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Gesto e linguaggio, la soluzione paradossale di Jes

Nel documento La macchina mitologica di Furio Jesi (pagine 54-100)

“ La genesi della realtà linguistica determinata dal flusso mitico è caratterizzata da un fenomeno di reminiscenza e quindi di rapporto con il passato, giacché il flusso del mito costituisce l'affiorare di un passato tanto remoto da poter essere identificato con un eterno presente, e tale flusso determina l'affiorare di immagini scelte fra quelle che costituiscono il passato latente nella psiche. “ 7

L’interazione mitologemica, l’innesco dell’ora ricettico-creativo è la coniugazione linguistica con un passato remoto che compone il corpus delle tradizioni umane. Il flusso mitico sgorga da remoti anfratti della storia degli uomini e giunge

                                                                                                               

7  Furio Jesi, Letteratura e mito, edizione piccola biblioteca Einaudi, Torino 2010,

nella sua traslitterazione all’oggi presente, ricomponendosi in un nuovo pieno di attualità. Il congegno jesiano, la macchina mitologica è il luogo in cui il rabdomante individua la possibilità del riaffiorare di un bacino sotterraneo colmo di storia. In che senso, perché si adottano termini come tradizione, storia, dobbiamo riportare alla memoria ciò che abbiamo determinato in precedenza, definendo il mito, mito dell’uomo, insieme confuso di narrazioni sull’uomo. Di conseguenza l’attitudine mitologica, caratteristica propria dell’uomo moderno, impossibilitato dalla stratificazione irreversibile di un tempo lineare e storicizzante, è la possibilità di rinarrare i materiali mitologici non nella loro pura forma originaria, bensì nella loro nuova forma di storia odierna. Le storie non appartengono mai al passato, anche se parlano del passato, il fatto che siano rinarrate le vivifica rigenerandole in una forma linguistica attuale. Jesi parla di “ genesi della realtà linguistica determinata dal flusso mitico “; l’attività mitologemica, è propriamente un’attività linguistica, il riattivare non il mito, fantasma silente, ma la mitologia, corpus dinamico di materiali residuati di mito. Il linguaggio mitologico, determina la

vicinanza/lontananza, la possibilità di riattivare forze passate nella loro determinazione di novità; il linguaggio si fa ponte e barriera, atto recettivo ma indissolubilmente creativo. Ricezione e creazione si attuano all’unisono, in senso armonico. Conoscenza e creazione sono strette nel medesimo inscindibile abbraccio, il linguaggio ne è l’amalgama, elemento di separazione/congiunzione. Il linguaggio compone la nostra armatura, ciò che ci permette di ridestare un passato latente in un presente attuale, proteggendoci dalle insidie di tale attività mitologica, mantiene l’io nella sua forma incapsulata di residuo, concedendogli di camminare sulle scorie mitologiche che lo attraggono. L’attività narrativa deve insomma fare i conti con il rischio sempre in agguato di incorrere nell’ideologizzazione del passato come elemento fondante e distorsivo dell’oggi che si fa specchio dei primordi. In questo risiede la tecnicizzazione del mito, il dare validità all’invisibile come elemento fondante della realtà. Si comprende quindi la lucida necessità dello scienziato torinese di creare i parametri di un‘etica della narrazione. Jesi scrive: “ la mitologia é sempre mitologia di un potere ”, la narrazione mitologica sotto l’egida

della volontaria tecnicizzazione si trasforma in ideologia, in mito del potere, potere consacrato dal mito. L’utilizzo del mito che permane nella sua forma intatta fondando il presente e il futuro estrinseca la violenza e la bramosia di dominio. La genuina connessione mitologica si fonda dunque su questo simultaneo processo conoscitivo/narrativo, si estrinseca nella durata di un eterno presente. I materiali mitologici si presentano nella loro “ disponibilità di occasioni poetiche “, ammucchiati nel formare la tradizione culturale di un’umanità al di là dei confini storici e geografici dell’uomo. Il mito rimane parola seriamente impronunciabile, una sorta di assenzio che annebbia e annichilisce la nostra coscienza scientifica. Jesi nel suo percorso si è proposto vivamente di tenersi alla larga da atteggiamenti teologici o mistici nei riguardi della materia mitica, tentando con caparbietà di definire i parametri, i limiti entro i quali un approccio scientifico alla mitologia possa sussistere. Ha sposato l’accezione di mito come mito dell’uomo, insieme delle tradizioni dell’uomo, l’attività mitologica come affaccio su tali tradizioni nella loro frammentarietà, tenendo ben salde le gambe sotto la scrivania del tempo presente. Jesi

colloca i confini della propria ricerca entro la storia dell’uomo, costruisce con vigore una barriera che pone lo sguardo dell’uomo al suo interno e non verso un orizzonte metafisico extraumano. La necessità di resistenza nei confronti del puro irrazionale, l’impossessarsi della possibilità di divenir lettore/scrittore della propria esistenza immergendosi nel fluire magmatico del divenire umano sono i propositi del nostro autore. Il congegno, la macchina mitologica diviene lo strumento nel quale si innesca il meccanismo mitologico, al corrente dell’illusorietà, o meglio della totale impossibilità di afferrare il mito, il genuino mitologo calatosi nella camera d’acciaio della macchina si pone nella giusta dimensione di lontananza/vicinanza nei rispetti delle scorie mitiche. Jesi scrive nel suo Esoterismo e linguaggio mitologico:

“ Rifuggire da ogni definizione del mito non significa, nell'ambito del mio lavoro, abbandonarsi con deliberata cecità, o magari con appassionata cecità, al godimento di presunte esperienze mitiche personali (o personali-collettive: dall'esperienza mitica personale alla

realtà mitica collettiva), dalle quali ogni velleità definitoria produrrebbe un risveglio. Significa invece ritenere che quanto di estremamente sfuggente si presenta nella storia della cultura sotto il nome di mito non costituisce un oggetto definibile con strumenti scientifici, e non dispone di una realtà che possa essere detta esistente o non esistente, a meno che non si voglia trasferire il discorso dal piano della scienza a quello della mistica o della teologia - cosa che non sono disposto a fare, non possedendo e non volendo possedere alcuna fede, convinzione o esperienza di carattere religioso. Resta tuttavia il fatto che la scienza della mitologia ha a che fare con persone e culture le quali ebbero, o credettero di avere (e si può usare anche il tempo presente) esperienze mitiche, ebbero o hanno fede o percezione nei confronti del mito, e non solo - ovviamente - in termini di fede in un x di cui non si può dire scientificamente se esiste o non esiste, ma in termini che esulano completamente dai nostri scrupoli scientifici, dai nostri obbligati rigori gnoseologici ed epistemologici, in termini che non trovano il minimo riscontro nella nostra alternativa "c'è o non c'è?", nel linguaggio stesso con cui è formulata, nel quadro culturale che la sorregge. Se la mia diffidenza verso le definizioni scientifiche di quel quid extrascientifico che, a mio parere, può stare sotto la parola

mito deriva dalla necessità di "non ipostatizzare", la mia tendenza a porre in rapporto dialettico lo "spiegare" e l' "accettare" i materiali mitologici senza né spiegarli né accettarli deriva dalla convinzione della mia impossibilità di identificarmi con chi ebbe e ha esperienze mitiche, o crede di averle. È una tendenza che praticamente si esplica nel far intrecciare il dialogo, sulle mie pagine, tra "spiegare" e "accettare", e che teoreticamente si fonda sulla necessità di elaborare il metodo gnoseologico meno coraggioso possibile “8.

Il nostro autore in questo stralcio del capitolo Scienza del mito e critica letteraria, ci riporta all’ordine, delinea in maniera inequivocabile il suo programma intellettuale, sostenendo di non voler allontanarsi dal laboratorio della scienza mitologica per abbandonarsi ciecamente ad atteggiamenti mistici o teologici. Uno dei nodi centrali delle sue affermazioni risiede nella possibilità o meno di esperire il mito, di avere esperienze mitiche, di innescare un rapporto religioso fideistico nei

                                                                                                               

confronti del mito; egli afferma senza remore di sentirsi assolutamente impossibilitato ad identificarsi “ con chi ebbe e ha esperienze mitiche, o crede di averle ”. La necessità fondamentale del pensiero jesiano era quella di “ elaborare il metodo gnoseologico meno coraggioso possibile “, di non arrendersi alle tentazioni di congiunzione empatica con l’invisibile, rinunciare all’ipostatizzazione di ciò che non c’è in favore di un genuino moto dialettico con i residui, testimonianza alterata di un passato latente. Siamo nella storia.

L’attitudine ermeneutica si sovrappone in trasparenza all’attitudine mitologica, i due elementi fusi compongono in reazione il combustibile che aziona la macchina mitologica. In questo moto ermeneutico ricezione e creazione si attuano in sincrono, la durata è l’elemento cardine del tempo nella camera d’acciaio del congegno mitologico, in altre parole il tempo si estende in lunghezza permettendo una lettura/scrittura simultanea e finita. Jesi non accetta la definizione di archetipo utilizzata in psicanalisi da Jung e messa in atto nel discorso mitologico da Eliade e dallo stesso Kerényi; egli rifiuta l’accezione di mitologia o ancor peggio di mito come elemento fondante, paradigma della realtà. Piuttosto vede nell’attività mitologica la possibilità di interloquire con se stessi nell’esperienza di sé che si pone in rapporto al passato, alla tradizione per comprendere il presente, senza alcuna ambizione profetica nei confronti del futuro. Rifiuta l’archetipo in quanto immagine primordiale intatta e pura, con la quale mimetizzarsi ricongiungendo l’ora presente agli albori della civiltà, pronunciando le immagini-racconto, immergendosi nell’estasi senza tempo, in un istante di assolutezza come Pavese

sosteneva. L'« eterno ritorno » al vincolo originario nella forma di una poetica dell’estasi, si espletava nella ricerca di fondamento al di fuori dei confini della contingenza storica, affacciandosi nei bui territori della morte. Jesi vuol restare saldamente all’interno della tradizione, però ben lontano dall’accezione di tradizione che Gershom Scholem utilizza per descrivere la Qabbalah, l’insieme delle tradizioni mistiche dell’ebraismo. La definizione paradossale sholemiana dipinge come corpus stabile di narrazioni, di memorie umane, l’insieme di rituali misterici miranti a dare senso alla storia. Scrive Sholem riguardo ai fondamenti della mistica ebraica:

“ E’ una precisa esperienza fondamentale del proprio essere, che si pone in contatto immediato con Dio o con la realtà metafisica, e determina l'atteggiamento del mistico. Che cosa poi veramente sia l'essenza di questo rapporto immediato, e come lo si possa descrivere adeguatamente, è il grande enigma intorno al quale si sono arrovellati

gli autori che hanno scritto della mistica, non meno dei mistici stessi. […] Quale immediata relazione può quindi esservi tra il Creatore e la creatura, tra il finito e l'infinito, e come può il linguaggio esprimere un'esperienza per la quale nel mondo - dal quale esso linguaggio deriva - non vi è alcuna similitudine adeguata? […] la realtà religiosa dei mistici per la conoscenza razionale può essere espressa solo per mezzo di paradossi ”.9

Abbiamo utilizzato questo breve excursus sholemiano per rafforzare, per chiarire la posizione del nostro autore, scolpendo in maniera netta il suo impianto scientifico. L’accezione paradossale di tradizione adottata da Sholem mostra come nell’ambito della mistica, e potremmo dire, riportandolo al nostro contesto specifico, dell’affaccio mistico al mito, sia fondamentale l’immediatezza di un rapporto tra sé e l’invisibile, esperienza celata nel paradosso del mistero

                                                                                                               

9  Gershom Sholem,  Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi tascabili

inesplicabile; siamo costretti ad accettare, a credere nella possibilità di afferrare l’invisibile, ciò che sta al di là della volta storica, quello che per noi, con il nostro autore, ci è noto come ciò che non c’è. Risulta più chiaro forse, dopo aver utilizzato le parole di Sholem, avendole fatte regredire nella loro forma al negativo, l’atteggiamento strettamente gnoseologico di Jesi, il quale lo porta a rifiutare i concetti di immediatezza, di origine, di archetipo ecc.. Per Jesi la tradizione determina la possibilità di trasmettere nella durata temporale la memoria di eventi sociali e storici, di scoprire l’uomo dal suo interno, senza la pretesa di giungere a verità assolute, ma con l’intento di dare senso a sé nel confondersi della narrazione sul passato, abbracciando il dinamismo e la transitorietà di materiali mitologici rimodellabili. Ciò che esula dai confini epistemologici del nostro autore è la ricerca di un’immagine stabile ed immutabile che potremmo definire senza esagerare un idolo. Si mostra con chiarezza che un atteggiamento mistico nei confronti del mito si inserisce nell’ambito della religio mortis. Il contemplare le immagini racconto, immagini di morte nel tentativo di appropriarsi di un istante di perfezione immutata

allontana il discorso mitologico dai parametri scientifici determinati da jesi. Il linguaggio, inteso nella virtù della proprietà linguistica in se determina il nostro contesto storico- culturale, l’attualità della nostra presenza cosciente. L’interno della macchina mitologica rappresenta la frontiera ultima, il sottile confine tra questo e quell’altro mondo, diviene una sorta di intercapedine che determina al contempo la separazione ma anche la distanza/vicinanza dei due mondi. Scrive Jesi nel suo Esoterismo e linguaggio mitologico:

“ Il fatto che l'operazione volitiva non sia eliminabile, deriva dal margine di non-coincidenza che esiste sempre fra "tempo del segreto" e "tempo della storia". Il "tempo del segreto" non coincide mai interamente con il "tempo della storia", e le possibili spiegazioni di questa non-coincidenza costituiscono uno dei principali confini dottrinali del fatto esoterico: esse circoscrivono, come un orlo, il fatto

esoterico, e ne sono la variabile superficiale più esposta all'osservazione esterna “10.

Jesi prendendo in esame l’attività artistica di Rainer Maria Rilke, si immerge nello studio della componente esoterica del poeta, mettendone in rilievo le dinamiche ricettivo-creative. Lo studio jesiano mette appunto innanzitutto la distinzione tra misticismo ed esoterismo, ponendo attenzione particolare alla componente volitiva. La volontà, nella sua forma residua di scoria è ciò che determina l’atteggiamento esoterico, nel quale l’individuo postosi nella dimensione rilkiana di “ strumento cieco e puro “ mantiene saldo il privilegio della propria volontà nell’essere eletto come partecipe del segreto. In altre parole, l’atteggiamento di partecipazione di Rilke al segreto avviene non nell’assoluto oblio della propria volontà personale, in quell’immediatezza descrittaci da Sholem, ma conservandone i residui come parte stessa del privilegio. Come ci suggeriscono

                                                                                                               

le righe sopra citate, la non-coincidenza fra " tempo del segreto " e " tempo della storia " determina l’ineluttabilità della componente volitiva, che definisce la permanenza del soggetto che interloquisce consapevolmente col segreto. La scoria volitiva diviene elemento insopprimibile e privilegiato, consapevolezza del poeta che canta secondo la propria ineluttabile volontà nella forma flagrante di partecipazione al segreto.

“ Questa non è la situazione del poeta che canta ispirato, e non può far a meno di cantare poiché l'ispirazione lo afferra; è bensì la situazione del poeta che è divenuto a tal punto "strumento cieco e puro", da essere "'strumento" nell'istante stesso in cui sceglie, decide deliberatamente di cantare. La sua volontà non è affatto annichilita: è volontà lucida e deliberante, ma è volontà - scoria volitiva - di chi è divenuto "strumento cieco e puro": di chi partecipa al segreto. Se prima abbiamo osservato la differenza tra la situazione di Rilke e

quella di alcuni mistici, è opportuno ora aggiungere che proprio queste caratteristiche del comportamento di Rilke indicano nel poeta non un mistico, ma un esoterista: non un mistico che si abbandona o auspica di abbandonarsi a una forza che batte su lui fino ad annichilire la sua volontà, ma un esoterista che riconosce a priori l'insopprimibilità della propria volontà e che di tale volontà si serve come di un elemento, privilegiato dal rituale – rituale di creazione poetica e di esistenza globale -, per ricavare dal rituale tutto ciò che esso consente agli uomini “11.

Rilke incarna la consapevolezza di essere interlocutore privilegiato nei rispetti del segreto, la sua attività poetica prende forma utilizzando i materiali residui della propria volontà per mettere in atto il rituale della creazione, non si abbandona incondizionatamente all’influenza del segreto come per i mistici, ma si coniuga con esso nella forma di resistenza

                                                                                                               

11  Furio Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico, edizione quodlibet 2002, pp47-

48  

privilegiata. La volontà di Rilke si contrae per far spazio al segreto, coniugandosi con esso in forma dialettica.

“ È vero però che in questo contesto particolare, rilkiano, l'esoterista, Rilke, sembra agire nelle sue operazioni rituali sfruttando in modo inconsueto precisamente le proprie scorie volitive: quel tanto di sé che resta nel tempo storico e nella soggezione della volontà, anziché annichilirsi misticamente nella situazione di "strumento cieco e puro". Così facendo, Rilke ha conferito un privilegio particolare al proprio essere uomo fra gli uomini, di volta in volta spettatore o proprietario delle cose che circondano gli uomini, tutti gli uomini, senza che egli superasse il gradino della sublimazione in strumento privo di volontà. Ma privilegiare nell'esercizio del rituale la propria componente di scorie - il proprio residuo umano volitivo e non sopprimibile -, significa privilegiare una componente umana che è non solo dell'io dell'esoterista, bensì di tutti gli uomini, di tutti coloro che sono gli "altri", i "diversi". Il privilegio conferito dall'esoterista a qualsiasi elemento, nell'atto dell'operazione rituale, significa

riconoscimento della partecipazione dell'elemento privilegiato al cerchio chiuso del segreto. Privilegiando le scorie volitive del proprio essere uomo fra gli uomini, Rilke ha sperimentato l'autocoscienza della insopprimibilità di tali scorie identificandosi con tutti gli uomini: riconoscendo nell'umanità intera il cerchio chiuso dei partecipi del segreto. L’esoterismo di Rilke non è certo l'occultismo di Rilke (che pure vi fu). L’esoterismo di Rilke è la definizione dell'ambito creativo del poeta che intese l'umanità come un cerchio chiuso di partecipi di un segreto. Essere partecipi di un segreto significa essere privilegiati e al tempo stesso essere chiusi: chiusi, bloccati entro un cerchio chiuso, forse non del tutto ignari, ma essenzialmente estranei, rispetto a ciò che è ed accade all'esterno del cerchio “12.

                                                                                                               

12  Furio Jesi, Esoterismo e linguaggio mitologico, edizione quodlibet 2002, pp 50-

51    

Rilke esperisce il segreto nel privilegio delle scorie umanamente volitive, incarnando la volontà propria dell’uomo che determina la resistenza dell’uomo entro i propri residui confini storici e che accomuna tutti gli uomini all’interno della volta storica. Adotta il privilegio squisitamente umano della volontà, le scorie insopprimibili di essa determinano il privilegio tutto umano della partecipazione al segreto e al tempo stesso definiscono i sottili confini del cerchio entro il quale risiede tutta l’umanità come possibile fruitrice volitiva del segreto comune. Rilke si autodetermina come poeta ma in primis come uomo appartenente al privilegio dell’attività consapevole. Il segreto appartiene alle profondità dell’uomo, esperibili abbassando e al contempo mantenendo la propria volontà attiva; la macchina mitologica nel suo disvelarsi flagrante di congegno atto a creare mitologie ci si mostra come possibilità volontaria di scorgere simultaneamente il “ privilegio di partecipazione al segreto “ e il “ limite di conoscenza “. Privilegio e limite coincidono sul fondo dell’esistenza umana, la macchina mitologica è il meccanismo che si innesca sul limite estremo della nostra possibilità di conoscere, di essere co-partecipi dei

segreti dell’uomo. Jesi percorre il suo cammino come i bambini che giocano a camminare su una linea immaginaria incrociando i passi su di essa, cercando di evitare di sbilanciarsi cadendo al di qua o al di la di essa; cammina dritto su questa linea, ed è la sua superficie sottile la materia della sua ricerca gnoseologica. Nel punto in cui i residui materiali mitologici interagiscono con le residue scorie volitive all’interno della macchina mitologica, si ha un dialogo mitologico, si fa mitologia genuina. La soggezione alla volontà è il limite ultimo insopprimibile di appartenenza al regno storico delle cose propriamente umane, l’autocoscienza di tale possibilità/impossibilità, di abbassamento/mantenimento della coscienza vigile, attiva il processo dialettico tra i residui storici tradizionali e collettivi, l’insieme dei materiali mitologici, ed i residui storici volitivi individuali. L’individuo si pone, per usare il linguaggio buberiano in connessione col Mondo, insieme residuo del materiale mitologico tradizionale, coniugandosi al tempo stesso con il Tu, in quando aderente al privilegio di partecipazione al segreto. L’innesco dialogico, la circolarità di tale processo ermeneutico mitologico avviene all’interno delle impenetrabili

pareti della macchina mitologica, nella flagranza stessa dell’atto

Nel documento La macchina mitologica di Furio Jesi (pagine 54-100)

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