorse.
Tutti i servizi dispensati sono registrati per via informatica, persona per persona. Un aspetto di controllo che può risultare a sua volta un po’ rigido, ma che invece è necessario per non creare una disparità di trattamento, e combattere il possesso di prodotti extra che poi sono rivenduti sottraendoli a chi ne ha bisogno.
Dopo tre mesi si è convocati per un nuovo colloquio di verifica della situazione. L’Opera san Francesco, in effetti, è più che altro un ente di prima accoglienza – dunque si concentra su chi ha bisogno urgente, dando strumenti immediati per orientarsi – ma guarda anche al futuro e cerca di trovare nuove prospettive, un reinserimento nella società. “Purtroppo”, aggiunge Marina, “dal 2008 si sono viste tornare alcune persone che da tempo non usufruivano più dei nostri aiuti; ma con le difficoltà recenti hanno perso quel minimo equilibrio che avevano acquisito”.
Dall’anno della fondazione (il 1959) l’Opera san Francesco si è evoluta da mensa per i poveri a erogatrice di servizi che vanno dalle visite mediche – comprensive di un servizio di psicologia e psichiatria – all’igiene e all’housing sociale, fino alla distribuzione dei farmaci (disponibile anche per italiani, che hanno la copertura del servizio sanitario, ma non i soldi per comprare i prodotti).
La mensa rimane comunque il centro dell’attività: è un locale ampio e pulito, con circa 180 coperti, che funziona con modalità self service: si entra, si convalida la tessera, e si prende da mangiare al banco per poi sedersi.
È importante ricordare che nella sala mensa convivono anche persone con religioni o usanze molto diverse; in tal senso la presenza di un frate a volte fa da elemento tranquillizzante, quando – in realtà di rado – nascono delle tensioni. Gestire così tante culture e così tante lingue non è sempre facile. La fame, però, parla sempre alla stessa maniera.
Prima di salutarci, Marina fa un’osservazione che mi colpisce molto per il suo pragmatismo: “Noi riusciamo a fare ciò che facciamo perché facciamo una carità organizzata – un’espressione che fa molto marketing, molto prosaico, me ne rendo conto. Ma è indispensabile”. Per far fronte a un problema così pressante, occorre organizzare le risorse con la massima attenzione. E un dato interessante che emerge scorrendo il loro bilancio sociale per il 2013 è il calcolo del contributo reale – il plusvalore etico, diciamo così – creato dai volontari: per ogni euro donato, circa 2,53 euro sono restituiti ai poveri in forma di aiuto. Dicevo del contrasto tra la zona borghese e la presenza dell’Opera: nel tempo ci sono state anche molte lamentele dei residenti della zona per la grande quantità di poveri. Marina commenta con equilibrio: “Noi paghiamo dei servizi extra per tenere pulito ogni giorno; anche i residenti hanno diritto a un certo decoro – e quando tanta gente in difficoltà si ammassa, è inevitabile un certo degrado”.
Ma dalla necessità di mantenere un minimo d’ordine all’ipocrisia di chi considera la povertà un problema da risolvere allontanando i poveri c’è un abisso etico (a tal riguardo, particolarmente odiosa fu la decisione della giunta Moratti di levare gran parte delle panchine per impedire alle persone di dormirci).
L’argomento è amaro, ma va comunque affrontato con lucidità: se si vuole comprendere fino in fondo i termini del problema e non fare candide analisi da scrivania, occorre disporsi a una nuova esperienza del corpo.
Al corpo sazio e normale che diamo per scontato di vivere si oppongono dei corpi puzzolenti, sporchi, stravolti, ammalati, depressi, a volte tormentati da seri problemi psichiatrici: corpi che il cittadino comune teme e si preoccupa di scansare. Ma corpi che restano corpi esattamente come i nostri. E ci vuole molto cinismo – un’intera inversione dei termini del problema – per pensare a essi come a una questione di decenza urbana. C’è qualcosa di oscuramente calvinista, in questa reazione: l’idea inestirpabile che di fondo il povero sia colpevole.
Giulio Carloni, responsabile della comunicazione dell’Opera cardinal Ferrari, me l’ha riassunto con chiarezza: “I condòmini del palazzo accanto spesso fanno una piccola circumnavigazione per evitare i carissimi che stanno qui fuori. Perché sono poveri, perché magari odorano di vino, perché fanno paura. Ma sono soltanto persone. E, o decidiamo che esiste un certo tipo
di eutanasia sociale per cui chi ha avuto sfortuna nella vita va eliminato (quantomeno dal nostro orizzonte di pensiero) oppure di queste persone bisogna prendersi cura”.
E veniamo appunto all’Opera cardinal Ferrari, che ha sede in via Boeri – una zona tranquilla a sud della circonvallazione esterna, al riparo dal traffico, con un bel parco che corre lungo la strada.
Il numero di assistiti qui è più contenuto. I numeri del 2014 registrano duecento utenti quotidiani della mensa (per un totale di 66mila pasti caldi all’anno), e 132 utenti dei pacchi viveri forniti a scadenze fisse. C’è anche una differenza anagrafica: la maggioranza dei “carissimi” – come sono chiamati, senza prosopopea e con molta convinzione, i fruitori dei servizi – ha più di 60 anni; molti non hanno un reddito fisso e una buona percentuale nemmeno la dimora.
La quantità minore di persone assistite consente di lavorare con dei programmi di recupero più profilati: il colloquio iniziale mira proprio a trovare delle azioni su misura.
Giulio Carloni mi accompagna per la struttura: la sala riposo, il piccolo giardino con un campo da bocce, le lavanderie – un’altra cosa che diamo per scontata: la possibilità di lavarsi i panni – e la biblioteca, dove vengono organizzati anche corsi di italiano e informatica.
Mentre il responsabile della sala (anch’egli un “carissimo”) chiacchiera con noi, un signore nero dall’aria patita lo saluta e chiede di fissare un appuntamento. Quando si allontana, Giulio mi svela che è un ingegnere nucleare cubano: ha lavorato ovunque nel mondo, era un uomo di talento e di successo, e poi le vicissitudini l’hanno portato qui. Resto in silenzio, ma è solo un segno della mia ignoranza: “Il luogo comune che associa il povero con il bruto o la persona senza risorse intellettuali”, spiega Giulio, “è privo di fondamento, e lo è quanto mai ora. Alcuni carissimi, come questo ingegnere, non provengono da situazioni di precarietà assoluta, bensì da vite tranquille o benestanti. Basta poco”.
Basta poco. Restiamo un po’ all’aperto a chiacchierare: è una bella giornata di sole e un gruppetto di uomini sta terminando con la solita eccitazione una partita a bocce: “Vai di punto, piano!”. “Ma che piano e piano! Fammi bocciare!”. Poi Giulio dà un’occhiata all’orologio: quasi mezzogiorno, è ora di sbrigarsi e fare un giro in mensa prima che siano distribuiti i pasti. La cuoca Laura mi mostra la cucina, divisa rigorosamente in settori (immagazzinamento, preparazione degli alimenti, cottura, distribuzione) per garantire il massimo dell’igiene. “Scrivi che qui sono poveri, ma sono trattati da signori”, mi dice; e aggiunge che è sua cura anche prevedere i bisogni alimentari legati alla religione. “Se un giorno cucino maiale, dovrà esserci per forza anche dell’altro per chi è musulmano”. Un altro modo per pensare al cibo non come semplice fattore nutritivo, ma come condensato di culture. Può sembrare secondario, quando si ha lo stomaco vuoto: ma non lo è.
Nel frattempo all’ingresso si è già creata una lunga fila. I carissimi vengono fatti entrare con ordine, e come all’Opera san Francesco viene verificato il possesso della tessera. Altri però
hanno dei biglietti: sono persone non stabilmente prese in cura, e che si limitano a un pasto ogni tanto, perché un pasto non si nega a nessuno. Inoltre, qui i piatti vengono serviti direttamente dai volontari – con guanti di plastica d’ordinanza.
Prima di salutarci, chiedo a Giulio i dettagli sulle modalità con cui sono reperiti i fondi per gestire l’Opera. Risposta: in questo caso, come per la san Francesco, ci si affida quasi per intero alle donazioni private. “Il comune copre all’incirca il 4 per cento dei nostri bisogni. Poi ci sono i fondi per progetti specifici, stanziati di volta in volta da enti e fondazioni. Paradossalmente è più facile trovare il denaro per tirare su un muro – progetto una tantum come un altro – invece che per il sostentamento regolare di un essere umano. Perché è dato per scontato”, sorride con amarezza.
Anche per questo Giulio, proprio come Marina, sottolinea la necessità di un rinnovato pragmatismo; in particolare, di un più attento lavoro sulla comunicazione. La carità va gestita in modo altamente razionale, quasi aziendale, proprio perché non può mai essere data per scontata. Una donazione è sempre gratuita, e tale deve rimanere: “Ma nulla ci vieta di sviluppare una sorta di educazione al dono”, chiosa Giulio. Far conoscere meglio il problema nelle sue sfaccettature, e coordinare ogni tipo di risorsa. Trasformare la moneta che cade nel bicchiere del mendicante in un processo più ramificato e concreto.
4. In fila per il cibo
Fratello… nessuno qui ti domanderà chi sei, né perché hai bisogno, né quali sono le tue opinioni. Il motto è rimasto identico dal 1898, quando la Società del pane quotidiano fu fondata per soccorrere i bisognosi della città, durante i tumulti di fine secolo. E oggi come allora, un altro modo per toccare con mano la fame di Milano è recarsi alle code per gli alimenti.
Vado dunque alla sede di viale Liguria una mattina di fine gennaio, sotto una pioggerella sottile: l’arco a sud della circonvallazione esterna, solcato dai bus 90 e 91 che si danno il cambio in verso opposto; il traffico nervoso di un giovedì mattina.
In due lunghe file sul marciapiede ci sono anziani italiani, qualche donna sudamericana, un signore nero ha una copia di Metro sulla testa per coprirsi. Qualcuno ha un carrellino, quasi tutti una borsa. Cappotti sdruciti, giacche a vento di seconda mano, cappelli di pile con copriorecchie, zainetti, pantaloni sformati. A quest’ora la priorità è per le persone avanti con gli anni; dalle nove e mezza invece tocca ai più giovani.
Il presidente Pier Maria Ferrario mi accompagna a fare un giro per i locali dell’associazione – la più grande tra le laiche a Milano. “Oggi piove, quindi c’è meno gente del solito”, mi accoglie. A me sembra già parecchia. Lui sorride: “Guardi, io frequento questo posto da più di trent’anni. E quando ho cominciato a venire qui c’erano ottanta o cento persone al giorno da sfamare – e non avevamo la seconda sede in viale Monza. Questo ci permetteva di cavarcela con trenta o quarantamila lire a testa per tutta una settimana. Oggi sarebbe impossibile. Il fatto è che Pane quotidiano ci è davvero scoppiato in mano”, si schermisce. “Negli ultimi anni siamo
passati da centocinquantamila assistiti all’anno a ottocentomila e più: questo ci ha costretto a riorganizzare l’associazione in una forma quasi aziendale. Benché il lavoro qui sia svolto quasi per intero da volontari, soprattutto pensionati o persone senza impiego”.
Oltre alla drammatica impennata numerica anche Ferrario ha osservato un mutamento demografico nella composizione dei bisognosi. Ancora una volta, colpisce l’incremento di anziani in difficoltà.
Un volontario ci interrompe chiedendo aiuto: “C’è la moglie di Antonio, poi quella egiziana che salta la fila come al solito”. “E lei gli dica che non devono farlo, che la fila si rispetta”. “Eh, ma così sembro il cattivo!”. “Gli dica che gliel’ho detto io”. Ferrario mi fissa sconsolato, sospira: c’è sempre qualcuno che entra dal dietro, vuole essere servito prima. “Io li capisco, han tutti bisogno e sono nervosi, però dobbiamo mantenere un po’ di regole”.
Facciamo un giro. L’attività è frenetica: da un camion tre persone scaricano pacchi e carrelli, mentre nel retro c’è chi taglia una torta a fette, chi smista una derrata di abiti, chi mette in ordine file di sacchetti di noccioline tritate. Le merci vengono donate da aziende con le quali si è stretto un accordo; e naturalmente non è un meccanismo banale, vista la quantità sempre più pressante di richieste da gestire.
“Non solo”, ragiona Ferrario. “C’è anche molta gente che specula sulla solidarietà. E non le dico le offerte di ogni genere che ho ricevuto per fare politica, e sempre per il solito discorso – potere. Avere e guadagnare potere”.
“La parola più brutta del vocabolario”, dico.
“Già. Invece questa è un’associazione dove il potere non dovrebbe esistere. Né la volontà di mettersi in mostra”.
Ai cancelli di Pane quotidiano può venire chiunque – nessuno qui ti domanderà chi sei – e chiunque ha diritto a ricevere quello che l’associazione può fornire, di volta in volta: pane, certo, ma anche yogurt, latte, polenta, vestiti, dolci, sughi, carne in scatola, verdura, formaggio, frutta… Chiedo se ci sia spesso gente che se ne approfitta, e si fa una spesa gratis anche se non ne ha davvero bisogno. Ferrario alza le spalle: “Se lei adesso si mette in fila, anche lei prenderà quel che c’è. E quindi ci frega. Ma noi non mettiamo barriere”.
Usciamo a dare un’occhiata alle celle frigorifere e a quello che il presidente chiama scherzosamente il suq: il grande magazzino dove sono affastellate le derrate di alimenti. Molti