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La macchina mitologica di Furio Jesi

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Academic year: 2021

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Indice

Introduzione

Mito e mitologia, l’oggetto fantasma e la sua

manifestazione

La macchina mitologica, struttura e funzionamento

Gesto e linguaggio, la soluzione paradossale di Jesi

Appendice “ Padri e figli “

Conclusioni

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Introduzione

L’incipit di questo lavoro circa l’opera di Jesi è Jesi stesso. Dal momento in cui mi sono immerso nei suoi scritti sono stato raggiunto dalla percezione di aver a che fare con un intellettuale non viziato da alcuna ristrettezza di carattere accademico. La sua scrittura complessa e la sottigliezza delle tematiche trattate, hanno nell’immediato un effetto destabilizzante, forma costituente dell’approccio metodologico jesiano. Mai ci si sente con Jesi al sicuro all’interno di un approdo teoretico dotato di tutti i confort. La sua attività è stata caratterizzata dalla necessità di non arroccarsi all’interno di una disciplina, ma al contrario di mettere in dialogo archeologia, critica letteraria, mitologia come parole essenziali di un unico lungo discorso. Il coraggio e la ferocia di un desiderio giovanile determinano l’accesso al panorama intellettuale internazionale

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intrattenendo proficui scambi, in particolare col maestro e padre intellettuale, Kerényi. Lo studio del mito assume i connotati di un fanciullesco incedere verso il proibito, la ricerca di un passaggio segreto che ci conduca attraverso una sorta di galleria vasariana dove usufruire dei tesori dell’umanità. Il fascino mistificatorio di un approccio entusiastico-empatico al mito, viene ridimensionato da Jesi nell’intento di costituire i parametri di una paradossale scienza del mito, quantomeno di una scienza della scienza del mito, o ancor meglio una scienza della mitologia, unico approdo semantico intercettabile senza cadere in atteggiamenti mistici o fideistici. Ho visto nel nostro autore la convergenza di un duplice atteggiamento, quello recettivo e quello creativo, l’affannosa ricerca di un punto d’equilibrio dei due aspetti del conoscere posti sul limite stesso della conoscenza. Questo lavoro si propone l’intento di interpretare il percorso jesiano senza tradirne i punti di forza, le saldature essenziali che sorreggono il peso della sua struttura teorica. Rigore scientifico e sensibilità interpretativa compongono il dialogo jesiano, edificano il luogo nel quale lo scienziato ed il romanziere si scambiano le parti.

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Mito e mitologia, l’oggetto fantasma e la sua

manifestazione

Cap I

Il primo capitolo del libro di Jesi Il mito, ci da un impostazione necessaria ed imprescindibile nell’affrontare lo studio del mito e della mitologia inserendosi nel solco scavato minuziosamente dal nostro autore. Gli spunti che trarremo dall’analisi di tale capitolo introduttivo dell’opera ci dotano di un kit di base, che rivelerà la sua utilità sempre più nell’incedere di questo percorso, fino a darci veri strumenti metodologici atti ad affrontare le teorizzazioni jesiane, intese, alla maniera darwiniana come “un unico lungo discorso ”. Di fondamentale importanza ci sembra la ripresa dell’indagine

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storico-etimologica sulle parole che compongono il nostro settore d’indagine: Mythos, Logos e mythologhia.

“ Quanto siamo venuti dicendo mostra, da un lato, che fra mythos e logos esistette una precisa contrapposizione in determinati momenti della storia della lingua e della cultura greca; d'altro lato che tale contrapposizione non accompagnò codeste parole fin dalle origini, e neppure fu sempre assoluta entro la lingua e il pensiero di coloro che per lo più la affermarono. Platone stesso, non solo ricorse al mythos come strumento di persuasione, ma in alcuni casi parve usare le parole mythos e logos in accezioni mutevoli ”. 1

Questa citazione si riferisce alla disamina storica di Jesi sulle parole mythos e logos, e ci mostra come in vari momenti dello sviluppo storico dell’antichità greca i due termini furono in contrapposizione o in giustapposizione; tale fenomeno illustra già, al di là del suo supporto storico, quanto la materia mitica si mostri scivolosa e inafferrabile non solo per noi moderni, distanti oltre due millenni dall’origine mitica, ma per gli antichi

                                                                                                               

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stessi i quali videro svilupparsi entro la loro esistenza il conflitto tra mythos e logos, consumarsi e assottigliarsi le antiche conoscenze mitiche in favore di una nuova epoca della “ ragione ”; l’ambiguità dello stesso grande pensatore ellenico, Platone, ci impone cautela nel trarre conclusioni affrettate e parziali, e di camminare lentamente, passo dopo passo, in queste lande così aspre e difficilmente comprensibili. Il mythos, come sopra abbiamo accennato, racchiudeva in sé i contorni del mondo greco antico, di quello specifico contesto storico-culturale; l’accezione moderna, rispondente alla parola mito, in italiano, o nelle altre lingue contemporanee, ha esteso notevolmente i limes del mondo greco, abbracciando nella sua forma caratteri che potremmo dire “ più universali “. Stiamo parlando nello specifico della struttura mitica, in altre parole, dell’approccio riguardante il tempo, le origini e la religiosità (del sacro e del profano); sia in un ottica etno-antropologica, sia per quanto riguarda la sua forma estetica; l’ambiente mitico comprende nel proprio bacino la quasi totalità dei popoli vissuti in un tempo pre-monoteistico e che in sostanza abbiano resistito alla concezione di linearizzazione del tempo storico per

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rimanere aggrappati ad un istante fondativo collocabile soltanto in un passato atemporale e mitico. Il mito ed il vivere in maniera mitica ci mostrano i caratteri propri di resistenza al tempo storico, in funzione di una paradossalità storica che ripone il proprio fondamento di verità nell’esistenza stessa di un passato “ preistorico ”, ovvero precedente all’accezione storico-temporale, matrice dell’occidente moderno. Quell’istante sospeso in un tempo mitico, capace di racchiudere una durata, o meglio come dirà lo stesso Jesi, la “ lunghezza “, nella sua simultaneità, è l’accesso, l’irruzione nel nostro tempo storico-profano, di un potere remoto e latente, di quella barriera alla vita che è la morte stessa. Possiamo affermare con sicurezza che il rapportarsi dell’uomo dell’antichità al mito, il coniugarsi con esso attraverso il protendersi della rappresentazione mitologica, era il modo di coniugarsi col trascendente storico. Jesi riporta alla luce a questo punto le tesi di G. B. Vico, il quale ha per l’appunto sostenuto che per gli antichi, la mitologia rappresentava il rapportarsi al trascendente storico, era la possibilità di coniugarsi, anche se in modo parziale, a un qualcosa di autonomamente significante ed inafferrabile

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razionalmente. Già gli antichi, si affacciavano ad un mondo trascendente, ad un mondo perduto ed incapsulato nel suo passato mitico, traendo dalle immagini mitologiche ” la legittima e al tempo stesso impossibile materia autonoma della verità parziale concessa dalla provvidenza ”; in altre parole, le sopravvivenze di ciò che non c’è (il mito) , e di ciò che è materialmente “ impossibile credibile ” (la mitologia). Vico ci mostra chiaramente come già l’uomo dell’antichità vedesse nel mito un mondo perduto, un paradiso del quale le porte rimanevano serrate, tutt’al più facendo uscire riflussi dei frammenti mitici. Ci imbattiamo sin dagli inizi del nostro percorso in ostacoli ineludibili che tuttavia ci costringono allo spostamento dell’oggetto dell’indagine, “ il fantasma mitico “, al modo di conoscere le sopravvivenze alterate di tale entità fantasmagorica, nella sua forma accessibile. Rifiutiamo dunque l’invito per una caccia al mito, quella che già ora ci appare come una sorta di caccia alle streghe, e concentriamo i nostri sforzi sulle sue tracce, anche se alterate e danneggiate, sulle sue sopravvivenze, ponendo dunque la nostra attenzione a quei “ materiali mitologici “ sopravvissuti alla temporalità e giunti sino a noi. La traduzione

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della parola greca mythos nella accezione moderna di mito porta inevitabilmente ad un allontanamento dal significato e dall’ambito in cui il mythos ha avuto origine; tale allontanamento è la manifestazione precisa della nostra impossibilità, in quanto uomini moderni di accedere al mythos nella sua forma originaria.

“ L'oggetto in sé delle presunte " scienza " e " storia " del " mito ", dunque il mito, sfugge a qualsiasi conoscenza scientifica poiché è una sorta di oggetto fantasma che, non appena accenna a concretarsi in una data ipostasi, rinvia implicitamente la conoscibilità della sua essenza ad un'ipostasi precedente e inaccessibile oggi, perduta. Lo stiamo già sperimentando, nell'ambito di codesta esposizione, per quanto riguarda i nostri rapporti con l'oggetto della parola mythos, che siamo costretti a dichiarare conoscibile solo in un passato greco per noi inaccessibile. Di tale oggetto ci è possibile soltanto cercare di circoscrivere una sopravvivenza alterata (nell'oggetto della parola " mitologia "), restando noi consapevoli che questa sopravvivenza è

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appunto alterata, remota dalla genuinità dell'essenza presunta, riflesso elusivo di tale essenza. Nella misura in cui risulta " immediatamente dato dalla rappresentazione ", l'oggetto che in qualche modo ha a che fare con il mito si rivela remoto dall'essenza del mito, tanto che, ma unicamente in via ipotetica, possiamo avanzare la supposizione che la parola moderna " mito " sia significante solo in quanto addita un'essenza già e ormai non più accessibile. “2

Da subito si intende la nuova linea di Jesi che innanzitutto dubita seriamente dell’esistenza del mito, il quale sarà da lui stesso più volte definito come un “ oggetto fantasma ” che sfugge non appena si tenta di afferrarlo. Se il mito è un’entità così evanescente, fuggevole all’imbrigliamento delle nostre categorie analitiche, in che modo può essere considerato " come immediatamente dato dalla rappresentazione " ?. Che cos’è che si mostra " come immediatamente dato dalla rappresentazione " ? Jesi

                                                                                                               

2  Furio  jesi,  Il  mito,  Isedi,  Milano  1973,  p  40  

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si interroga partendo dalla confutazione della tesi Hegeliana che considerava il mito appunto " come immediatamente dato dalla rappresentazione ", come un oggetto che ci si pone nella sua totale oggettività di fronte agli occhi, cosicché lo si possa delimitare a priori e poggiarlo sul nostro tavolo di lavoro come un qualsiasi elemento del mondo naturale. Per Jesi l’immediatamente percepibile nella sua rappresentazione non può essere il mito, del quale non si hanno prove certe sulla sua esistenza, bensì la mitologia; mitologia la quale si può supporre essere la rappresentazione, la sopravvivenza alterata di un latente contenuto mitico. Ora, dobbiamo soffermarci attentamente su questa accezione di mito e mitologia, poiché, questa distinzione tra i due termini mira a mettere ordine a ciò che spesso è stato trascurato dai più grandi studiosi del mito. Lo stesso Kerényi, mitologo e maestro di Jesi non ha mai definitivamente sciolto le riserve in merito alla distinzione tra mito e mitologia, affermando frettolosamente l’impossibilità di dare un contenuto al mito, cadendo spesso in contraddizione nell’utilizzare in maniera quasi sinonimica mito e mitologia. Dunque il primo vero grande passo oltre il maestro e oltre la

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tradizione, Jesi l’ha compiuto sforzandosi di determinare un ambito epistemologico ben preciso, rinforzando quello che

evidentemente egli riteneva un debole approccio gnoseologico. La parola mythos è sempre più distante da quella che oggi è la

parola mito; il mythos appare come un qualcosa di sepolto, di inafferrabile poiché propriamente appartenente ad un passato inaccessibile “ immediatamente ” da noi moderni, che è il passato greco. Di che cosa si deve occupare la nostra indagine, partendo da un punto di vista scientifico moderno, nei riguardi di una materia inarrivabile per noi che ne siamo così distanti? Man a mano che proseguiamo il nostro percorso in contro al mito e alla mitologia, sembrano affiorare più i dubbi che le certezze, dobbiamo sforzarci di navigare solo con l’aiuto delle stelle diffidando dei moderni strumenti della tecnica moderna. Abbiamo visto come l’ambito di interesse del mitologo dei giorni nostri si sia ampliato dall’ambito puramente greco del mythos a quello del mito e della mitologia nel senso più ampio, e come il sano mitologo debba inserirsi in questo studio maneggiando i frammenti, i residui materiali provenienti da un mondo non più accessibile. Il ruolo del mitologo e quello

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dell’archeologo sembrano frapporsi, Jesi sembra ritornare sui passi della propria esperienza originaria, sulle tracce frammentarie di un passato lontano e misterioso. Se vogliamo inserirci all’interno del pensiero jesiano abbiamo l’obbligo di comprenderne a fondo i confini epistemologici, di supportare lo sforzo da egli compiuto per resistere a tentazioni fatalistiche o ideologiche. Va sin da subito chiarito l’intento del nostro autore di non tradire i parametri di una scienza del mito. Nelle citazioni sopra riportate emerge come ineluttabile l’impossibilità di accesso al mito, si ha l’immagine di un mito inessenziale ed inafferrabile, di un mito che sfugge alla comprensione di noi uomini moderni. Il primo dato che potremmo dire certo seguendo le parole del nostro autore, è l’inadeguatezza delle nostre categorie moderne nell’approccio al mito. La parola mito ai giorni nostri porta in se il sigillo di una morte annunciata, custodisce un segreto incomprensibile, la voce di una lingua estintasi col mito stesso. La parola mito delinea in sé la sua irraggiungibilità poiché ci rimanda ad un passato tanto remoto da non esser per noi più comprensibile tramite gli strumenti della moderna scienza del mito. Nelle sue

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vesti di scienziato del mito Jesi pone una battuta d’arresto nel definire ossimoricamente come “ oggetto fantasma ” il mito, una cosa senza i caratteri propri delle cose, senza la sua fisicità afferrabile ed osservabile, un’entità del mondo dell’invisibile. Le popolazioni pre-socratiche, quelle delle società arcaiche, vivevano coniugando le loro azioni in funzioni di archetipi celesti, al di fuori dell’orizzonte dell’uomo moderno post-socratico. L’invisibile coincideva con l’essenziale, l’archetipo rappresentava il fondamento puro della realtà. Le culture primitive sentivano la necessità naturale di interrompere il processo temporale, non accettavano il diveniente storico, ma spezzavano il meccanismo della temporalità ripiegando il tempo su se stesso per farne coincidere l’inizio e la fine nella dimensione paradossale di un tempo circolare. Il mito per tali civiltà rappresentava l’insieme di senso tramite il quale dare ordine alla vita terrena, nelle sue componenti rituali diveniva gesto quotidiano di trascendenza. Riportando l’asse temporale ai giorni dello studioso torinese ci troviamo distanti dai modi del vivere in funzione del mito, ove il mito entrava a far parte del quotidiano con rituali di festa, di rinnovamento e

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rigenerazione. Se ci caliamo all’interno dell’opera jesiana Letteratura e mito, in particolare prendendo in esame il capitolo intitolato Cesare Pavese, il mito e la scienza del mito, rinveniamo la traccia etnologico-antropologica che ci ricongiunge al piccolo excursus di matrice eliadiana evidenziato poche righe sopra. In tale parallelo si mette in gioco uno dei temi cardine della scienza del mito, l’accessibilità o inaccessibilità del mito, sempre considerata come conseguenza logica dell’esistenza stessa del mito. Jesi si mostra con tutto il suo atteggiamento critico nel considerare il mito un qualcosa di vivido, di pulsante, ed ancora in grado di rinnovarci con le sue proprietà di foco vitale. L’obiettivo del nostro autore è quello di non abbandonare il laboratorio della scienza del mito per festeggiare ad un ebbro banchetto mitico. Il suo sforzo mira a conferire al lavoro una dignità ed un valore oggettivamente scientifici, resistendo alla ben più accattivante prospettiva di lasciarsi permeare dalla materia mitica. L’apparato critico di Jesi ci servirà a capirne la necessità in virtù di una riflessione di più ampio respiro storico-politico che affronteremo nel proseguo del nostro lavoro. Jesi focalizza il suo sguardo sul che

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cos’è una scienza del mito, se possa esistere una scienza del mito, e a che scopo sia utile tale meccanismo conoscitivo. Il dubbio riportato parzialmente nel titolo di questo capitolo concerne il come si possa fondare una scienza il cui fenomeno sotto osservazione risulta inosservabile, appartenente al regno dell’invisibile, definito propriamente con l’appellativo di “ oggetto fantasma “. Siamo presi in scacco dal cercare di seguire le fila logiche di una scienza di ciò che non c’è, partendo certo dall’assunto che il mito non sia, ma che sia stato, che abbia espresso la sua vita in tempo a noi remoto ed inaccessibile se non nei modi di una archeologia mitologica. Avremo così una scienza della scienza del mito, un’indagine sui modi del conoscere la materia mitica, maneggiandone i residui materiali, i frammenti mitologici, le scorie di un mondo lontano e celato oltre l’irreversibilità dell’incedere storico. L’accento, il campo di ricerca di tale scienza si basa sulla ricettività della materia mitica, estrinsecantesi in un rapporto ermeneutico che comprende sotto la sua volta l’oggetto dell’indagine ed il soggetto indagatore. Si rimette in dubbio il punto di vista, l’approccio gnoseologico, i meccanismi di interazione tra

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l’opera ed il lettore, in quel presente che determina la flagranza dell’azione in corso, l’attualità pulsante di un nuovo rapportarsi a sé nel rapportarsi alla rinnovata manifestazione di un attuale mitologico. Non il mito, ma la mitologia diviene il sito nel quale rintracciare le forme attuali di comprensione di un passato inattuale ed estinto sotto le stratificazioni delle civiltà. Se prendiamo in esame le connessioni archetipiche, la ritualità del ricongiungimento e della rigenerazione, pratica onnipresente in tutte le civiltà arcaiche, comprendiamo che il ripiegarsi del tempo serviva a riportare il mondo del presente alla sua origine aurorale, annullando in tal modo il segmento di tempo che li separava in un curvilineo eterno originario. Citando Karl Kraus, l’origine è la meta. Tale meccanismo è reso vano oggi da un approccio scientifico alla mitologia, mantiene la propria possibilità di attuazione in ambito mistico, e perciò va oltre, rifugge da quei parametri epistemologici dai quali dobbiamo guardarci bene di non uscire per non recare danno all’opera del filosofo torinese. Il fondamento dell’approccio jesiano al mito, risiede nella dinamica oserei dire opposta a quella delle connessioni archetipiche, ovvero non è il presente che si ripiega

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sui suoi albori fondativi, ma è il presente che crea un vuoto al cui interno possa presentificarsi in una rinnovata forma mitologica quel passato altrimenti latente ed incapsulato per noi inaccessibile. L’epifania del mito, dell’“ oggetto fantasma “, diviene la mitologia come non luogo non presente nell’attualità di un rapporto ermeneutico tra le sopravvivenze alterate ed il suo recettore in carne ed ossa. Il soggetto indagatore in questa scienza del mito, diviene oggetto co-partecipe all’interno del processo gnoseologico, l’indagine jesiana si fa carico di comprenderne i meccanismi di interazione con la materia mitica. Più propriamente siamo inseriti in un rapporto dialogico tra residui materiati di mitologia ed il modo di rapportarsi ad essi. Riprendiamo l’accezione di oggetto fantasma e cerchiamo di dargli una connotazione più precisa. Se usufruiamo degli insegnamenti del Vico, comprendiamo come il presunto oggetto fantasma, l’invisibile, fosse per gli antichi primitivi oggetto della visione, possibilità di coniugarsi immediatamente al trascendente storico, coniugandosi al sacro-religioso nella sua accettabilità. Si attuava un rapporto diretto, privo di mediazione con quello che dal punto di vista di questo

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lavoro potremmo considerare incredibile, o meglio appartenente all’ambito dell’accettabile nei rispetti della sua sacralità. Le popolazioni arcaiche vivevano in un rapporto immediato, pre-razionale col mondo del reale, i quali confini superavano di gran lunga quelli del mondo fisico fenomenico, ma abbracciavano un bacino metafisico permeato dal sacro. Vivere in rapporto immediato col sacro era l’orizzonte proprio di tali popolazioni, all’interno di tale rapporto naturale si estrinsecavano i parametri del vivere, il sacro nella sua accessibilità diveniva un luogo privilegiato, prolungamento legittimo del mondo naturale. Il sacro permea il reale ed il reale permea il sacro in un legame che potremmo definire naturale. L’accessibilità al sacro, al di fuori dei vincoli del tempo storico, la ripetibilità rituale, riattualizzante il vero originario definiscono le coordinate del vivere nel mondo arcaico e primitivo; si desume che le azioni umane assumono valore e realtà nella loro dinamica di riproduzione-ripetizione di un atto primordiale, del loro esemplare mitico, collocato al di là del tempo materiale e contingente del presente, e si può dire che tali atti si appropriano della propria validità essenziale,

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nell’imitazione di quel prototipo “ celeste ” situato nel « grande tempo » mitico delle origini. Il gesto, l’azione, nelle culture arcaiche diviene reale e acquisisce senso esclusivamente nel presentificarsi di un’azione primordiale, nella ripetizione di « certi atti posti ab origine da dèi, da eroi o da antenati ». Il nesso tra la regione “ mitico-celeste ” ed il vivere, anche nei suoi aspetti apparentemente più banali del quotidiano, è inscindibile; non può esistere niente che non sia riconducibile ad un origine mitica o cosmica. La natura paradossale del rito è ciò che consente la trasformazione dello spazio profano in uno spazio trascendente, ma anche la trasformazione del tempo concreto in tempo mitico. Dunque comprendiamo meglio come ad ogni rituale corrisponda un modello divino, un archetipo. La realtà dell’essere per l’uomo arcaico risiede nell’affidarsi alla ripetizione rituale della cosmogonia e dell'antropogonia essendo così proiettato in illo tempore, nell'epoca mitica dell'inizio. Il mondo arcaico, nei rispetti dell’approccio jesiano, incarna pienamente le dinamiche di un misticismo religioso, la ricerca di ricongiungimento rituale col prima originario, mantiene saldi i caratteri paradossali della cieca visione con la

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quale interrompere l’incedere del tempo storico. Siamo à la recherche du temps perdu, ci affanniamo per fuggire i moti irreversibili del tempo storico, cercando di coniugarci ad uno spazio originario e sacro, rievocato dagli strati profondi del nostro essere involontari. Sappiamo dunque che le popolazioni arcaiche vivevano con dolore il loro esilio, lo stacco dal vero originario, dal tempo dell’inizio, perciò riabbracciavano e rinarravano costantemente i mythos, le storie per loro possibili nella loro totale accettabilità sacra e vera al tempo stessa. Per noi così lontani da tali albori non rimane che usufruire di ciò che resta, delle macerie, dei frammenti che possiamo maneggiare, ma il nostro compito all’interno di una scienza che sia quantomeno una scienza della scienza del mito rimane quello di indagare i processi del mettere in atto la nuova conoscenza di antichi saperi, escludendo da tale meccanismo ogni forma di misticismo. Il mito permane nella sua condizione inaccessibile, oltre le nostre possibilità di percezione, il mitologizzare fa parte delle attività proprie dell’uomo, anche di noi moderni, come processo flagrante di rielaborazione delle scorie del mito. L’affanno, la grande delusione sopravviene

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sempre nel momento in cui ci si imbatte nella domanda, che cos'è il mito? Nello scritto di Jesi, Mitologie intorno all’illuminismo, ricorre la questione fondamentale di definire il mito, di disegnare dei contorni netti all’interno del quale far confluire la radice della conoscenza, della vera parola, bacino del vero-sacro originario. Nel capitolo Ermeneutica e scienza del mito (1750-1850), Jesi ci mostra come in tempo puramente illuministico il mito assumesse i caratteri propri del luogo comune, di un bacino colmo di senso ove rinvenire l’unitarietà di una conoscenza universale estrinsecantesi nei modi di una scienza alchemica, sotto i rispetti della rivelazione mitologica. Il ritratto del tempo ci mostra come gli interpreti del mito, fossero affannati dalla ricerca dell'unità fondamentale del conoscere, di quella sorgente sacra, dalla quale avrebbe avuto origine la conoscenza. L’alchimista, l’esoterista, avevano il potere del genuino approccio che permetteva loro di oltrepassare il velo che si frapponeva loro nei rispetti della vera conoscenza. Il mito diveniva materiale dal quale trarre esegeticamente rivelazioni del vero, il rituale individuale e di gruppo erano i luoghi all’interno dei quali giungeva la luce della verità. L’influenza

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delle concezioni mistiche ebraiche risulta evidente; l’aggregazione rituale, l’appropriazione di verità celate oltre il visibile, la ricerca di un ricongiungimento col vero tramite i residui di uno stadio arcaico, infantile, dell'umanità, la possibilità di spiegare l’irrazionale tramite un processo di rivelazione esoterica, ci fanno risalire alla qabbalà intesa nella traduzione sholemiana di tradizione, affaccio mistico su significati metastorici tramandati attraverso un linguaggio ermetico mirato a conservare in una sacra cripta i segreti originari dell’essere, afferrabili solo da pochi eletti alchimisti visionari. Il mito non era in sé per sé rivelazione, ma luogo all’interno del quale si materiavano le epifanie del sacro. Nel capitolo successivo, Giustificazioni della scienza del mito, Jesi ci descrive la scienza del mito come una fame sostanziale di conoscenza, come un’esigenza naturale dell’uomo, quella di rapportarsi al non-essere-storico, in altre parole come la necessità dell’essere storico di coniugarsi con la propria assenza, con la vacanza dell’essere storico. Dunque l’essere storico-razionale, assolve la sua fame, entrando in rapporto con la vacuità del proprio essere, gettandosi nel vuoto che sta ai confini del

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conoscibile storico. La scienza del mito, ci mostra ancora la sua faccia duplice, permeata da una paradossalità propria dei lineamenti che la definiscono. La scienza del mito, riferita all’oggetto fantasma, a ciò che non c’è, è scienza dei margini della conoscibilità, è indagine sui limiti del conoscere senza accettare, del comprendere senza ricadere in meccanismi mistico-religiosi. La razionalità dell’essere storico si affaccia sul suo vuoto non-essere per definire i confini della propria comprensibilità, per determinare le possibilità del conoscere i residui storici di ciò che è stato. La mitologia, mi appare ora come il limes, la linea di demarcazione tra la pienezza dell’essere storico-razionale nella sua conoscibilità, ed il vuoto irrazionale del vacante essere storico. La mitologia è ciò che rimane del mito nell’essere storico, è l’insieme di frammenti che giungono dalla vacanza dell’essere storico alla presenza dell’essere storico. La mitologia è l’insieme dei residui accessibili come vincolo, limite della possibilità di un accessibilità ormai perduta nei confronti del mito; è l’epifania parziale di un contenuto originario percepibile solo nella sua corrosa frammentarietà. Per tentare di saziare la nostra fame mitologica, dobbiamo accontentarci degli avanzi

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avariati del banchetto mitico. In un certo senso la mitologia diviene barriera e possibilità, resistenza e tensione, luogo di confine tra il pieno ed il vuoto tra essoterico ed esoterico. La scelta da compiersi di fronte alle due possibilità quella di indagare a fondo il mondo del conoscibile e al contempo il modo della conoscenza, o di appartenere spontaneamente ad un ristretto gruppo di discepoli iniziati portatori di una tradizione misterica. Riaffiora di tanto in tanto l’interrogativo: che cos'è il mito? Ci troviamo costretti a definirlo come l’indefinibile, l’ineffabile oltre le nostre capacità percettive; non possiamo esser certi del fatto stesso che il mito esista, ma solamente che sia esistito, e rinvenire tramite le sue scorie elusive un qualcosa che è stato e che ci si mostra nella sua forma beffardamente mitologica. La scelta di campo, diviene punto cardinale nella cui direzione orientare la direzione di questo lavoro, cercando di seguire la via intrapresa dall’intellettuale torinese. Nei rispetti del mito e della mitologia, fondamentale è comprendere i meccanismi di interazione da parte nostra, in quanto uomini moderni, rispondenti ai dettami di un approccio razionale e scientifico ad essi, mettendo in luce

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per contrapposizione quell’atteggiamento irrazionalistico fideistico e le conseguenze al quale esso nell’ambito della storia a noi contemporanea possa portare. La mitologia in quanto insieme delle scorie frammentarie del mito, compone il quadro reale, storico e contingente, il laboratorio d’analisi dell’interazione tra il noi presente ed un passato latente che ci dona ancora dei residui di conoscenza nella forma alterata in cui si manifesta. Questo cumulo di macerie rappresenta la materia viva, reale, nel quale scavare per portare alla luce un nuovo modo di essere nei confronti di come eravamo. Se tiriamo in ballo le teorie dello studioso Mircea Eliade, nel suo Il mito dell’eterno ritorno, ricorre costante, come uno tra i punti chiave della sua analisi il parallelismo tra l’uomo arcaico tradizionale, e l’uomo moderno. L’Eliade pone i due prototipi in questione in relazione al tempo storico ed in rapporto interiore con la sofferenza, la sua dissertazione elude di proposito i parametri della scienza del mito, ma ci dona di alcune riflessione che ribaltate sulla superficie del nostro lavoro possono contribuire a comprendere meglio i meccanismi del pensiero jesiano. In definitiva l’Eliade stabiliva una netta

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contrapposizione tra l’atteggiamento dell’uomo delle civiltà tradizionali e quello moderno nell’approccio al tempo storico. L’uomo primitivo viveva nella consapevolezza di una vicinanza-distacco al mito, ma al contempo cosciente della propria possibilità di riappropriazione dell’origine mitico-archetipica, di poter dunque colmare, attraverso precisi rituali di rigenerazione-ripetizione, i momenti alborei che avevano dato origine al Tutto, e che rimanevano il vero grande sacro momento di conoscenza pura. La conoscenza, per tali popolazioni non avveniva tramite un rapporto col proprio essere presenti nella loro contemporaneità, ma nella sospensione della loro presenza, in funzione di quell’attimo eterno oltre il quale era inutile proiettarsi. Il primo momento originario, per le popolazioni primitive, custodiva in sé tutto il possibile, racchiudeva la totalità del conoscibile, rappresentava la totalità esaustiva del sapere. La storia, imperniata su un tessuto di relazioni socio-politiche non rappresentava per tali popolazioni un bacino dal quale apprendere la giusta direzione, rimaneva un impedimento, un ostacolo tra essi ed il loro momento di estasi primordiale. La possibilità di riattualizzare il

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mito, di riviverlo nella sua dimensione originaria, rappresentava la loro speranza e la loro credenza. Sospendere il tempo storico e riattualizzare il tempo mitico era per tali civiltà il possibile-credibile. Questo mondo decisamente estinto ai giorni nostri, la sua rappresentazione per mano dell’Eliade, ci tornano utili, se non indispensabili, per riallacciarci al nostro mondo storico-moderno, alla nostra percettività, sviluppatasi sull’asse di una razionalità che ci arriva dai tempi di Socrate, tempi in cui il mythos cedeva il passo al logos. Il mito nella sua forma viva, pulsante, di momento illuminante, rimane celato oltre le sedimentazioni del tempo storico, la mitologia nella sua complessità, come insieme caotico dei frammenti di quei lontani albori, diviene per noi moderni, l’immediatamente percepibile nella sua elusività di scoria. Se vogliamo mantenere integro il nostro approccio scientifico razionalistico, non possiamo rifarci ai dettami del possibile-credibile, dobbiamo aprire gli occhi ed osservare ciò che ci perviene non certo abbandonarci alla mistica visione riattualizzante dell’oggetto fantasma. La mitologia permane come campo della nostra

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indagine, il mito, presunto oggetto latente che da origine alla rappresentazione mitologica.

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La macchina mitologica, struttura e funzionamento

Cap II

Kerényi a Jesi: « Ciò che si può dire per i delinquenti e gli psicopatici proprio soltanto che - purtroppo per l'umanità - anch'essi sono uomini, delinquenza e psicopatia poggiano su malattie cui milioni sono esposti. Le cause della malattia devono essere individuate con precisione, le malattie, fin che è possibile, curate - in futuro. Questo intendo, quando dico: è l'uomo che dev'essere curato, e non il mito incolpato. Là dove nel mito il divino appare congiunto col " demonico ", il " demonico " è una partecipazione umana al mito: partecipazione del delinquente e dello psicopatico, la cui presenza deve sempre essere presunta nella storia dell'umanità, non la partecipazione del devoto, del vero sacro poeta e veggente, del legislatore e profeta. Chiudo con

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questa “ professione di fede ", se Lei vuole - che però è anche una persuasione scientifica e una proposta di metodo ». 3

Analizzando attentamente le affermazioni del mitologo ungherese sopra riportate, ci balza subito agli occhi il concetto di partecipazione, di congiunzione dell’umano con il mitico, esposto nelle sue due possibili espressioni: quella definibile come genuina, da parte del “ …devoto, del vero sacro poeta e veggente, del legislatore e profeta ”, e quella definibile psicotica e malata, tecnicizzata, da parte del ” delinquente e dello psicopatico “. Kerényi pone tutta la sua attenzione sul soggetto che si coniuga al mito, sul suo approcciarsi sano o malato, alla sorgiva fonte di conoscenza. Egli mantiene il mito in uno stadio edulcorato, di purezza assoluta e ne vede la possibilità di perversione, di questa fonte di conoscenza, nell’atteggiamento e nelle capacità umane, innalzando il poeta alla posizione di visionario e profeta moderno. Non vede, il Kerényi,

                                                                                                               

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nell’affacciarsi di là dai confini del razionale, un misticismo che eluda qualsiasi principio scientifico nell’approcciarsi al mito e alla mitologia. Per lui, “ professione di fede…e persuasione scientifica “ si coniugano nella figura del poeta, quasi un portatore sano del mito. Il mito determina l’origine sacra alla quale consacrarsi e sottomettersi in un moto conoscitivo-creativo, momento sinaitico dal quale forgiare i rapporti col mondo terreno. Questo atteggiamento ci conduce attraverso le campate di nuove cattedrali ideali fino all’altare di una rinnovata religione, antica come l’uomo, la religio mortis. Il poeta, bramoso di oltrepassare il contingente, e potremmo aggiungere di sorreggersi di fronte al terrifico sguardo della morte, finisce con l’abbandonarvisi inconsapevolmente, abbassando le resistenze critiche proprie dell’uomo moderno, risultato di secoli di sviluppo della ragione. Il poeta veggente si fa catturare dalla macchina mitologica, non riesce a vedere tale artificioso meccanismo e lo accetta con pienezza, abbandonandosi all’illusione con la certezza dogmatica di afferrare il vero. Il poeta, colui che, secondo Kerényi può abbeverarsi alla sorgente della verità, non ha ancora fatto un

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passo verso l’uscita della Caverna, anzi non sente ancora il peso e la pressione delle catene come una costrizione, ma vede in esse una funzione ornamentale; solo, unico prigioniero privilegiato, gode dell’illusione spettacolare degli idoli nella loro forma al negativo, quella di ombre che offuscano l’ambizione del disincanto propria dell’uomo moderno, da Platone in poi. Le pareti della Caverna sono oggi di un acciaio impenetrabile e divengono componenti di una macchina più sofisticata, ma avente la medesima funzione di base; illudere, creare bevande artificiali in grado di dissetarci come l’acqua di sorgente. La macchina crea mitologie. Di che cosa abbiamo bisogno per contrapporci alle potenze dell’illusione? Quali sono le nostre armi per resistere alla morte nella trincea mitologica? Questi sono gli interrogativi che animano il pensiero jesiano, facendogli abbandonare il tracciato del maestro, per ritornare ad una presa di coscienza dei nostri rapporti con il trascendente storico guidati da un più attento moto critico. Il mitologo o poeta moderno non si sono mai liberati della presa allo stomaco della morte, di fronte ad essa si abbandonano lasciando il sarcofago d’oro che li protegge per immergersi nei regni

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dell’Ade. Scrive Jesi: “ La mitologia è il cerchio contro la morte; ma anche: la mitologia è il cerchio che è tale poiché intorno ad esso preme la morte ”.4 Questa frase del nostro autore estrapolata dal

capitolo primo di Materiali mitologici, sul tema de I « pensieri segreti » del mitologo, un analisi del maestro Kerényi, ci mostra la mitologia come un insieme di materiali, di macerie che giungono a noi da un lontano passato mitico, tracciando un solco, fragile trincea che fa da confine tra il regno della vita e quello della morte. La mitologia disegna dunque un confine, l’avamposto dal quale si percepisce la presenza del nemico, ultima resistenza nei confronti dell’invasione mortifera all’interno dei nostri territori. La mitologia rappresenta questa sottile barriera sottoposta ad una pressione che viene dall’al di là; l’al di qua, un incavo più o meno sicuro dove ripararsi e condurre le nostre esistenze. Jesi imbocca la strada opposta a quella del maestro, sostiene la necessità imprescindibile di lottare contro la morte per la vita. Egli ha intuito come la mancanza di coscienza, come l’abbandonarsi al puro

                                                                                                               

4  Furio  Jesi,  Materiali  mitologici,  Einaudi  2004  p31  

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irrazionale, concedendosi alle forze extraumane del mondo dei morti, abbia legittimato, sotto l’aura malvagia di una falsa veggenza, i comportamenti più nefasti e brutali della storia recente.

“ Rompere la sicurezza ideologica del positivismo e dello storicismo, o delle loro sopravvivenze e metamorfosi tardive, quanto alla negazione della sostanza del mito, ci sembra perciò un obiettivo indispensabile - così come, d'altronde, rompere la sicurezza di coloro che affermano la sostanza del mito per coerenza con posizioni ideologiche tali da fondare teoria e prassi dei rapporti sociali su valori extra-umani metafisici, di cui si esige epifania e riprova nel tempo e nello spazio della storia. “ 5

                                                                                                               

5  Furio  jesi,  Il  mito,  Isedi,  Milano  1973,  p107  

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Jesi si contrappone con forza all’accezione di mito come sostanza autonoma in grado di tracciare dall’al di là della volta temporale i ritmi e le direzioni da seguire ed applicare nel mondo storico. In altre parole rifiuta l’accezione per cui l’uomo moderno tragga la sua guida morale da uno spazio metafisico e astorico, e che applichi all’ambito del diritto sociale valori di natura extra-umana. La devastante pericolosità di tale atteggiamento nei confronti del complesso metafisico, la rinveniamo nella legittimità di tale meccanismo sul piano storico-sociale, ovvero la dimensione legislativa, il contratto sociale suggellato su coordinate metafisiche nella dimensione della visionarietà profetica, porta con sé inevitabilmente un principio di non-responsabilità. Difatti dal momento in cui si accetta, e si legittima nei ranghi di governo, la figura di un aruspice, o quella di un imperatore-dio, o quantomeno di un regnante in grado di porre l’orecchio al di fuori del mondo storico, il suo agire nel mondo da lui regolamentato verrà sempre interpretato come l’attuazione di un eco metafisico, e per tale motivo egli si sottrarrà al giudizio morale e sociale, essendosi determinato in quanto ambasciatore, veicolo umano

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di profezie dall’ignoto. Ma compiamo un passo indietro. Come ci è ben noto, Jesi ha alimentato il proprio interesse per lo studio del mito e della mitologia, seguendo la stria luminosa del maestro Kerènyi. All’interno della breve ma fremente vita del nostro autore possiamo rintracciare una parabola che ha origine con l’affiliazione intellettuale di Jesi per kerènyi e che ha una brusca virata che culmina con la rottura non senza asprezze del loro rapporto d’amicizia. Possiamo sommariamente distinguere due momenti nel pensiero jesiano, il primo in cui vi è una pressoché totale adesione e continuazione del pensiero Kerènyiano, ed un secondo, sovvertitrice delle radici stesse delle tesi del mitologo ungherese. Se prendiamo in esame il testo de Il mito, rinveniamo un sottocapitolo dedicato interamente al Kerényi, nel quale jesi espone l’intento del lavoro del mitologo ungherese, determinando con precisione che Kerényi era da sempre stato ben lontano dall’attribuire al mito ed alla mitologia il valore di sostanza extra-umana. Per Kerényi non esiste una sostanza extra-umana, alla base delle concezioni della “ destra tradizionale “, bensì la mitologia, ed il fare mitologico rappresentano una delle necessità ed attività

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dell’essere umano, appartenenti decisamente alla sfera dell’uomo e dell’ambiente storico nel quale vive e si muove. Per Kerényi il ridestare materiali mitologici e modellarli in mitologia è comparabile all’attitudine musicale, appartiene all’ambito nel quale l’uomo si immerge nel corretto intento di ampliare la propria coscienza di sé. I materiali mitologici ci appaiono come le tessere di un mosaico incompiuto e sempre in via di compimento, come una sorta di giardino Zen del quale non ci interessa l’immagine stabile e definitiva, ma il moto perpetuo di composizione e decomposizione. Non si ha a che fare con una sostanza metafisica che permea la nostra coscienza ed alla quale ci abbandoniamo ad occhi chiusi lasciandoci trasportare senza alcuna resistenza; il processo mitologico è un attività propriamente umana, una facoltà dell’uomo nei riguardi dell’uomo. Kerényi trae la sua concezione cardine, ovvero compie una distinzione tra i due atteggiamenti possibili, le due accezioni del mito: il mito genuino ed il mito tecnicizzato. Jesi corregge il tiro del maestro parlando di mitologia genuina e mitologia tecnicizzata, mettendo al contempo in rilievo la poca chiarezza nel distinguere in maniera netta il mito in quanto tale,

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quell’oggetto fantasma come sopra abbiamo affermato, e la mitologia, rielaborazione di contenuti mitici riaffioranti in forma di residui alterati del mito. Ritorneremo più avanti su quest’aspetto che sarà uno degli elementi che determinerà la rottura dei rapporti tra il maestro e l’allievo. Analizziamo dunque che cosa intendesse il Kerényi nel definire questi due aspetti antitetici del mito. Per mito genuino si intende l’evocazione spontanea e naturalmente disinteressata dei contenuti mitici, i quali si presentano alla nostra coscienza in maniera del tutto incontrollata ed inaspettata. Il mito tecnicizzato, al contrario, descrive la pianificata elaborazione di contenuti specificatamente selezionati per un determinato scopo. Kerényi stesso definiva il mito della “ destra tradizionale “ come mito tecnicizzato, mito sottomesso a precisi fini politici e sociali; rimando a potenze extra-umane in grado di determinare l’agire storico per bocca di statisti-veggenti. L’accezione Kerényiana del mito giusto, del mito sano, è quella di “ mito dell’uomo “, in altre parole di un mitologizzare che disveli i “ pensieri segreti “ dell’uomo e non di un entità metafisica, in altre parole, la mitologia ha il ruolo di elemento fondante all’interno

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dei confini misterici dell’uomo. Siamo giunti ad un punto del nostro cammino per il quale i nostri due autori sembrano ancora incedere sostanzialmente spalla a spalla, Jesi rimarca ed appoggia il rifiuto kerényiano di attribuire al mito ed alla mitologia i ruoli di fonte metafisica e di veicolo dei flussi metafisici. Sia per Jesi che per Kerényi, potremmo dire che il mito ha origine nell’uomo ed è l’origine dell’uomo. Tale affermazione non era certo giunta ai due con chiarezza sin da subito, infatti se andiamo a setacciare le loro carte potremmo trovare punti di vista contraddittori alla posizione ora sostenuta.

« Se analizzo il più freddamente possibile la mia posizione vi ritrovo una specie di fatalismo […] . E’ giusto che Hitler e i suoi compagni siano stati puniti: altrimenti la vita non avrebbe potuto sopravvivere. Ma credo di riconoscere nell’opera di Hitler qualcosa che trascende le responsabilità umane; credo insomma che il vero colpevole degli errori del nazismo non sia l’uomo-Hitler, ma una forza temibile quanto gli

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Angeli di Rilke che si è servita di quell’uomo, invadendo la sua volontà ».6

Qui scrive un giovane Jesi, circa ventiquattrenne, nella forma confidenziale della lettera esprime i suoi dubbi al maestro. Tale esempio mostra credo con chiarezza, le posizioni acerbe, ancora in via di definizione di Jesi, il quale nell’arco di non molti anni raggiungerà la sua piena maturità intellettuale determinando con tutta la forza necessaria il suo pensiero. Il dubbio espresso da Jesi a kerényi mira a determinare la natura del mito, il suo luogo di provenienza, mette in discussione il rapporto dell’uomo col mito. In altre parole il giovane pensatore torinese si interroga tentando di mettere in luce quelli che potremmo definire i “ pensieri segreti “ di Hitler e dei nazisti, e di delineare le responsabilità umane rispetto ad uno dei momenti più cupi della storia umana. Jesi specifica da subito di imbattersi in “ una

                                                                                                               

6    Lettera  di  Furio  Jesi  a  Karoly  kerényi  del  16  maggio  1965,  in  Karoly  

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specie di fatalismo “, ovvero di ritrovarsi, quasi per una tutela della sana ragione, a deresponsabilizzare “ l’uomo-Hitler “, in quanto afferrato da una forza extra-umana terrificante e dalla violenza inaudita, che ha invaso la coscienza del Führer e dei suoi sottoposti, guidandoli all’odio raziale e semitico. La forza da cui tutto ha avuto origine, è una forza daimonica che si è impadronita delle coscienze di milioni di persone, le quali direttamente o indirettamente, hanno accettato che l’odio e la morte invadessero lo spazio vitale della società umana. In sostanza lo Jesi di quella lettera, è un giovane che non ha ancora ben afferrato una delle determinazioni cardine del suo pensiero compiuto; egli non era in grado di negare la sostanzialità autonoma del mito come forza metafisica capace di assoggettare la volontà umana fino a guidarla nelle regioni più oscure dell’essere. Di fronte ad un odio inumano, al tentato sterminio di un popolo, il giovane torinese sente la necessità di una spiegazione-accettazione fatalistica che metta in luce l’assoggettamento dell’uomo da parte di forze oscure e maligne provenienti da un bacino metafisico. Il pensiero jesiano negli anni assumerà posizioni opposte riportando la categoria della

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responsabilità all’interno del mondo dell’agire umano, nel contesto storico dove si sviluppa la vita delle società umane. Il giovane Jesi della lettera sopra citata, esprime i suoi dubbi, le incertezze più profonde nel determinare i confini, i limiti dell’azione umana, nel definire con nettezza i parametri di una ricerca sull’uomo. Postosi di fronte alle brutalità del nazismo, la voce fatalista risuona per alleggerire le colpe dell’umano, attribuendo al misterico mondo dei morti la responsabilità di tale barbarie. Lo Jesi che vede affiorare nella notte Abu Simbel, illuminata dai fari artificiali, è ben lungi da visioni fatalistiche, ma si è autoprodotto gli strumenti necessari per non rimanere sguarnito di fronte alla suadente voce del potere.

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La tentazione di un’alleggerimento morale nel riparo fatalistico non appaga la volontà puramente scientifica del più maturo Jesi, ed anzi lo mette in guardia sui pericoli sempre in agguato sul percorso di una ricerca intorno al mito. L’insieme, il corpus di riflessioni sui concetti di mito genuino e mito tecnicizzato, riconducibili ad un atteggiamento genuino o strumentale nei confronti del mito, innescano in Jesi i moti di un ermeneutica mitologica, processo dialettico fra la consapevole residuità del sé ed i residui del mito. Dobbiamo con forza sottolineare e analizzare a fondo ciò che abbiamo definito come residuità del sé, l’abbassamento della presenza non all’oblio più profondo e cieco, ma un’assottigliamento della volontà nella sua funzione di vigilanza. Nell’approcciarsi alla materialità accessibile del mito, la volontà, la coscienza del sano mitologo si lima, si contrae per dare spazio e partecipare al mitologema, mantenendosi attiva parte dialettica, contraente consapevole di un dialogo scomodo e pieno di insidie. L’infanzia, la morte, l’al di là, la prima ora sembrano mostrarcisi li ad un passo, e forse ci si mostrano nella loro alterata rappresentazione, ma dobbiamo tenere ben ferma la gamba al di qua di quel passo

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che spezzi i legami con l’origine del nostro pensiero moderno sedimentato sulla ragione e sull’arbitrio della volontà. La resistenza, il vaglio della volontà come barriera difensiva, compongono la membrana che separa un sano approccio al mito e un’esser tecnicizzati dal mito stesso. Se ci allontaniamo un attimo dall’accezione di mito tecnicizzato, per accostarci e affrontare più da vicino il concetto di mito genuino, ci inseriamo propriamente nella polemica fra Jesi e kerényi. Jesi getta lo sguardo oltre le conquiste kerényiane individuando una sottocategoria, un sotto-atteggiamento alla genericità non risolutiva di mito genuino o insomma di genuino approccio al mito. In altre parole Jesi si sofferma non sul rapporto dell’uomo col mito, ma del rapporto del mito con l’uomo. La questione si sposta sull’esser tecnicizzati dal mito, ovvero sul costante pericolo di sottovalutare la pericolosità di quell’oggetto fantasma del quale non possiamo affermare con certezza l’esistenza. Questa barriera dialettica ci mette in relazione con i materiali mitologici ed al tempo stesso ci separa, ci tiene ben saldi all’interno del nostro apparato gnoseologico. Dobbiamo badare bene a non farci afferrare dal mito; fantasma, fantasia

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notturna, ma abbiamo il compito, attraverso la lente dello scienziato moderno di maneggiare legittimamente i materiali mitologici, e non lo spettro mitologico. Per una scienza che sia tale, e che non si dissolva sotto la sua etichetta, sbeffeggiata dall’elusività del mito, i materiali mitologici sono ciò che fa al caso nostro, scorie modellate dal tempo storico e nel tempo storico, residui archeologici filologicamente e storicamente verificabili. Lo " spiegare " e l' " accettare ", atteggiamenti teologici o mistici, sono ciò da cui il nostro autore, e noi con lui, dobbiamo tenerci lontani. L’assunto di base che determina la posizione di scienziato del mitologema, è quella di non poter essere partecipi dell’esperienza mitica originaria, ne singolarmente ne collettivamente, in altre parole di non potersi identificare con coloro che abbiano avuto esperienze mitiche. L’ermeneutica mitologica jesiana è l’incipit dal quale prende vita la macchina mitologica. Jesi sa di non potersi occupare del mito in quanto privo di sostanza, ma è deciso a coniugarsi con i residui materiati dell’assenza del mito, quei materiali mitologici che si manifestano nella loro forma di opera mitologica, la quale si presentifica nel vuoto cavo della macchina alla presenza del

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suo possibile lettore/interprete. In altre parole, si ha una macchina, un congegno d’acciaio del quale si presume che il mito sia il suo cuore, primo motore immobile che la anima. La stanza a cui lo scienziato mitologico ha accesso, è il palcoscenico vuoto, nel quale si anima lo spettacolo mitologico, ovvero nella quale l’interprete e l’opera mitica, non il mito, dialogano l’uno con l’altro nel vuoto presente della macchina. Le epifanie del mito, i residui del mito, si offrono alla momentanea interpretazione, concedono la flagranza di un momento di pura attualità mitologica. La macchina mitologica ci appare come un congegno in grado di far dialogare in maniera attuale i residui alterati del mito col mitologo-interprete, essa crea un vuoto, una sorta di spazio in assenza di gravità che permette l’attuazione di un ermeneutica mitologica. Rimane da sottolineare con forza la genuinità dell’atteggiamento, tenendo salda la consapevolezza di essere lontani dal mito, ma co-partecipi del mitologema, lettori/interpreti di un’opera in via di scrittura. Scrittura e lettura coincidono nel punto di interazione che fa del testo il risultato del dialogo tra l’opera ed il suo recettore-creatore. La

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scientificità del discorso jesiano risiede nel rinunciare ad un atteggiamento empatico, mistico, di abbandonare la ricerca di ciò che non c’è, il mito, in favore di ciò che permane nella sua attualità, la mitologia nel suo complesso di materiali mitologici, e l’attitudine mitologemica, quella di innescare un processo dialettico-creativo tra la materia mitica residua e l’interlocutore-interprete. Lo studio sui confini del processo gnoseologico e sui modi stessi di approcciarsi alla residuità mitica sono gli obbiettivi scientifici dello studioso torinese. La macchina mitologica diviene luogo-strumento di elaborazione di significati, accesso a materiali narrativi di matrice storico-sociale. I materiali mitologici compongono la traccia residua della storia dell’uomo, compongono un bacino archeologico in cui risiede la memoria collettivo-narrativa dell’umanità. I contenuti mitologici del mito ci giungono nella forma attuale di mitologia con la quale noi possiamo interagire con un giusto approccio scientifico; il mitologema rappresenta l’interpretazione-rinarrazione dei contenuti mitologici. Vediamo come per Jesi il mito rimane sempre mito dell’uomo, memoria di un passato inaccessibile nella forma immediata ed

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empatica, ma certamente rinarrabile nell’attualità del processo in flagrante della macchina mitologica. Il mito in quanto mito dell’uomo rappresenta un insieme trasversale di accumulo di materiali storici, contenuti rinarrabili nell’intersezione di memoria ed attualità, nel nesso presente-passato attuato dalla macchina mitologica. Il mito si dissolve sotto le analisi di Jesi come qualcosa e insieme nulla, un oggetto non identificato e del quale non si ha di che argomentare, la mitologia, in quanto forma accessibile del mito, nella sua decifrabile costituzione narrativa, compone la tradizione, l’insieme con-fuso delle storie degli uomini, dei loro dei e degli eroi. Siamo distanti dall’intendere il mito come sostanza extraumana, in grado di giungere a noi, uomini dell’epoca del disincanto, inalterata, immutata come nella sua origine. Il mito non è una sostanza autonoma, non è, o forse non è più; il fatto è che noi oggi non lo possiamo tener vivo, attivo. La sua forma attuale, diviene un qualcosa di diverso, di alterato, nell’interazione con l’oggi questi materiali tradizionali ci giungono decomposti ma in grado di essere ricomposti in materiali di nuova generazione. La macchina mitologica diviene una sorta di fornace nella quale plasmare nuove forme

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utilizzando i residui materiali mitologici che siamo in grado di afferrare. Riaffermiamo ancora una volta il valore del lavoro di Jesi, mostrando la coerenza scientifica che ha guidato il suo pur breve percorso. Tenendosi distante dal voler definire il mito, parola polisensa che ci impedisce l’ipostatizzazione in una categoria precisa e circoscritta, sostenendo la possibilità di affermarne l’esistenza solo nella residuità e non certo nella totalità unificante primordiale che descriveva i modi e i modelli per la vita delle popolazioni arcaiche. Il mito inteso nell’accezione eliadiana di precedente fondativo, di modello archetipico da ripetere e riattualizzare nella sua forma intatta primordiale, sospendendo e ripiegando il tempo nella curvilinea paradossalità di un’inizio sempre rinnovato, porta inevitabilmente ad una visione antistorica, ad un’opposizione al tempo delle cose umane in favore di un tempo mitico. Tale atteggiamento concede il passo ad un vera e propria interpretazione metafisica della storia, un atteggiamento mistico di elusione del reale-storico verso un reale-metafisico. Questo è ciò da cui, secondo Jesi dobbiamo tenerci ben lontani. Attribuire ad uno spazio ed uno tempo metafisico intatto ed

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inalterato, la guida suprema del nostro agire nel tempo della nostra contingenza, assume la dannosa forma di una religione mitologica, una mistica per la quale il tempo della storia col suo corpus di memoria e tradizione permangono come uno sbiadito ostacolo nella ricongiunzione col vero essere. La persuasione scientifica jesiana, si regge sulla fusione sincretistica di antropologia, archeologia, critica letteraria e filosofica; queste discipline si liberano della loro chiusura andando a reagire l’una con l’altra fino a comporre una sorta di agente chimico in grado di ripulire i materiali mitologici dall’ideologia metastorica data da un riattualizzare empaticamente il mito stesso. Jesi nega la natura paradigmatica del mito, come antecedente fondativo, guida celeste. Lo stesso Pavese subì il potere mortifero di un approccio mistico al mito, nella sua ostinata ricerca di una esperienza metafisica, di un attimo estatico, fuori dallo spazio e dal tempo storico, di un barlume di illuminazione profetica, attimo di ispirazione pura, riattualizzazione del mito nella sua forma viva e pulsante. L’affanno, la snervante e logora bramosia di raggiungere quell’attimo, di bere alla sorgente, di dissiparsi nell’estasi di un

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momento illuminante rivivendo il mito nella sua purezza originale contraddistinguono l’atteggiamento che potremmo definire empatico nei rispetti del mito. Ci balza subito agli occhi essendo oramai stati più volte messi in guardia da Jesi quanto in primo luogo sia dannoso tale tipo di approccio nei riguardi del mito, ed in secondo ordine come tale atteggiamento eluda decisamente i già precari confini di una scienza mitologica. L’estasi di un attimo comporta il dissipamento puro dell’io, l’annullamento della personalità critica, l’oblio della ragione in favore di un attimo di ebbrezza mitica. Pavese cercava dunque la piena identificazione col mito, annullando se stesso, riducendosi a nulla, mirava a co-partecipare all’assolutezza dell’origine mitica, a strappare al tempo diveniente della storia, un attimo di pura eternità. L’interruzione del tempo della storia, l’annientamento della propria individualità per coniugarsi con un istante, potremmo dire, di pura bellezza, di conoscenza originaria, abbracciandosi e fondendosi al mito, divenendo egli stesso istante, attimo fondativo, precedente primordiale. L’uomo Pavese ci appare ben distintamente come uomo in fuga, prigioniero sofferente della propria mondanità, il

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suo essere terrestre e sottomesso alle leggi della natura storica, compongono le catene che gli fanno percepire il suo spirito schiavo della temporalità. L’evasione, il tentativo di fuga nell’attimo di perfezione estatica, è forse ciò che lo ha spinto ad abbandonare il nostro mondo; l’ultimo viaggio, il viaggio in assoluto verso i regni dell’Ade, diveniva l’orizzonte ultimo ed unico del quale far parte:

« ... come Cortez, mi sono bruciato dietro le navi. Non so se troverò il tesoro di Montezuma... farò il mio viaggio nel regno dei morti ».

Il feroce desiderio pavesiano di rivivere il mito, di riattualizzarne l’attimo estatico originario è forse ciò che lo ha spinto alla deriva, lontano dalla storia diveniente nel buio viaggio verso il regno dei morti. Pavese rinuncia volutamente alle resistenze critiche e si abbandona alla fascinazione del presunto mito, individua nella ricongiunzione mitica il ritrovamento del luogo comune, fonte opima della sua voce poetica.

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Gesto e linguaggio, la soluzione paradossale di Jesi

“ La genesi della realtà linguistica determinata dal flusso mitico è caratterizzata da un fenomeno di reminiscenza e quindi di rapporto con il passato, giacché il flusso del mito costituisce l'affiorare di un passato tanto remoto da poter essere identificato con un eterno presente, e tale flusso determina l'affiorare di immagini scelte fra quelle che costituiscono il passato latente nella psiche. “ 7

L’interazione mitologemica, l’innesco dell’ora ricettico-creativo è la coniugazione linguistica con un passato remoto che compone il corpus delle tradizioni umane. Il flusso mitico sgorga da remoti anfratti della storia degli uomini e giunge

                                                                                                               

7  Furio Jesi, Letteratura e mito, edizione piccola biblioteca Einaudi, Torino 2010,

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nella sua traslitterazione all’oggi presente, ricomponendosi in un nuovo pieno di attualità. Il congegno jesiano, la macchina mitologica è il luogo in cui il rabdomante individua la possibilità del riaffiorare di un bacino sotterraneo colmo di storia. In che senso, perché si adottano termini come tradizione, storia, dobbiamo riportare alla memoria ciò che abbiamo determinato in precedenza, definendo il mito, mito dell’uomo, insieme confuso di narrazioni sull’uomo. Di conseguenza l’attitudine mitologica, caratteristica propria dell’uomo moderno, impossibilitato dalla stratificazione irreversibile di un tempo lineare e storicizzante, è la possibilità di rinarrare i materiali mitologici non nella loro pura forma originaria, bensì nella loro nuova forma di storia odierna. Le storie non appartengono mai al passato, anche se parlano del passato, il fatto che siano rinarrate le vivifica rigenerandole in una forma linguistica attuale. Jesi parla di “ genesi della realtà linguistica determinata dal flusso mitico “; l’attività mitologemica, è propriamente un’attività linguistica, il riattivare non il mito, fantasma silente, ma la mitologia, corpus dinamico di materiali residuati di mito. Il linguaggio mitologico, determina la

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