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La macchina mitologica, struttura e funzionamento

Nel documento La macchina mitologica di Furio Jesi (pagine 30-54)

Cap II

Kerényi a Jesi: « Ciò che si può dire per i delinquenti e gli psicopatici proprio soltanto che - purtroppo per l'umanità - anch'essi sono uomini, delinquenza e psicopatia poggiano su malattie cui milioni sono esposti. Le cause della malattia devono essere individuate con precisione, le malattie, fin che è possibile, curate - in futuro. Questo intendo, quando dico: è l'uomo che dev'essere curato, e non il mito incolpato. Là dove nel mito il divino appare congiunto col " demonico ", il " demonico " è una partecipazione umana al mito: partecipazione del delinquente e dello psicopatico, la cui presenza deve sempre essere presunta nella storia dell'umanità, non la partecipazione del devoto, del vero sacro poeta e veggente, del legislatore e profeta. Chiudo con

questa “ professione di fede ", se Lei vuole - che però è anche una persuasione scientifica e una proposta di metodo ». 3

Analizzando attentamente le affermazioni del mitologo ungherese sopra riportate, ci balza subito agli occhi il concetto di partecipazione, di congiunzione dell’umano con il mitico, esposto nelle sue due possibili espressioni: quella definibile come genuina, da parte del “ …devoto, del vero sacro poeta e veggente, del legislatore e profeta ”, e quella definibile psicotica e malata, tecnicizzata, da parte del ” delinquente e dello psicopatico “. Kerényi pone tutta la sua attenzione sul soggetto che si coniuga al mito, sul suo approcciarsi sano o malato, alla sorgiva fonte di conoscenza. Egli mantiene il mito in uno stadio edulcorato, di purezza assoluta e ne vede la possibilità di perversione, di questa fonte di conoscenza, nell’atteggiamento e nelle capacità umane, innalzando il poeta alla posizione di visionario e profeta moderno. Non vede, il Kerényi,

                                                                                                               

nell’affacciarsi di là dai confini del razionale, un misticismo che eluda qualsiasi principio scientifico nell’approcciarsi al mito e alla mitologia. Per lui, “ professione di fede…e persuasione scientifica “ si coniugano nella figura del poeta, quasi un portatore sano del mito. Il mito determina l’origine sacra alla quale consacrarsi e sottomettersi in un moto conoscitivo- creativo, momento sinaitico dal quale forgiare i rapporti col mondo terreno. Questo atteggiamento ci conduce attraverso le campate di nuove cattedrali ideali fino all’altare di una rinnovata religione, antica come l’uomo, la religio mortis. Il poeta, bramoso di oltrepassare il contingente, e potremmo aggiungere di sorreggersi di fronte al terrifico sguardo della morte, finisce con l’abbandonarvisi inconsapevolmente, abbassando le resistenze critiche proprie dell’uomo moderno, risultato di secoli di sviluppo della ragione. Il poeta veggente si fa catturare dalla macchina mitologica, non riesce a vedere tale artificioso meccanismo e lo accetta con pienezza, abbandonandosi all’illusione con la certezza dogmatica di afferrare il vero. Il poeta, colui che, secondo Kerényi può abbeverarsi alla sorgente della verità, non ha ancora fatto un

passo verso l’uscita della Caverna, anzi non sente ancora il peso e la pressione delle catene come una costrizione, ma vede in esse una funzione ornamentale; solo, unico prigioniero privilegiato, gode dell’illusione spettacolare degli idoli nella loro forma al negativo, quella di ombre che offuscano l’ambizione del disincanto propria dell’uomo moderno, da Platone in poi. Le pareti della Caverna sono oggi di un acciaio impenetrabile e divengono componenti di una macchina più sofisticata, ma avente la medesima funzione di base; illudere, creare bevande artificiali in grado di dissetarci come l’acqua di sorgente. La macchina crea mitologie. Di che cosa abbiamo bisogno per contrapporci alle potenze dell’illusione? Quali sono le nostre armi per resistere alla morte nella trincea mitologica? Questi sono gli interrogativi che animano il pensiero jesiano, facendogli abbandonare il tracciato del maestro, per ritornare ad una presa di coscienza dei nostri rapporti con il trascendente storico guidati da un più attento moto critico. Il mitologo o poeta moderno non si sono mai liberati della presa allo stomaco della morte, di fronte ad essa si abbandonano lasciando il sarcofago d’oro che li protegge per immergersi nei regni

dell’Ade. Scrive Jesi: “ La mitologia è il cerchio contro la morte; ma anche: la mitologia è il cerchio che è tale poiché intorno ad esso preme la morte ”.4 Questa frase del nostro autore estrapolata dal

capitolo primo di Materiali mitologici, sul tema de I « pensieri segreti » del mitologo, un analisi del maestro Kerényi, ci mostra la mitologia come un insieme di materiali, di macerie che giungono a noi da un lontano passato mitico, tracciando un solco, fragile trincea che fa da confine tra il regno della vita e quello della morte. La mitologia disegna dunque un confine, l’avamposto dal quale si percepisce la presenza del nemico, ultima resistenza nei confronti dell’invasione mortifera all’interno dei nostri territori. La mitologia rappresenta questa sottile barriera sottoposta ad una pressione che viene dall’al di là; l’al di qua, un incavo più o meno sicuro dove ripararsi e condurre le nostre esistenze. Jesi imbocca la strada opposta a quella del maestro, sostiene la necessità imprescindibile di lottare contro la morte per la vita. Egli ha intuito come la mancanza di coscienza, come l’abbandonarsi al puro

                                                                                                               

4  Furio  Jesi,  Materiali  mitologici,  Einaudi  2004  p31  

irrazionale, concedendosi alle forze extraumane del mondo dei morti, abbia legittimato, sotto l’aura malvagia di una falsa veggenza, i comportamenti più nefasti e brutali della storia recente.

“ Rompere la sicurezza ideologica del positivismo e dello storicismo, o delle loro sopravvivenze e metamorfosi tardive, quanto alla negazione della sostanza del mito, ci sembra perciò un obiettivo indispensabile - così come, d'altronde, rompere la sicurezza di coloro che affermano la sostanza del mito per coerenza con posizioni ideologiche tali da fondare teoria e prassi dei rapporti sociali su valori extra-umani metafisici, di cui si esige epifania e riprova nel tempo e nello spazio della storia. “ 5

                                                                                                               

5  Furio  jesi,  Il  mito,  Isedi,  Milano  1973,  p107  

Jesi si contrappone con forza all’accezione di mito come sostanza autonoma in grado di tracciare dall’al di là della volta temporale i ritmi e le direzioni da seguire ed applicare nel mondo storico. In altre parole rifiuta l’accezione per cui l’uomo moderno tragga la sua guida morale da uno spazio metafisico e astorico, e che applichi all’ambito del diritto sociale valori di natura extra-umana. La devastante pericolosità di tale atteggiamento nei confronti del complesso metafisico, la rinveniamo nella legittimità di tale meccanismo sul piano storico-sociale, ovvero la dimensione legislativa, il contratto sociale suggellato su coordinate metafisiche nella dimensione della visionarietà profetica, porta con sé inevitabilmente un principio di non-responsabilità. Difatti dal momento in cui si accetta, e si legittima nei ranghi di governo, la figura di un aruspice, o quella di un imperatore-dio, o quantomeno di un regnante in grado di porre l’orecchio al di fuori del mondo storico, il suo agire nel mondo da lui regolamentato verrà sempre interpretato come l’attuazione di un eco metafisico, e per tale motivo egli si sottrarrà al giudizio morale e sociale, essendosi determinato in quanto ambasciatore, veicolo umano

di profezie dall’ignoto. Ma compiamo un passo indietro. Come ci è ben noto, Jesi ha alimentato il proprio interesse per lo studio del mito e della mitologia, seguendo la stria luminosa del maestro Kerènyi. All’interno della breve ma fremente vita del nostro autore possiamo rintracciare una parabola che ha origine con l’affiliazione intellettuale di Jesi per kerènyi e che ha una brusca virata che culmina con la rottura non senza asprezze del loro rapporto d’amicizia. Possiamo sommariamente distinguere due momenti nel pensiero jesiano, il primo in cui vi è una pressoché totale adesione e continuazione del pensiero Kerènyiano, ed un secondo, sovvertitrice delle radici stesse delle tesi del mitologo ungherese. Se prendiamo in esame il testo de Il mito, rinveniamo un sottocapitolo dedicato interamente al Kerényi, nel quale jesi espone l’intento del lavoro del mitologo ungherese, determinando con precisione che Kerényi era da sempre stato ben lontano dall’attribuire al mito ed alla mitologia il valore di sostanza extra-umana. Per Kerényi non esiste una sostanza extra-umana, alla base delle concezioni della “ destra tradizionale “, bensì la mitologia, ed il fare mitologico rappresentano una delle necessità ed attività

dell’essere umano, appartenenti decisamente alla sfera dell’uomo e dell’ambiente storico nel quale vive e si muove. Per Kerényi il ridestare materiali mitologici e modellarli in mitologia è comparabile all’attitudine musicale, appartiene all’ambito nel quale l’uomo si immerge nel corretto intento di ampliare la propria coscienza di sé. I materiali mitologici ci appaiono come le tessere di un mosaico incompiuto e sempre in via di compimento, come una sorta di giardino Zen del quale non ci interessa l’immagine stabile e definitiva, ma il moto perpetuo di composizione e decomposizione. Non si ha a che fare con una sostanza metafisica che permea la nostra coscienza ed alla quale ci abbandoniamo ad occhi chiusi lasciandoci trasportare senza alcuna resistenza; il processo mitologico è un attività propriamente umana, una facoltà dell’uomo nei riguardi dell’uomo. Kerényi trae la sua concezione cardine, ovvero compie una distinzione tra i due atteggiamenti possibili, le due accezioni del mito: il mito genuino ed il mito tecnicizzato. Jesi corregge il tiro del maestro parlando di mitologia genuina e mitologia tecnicizzata, mettendo al contempo in rilievo la poca chiarezza nel distinguere in maniera netta il mito in quanto tale,

quell’oggetto fantasma come sopra abbiamo affermato, e la mitologia, rielaborazione di contenuti mitici riaffioranti in forma di residui alterati del mito. Ritorneremo più avanti su quest’aspetto che sarà uno degli elementi che determinerà la rottura dei rapporti tra il maestro e l’allievo. Analizziamo dunque che cosa intendesse il Kerényi nel definire questi due aspetti antitetici del mito. Per mito genuino si intende l’evocazione spontanea e naturalmente disinteressata dei contenuti mitici, i quali si presentano alla nostra coscienza in maniera del tutto incontrollata ed inaspettata. Il mito tecnicizzato, al contrario, descrive la pianificata elaborazione di contenuti specificatamente selezionati per un determinato scopo. Kerényi stesso definiva il mito della “ destra tradizionale “ come mito tecnicizzato, mito sottomesso a precisi fini politici e sociali; rimando a potenze extra-umane in grado di determinare l’agire storico per bocca di statisti-veggenti. L’accezione Kerényiana del mito giusto, del mito sano, è quella di “ mito dell’uomo “, in altre parole di un mitologizzare che disveli i “ pensieri segreti “ dell’uomo e non di un entità metafisica, in altre parole, la mitologia ha il ruolo di elemento fondante all’interno

dei confini misterici dell’uomo. Siamo giunti ad un punto del nostro cammino per il quale i nostri due autori sembrano ancora incedere sostanzialmente spalla a spalla, Jesi rimarca ed appoggia il rifiuto kerényiano di attribuire al mito ed alla mitologia i ruoli di fonte metafisica e di veicolo dei flussi metafisici. Sia per Jesi che per Kerényi, potremmo dire che il mito ha origine nell’uomo ed è l’origine dell’uomo. Tale affermazione non era certo giunta ai due con chiarezza sin da subito, infatti se andiamo a setacciare le loro carte potremmo trovare punti di vista contraddittori alla posizione ora sostenuta.

« Se analizzo il più freddamente possibile la mia posizione vi ritrovo una specie di fatalismo […] . E’ giusto che Hitler e i suoi compagni siano stati puniti: altrimenti la vita non avrebbe potuto sopravvivere. Ma credo di riconoscere nell’opera di Hitler qualcosa che trascende le responsabilità umane; credo insomma che il vero colpevole degli errori del nazismo non sia l’uomo-Hitler, ma una forza temibile quanto gli

Angeli di Rilke che si è servita di quell’uomo, invadendo la sua volontà ».6

Qui scrive un giovane Jesi, circa ventiquattrenne, nella forma confidenziale della lettera esprime i suoi dubbi al maestro. Tale esempio mostra credo con chiarezza, le posizioni acerbe, ancora in via di definizione di Jesi, il quale nell’arco di non molti anni raggiungerà la sua piena maturità intellettuale determinando con tutta la forza necessaria il suo pensiero. Il dubbio espresso da Jesi a kerényi mira a determinare la natura del mito, il suo luogo di provenienza, mette in discussione il rapporto dell’uomo col mito. In altre parole il giovane pensatore torinese si interroga tentando di mettere in luce quelli che potremmo definire i “ pensieri segreti “ di Hitler e dei nazisti, e di delineare le responsabilità umane rispetto ad uno dei momenti più cupi della storia umana. Jesi specifica da subito di imbattersi in “ una

                                                                                                               

6    Lettera  di  Furio  Jesi  a  Karoly  kerényi  del  16  maggio  1965,  in  Karoly  

specie di fatalismo “, ovvero di ritrovarsi, quasi per una tutela della sana ragione, a deresponsabilizzare “ l’uomo-Hitler “, in quanto afferrato da una forza extra-umana terrificante e dalla violenza inaudita, che ha invaso la coscienza del Führer e dei suoi sottoposti, guidandoli all’odio raziale e semitico. La forza da cui tutto ha avuto origine, è una forza daimonica che si è impadronita delle coscienze di milioni di persone, le quali direttamente o indirettamente, hanno accettato che l’odio e la morte invadessero lo spazio vitale della società umana. In sostanza lo Jesi di quella lettera, è un giovane che non ha ancora ben afferrato una delle determinazioni cardine del suo pensiero compiuto; egli non era in grado di negare la sostanzialità autonoma del mito come forza metafisica capace di assoggettare la volontà umana fino a guidarla nelle regioni più oscure dell’essere. Di fronte ad un odio inumano, al tentato sterminio di un popolo, il giovane torinese sente la necessità di una spiegazione-accettazione fatalistica che metta in luce l’assoggettamento dell’uomo da parte di forze oscure e maligne provenienti da un bacino metafisico. Il pensiero jesiano negli anni assumerà posizioni opposte riportando la categoria della

responsabilità all’interno del mondo dell’agire umano, nel contesto storico dove si sviluppa la vita delle società umane. Il giovane Jesi della lettera sopra citata, esprime i suoi dubbi, le incertezze più profonde nel determinare i confini, i limiti dell’azione umana, nel definire con nettezza i parametri di una ricerca sull’uomo. Postosi di fronte alle brutalità del nazismo, la voce fatalista risuona per alleggerire le colpe dell’umano, attribuendo al misterico mondo dei morti la responsabilità di tale barbarie. Lo Jesi che vede affiorare nella notte Abu Simbel, illuminata dai fari artificiali, è ben lungi da visioni fatalistiche, ma si è autoprodotto gli strumenti necessari per non rimanere sguarnito di fronte alla suadente voce del potere.

La tentazione di un’alleggerimento morale nel riparo fatalistico non appaga la volontà puramente scientifica del più maturo Jesi, ed anzi lo mette in guardia sui pericoli sempre in agguato sul percorso di una ricerca intorno al mito. L’insieme, il corpus di riflessioni sui concetti di mito genuino e mito tecnicizzato, riconducibili ad un atteggiamento genuino o strumentale nei confronti del mito, innescano in Jesi i moti di un ermeneutica mitologica, processo dialettico fra la consapevole residuità del sé ed i residui del mito. Dobbiamo con forza sottolineare e analizzare a fondo ciò che abbiamo definito come residuità del sé, l’abbassamento della presenza non all’oblio più profondo e cieco, ma un’assottigliamento della volontà nella sua funzione di vigilanza. Nell’approcciarsi alla materialità accessibile del mito, la volontà, la coscienza del sano mitologo si lima, si contrae per dare spazio e partecipare al mitologema, mantenendosi attiva parte dialettica, contraente consapevole di un dialogo scomodo e pieno di insidie. L’infanzia, la morte, l’al di là, la prima ora sembrano mostrarcisi li ad un passo, e forse ci si mostrano nella loro alterata rappresentazione, ma dobbiamo tenere ben ferma la gamba al di qua di quel passo

che spezzi i legami con l’origine del nostro pensiero moderno sedimentato sulla ragione e sull’arbitrio della volontà. La resistenza, il vaglio della volontà come barriera difensiva, compongono la membrana che separa un sano approccio al mito e un’esser tecnicizzati dal mito stesso. Se ci allontaniamo un attimo dall’accezione di mito tecnicizzato, per accostarci e affrontare più da vicino il concetto di mito genuino, ci inseriamo propriamente nella polemica fra Jesi e kerényi. Jesi getta lo sguardo oltre le conquiste kerényiane individuando una sottocategoria, un sotto-atteggiamento alla genericità non risolutiva di mito genuino o insomma di genuino approccio al mito. In altre parole Jesi si sofferma non sul rapporto dell’uomo col mito, ma del rapporto del mito con l’uomo. La questione si sposta sull’esser tecnicizzati dal mito, ovvero sul costante pericolo di sottovalutare la pericolosità di quell’oggetto fantasma del quale non possiamo affermare con certezza l’esistenza. Questa barriera dialettica ci mette in relazione con i materiali mitologici ed al tempo stesso ci separa, ci tiene ben saldi all’interno del nostro apparato gnoseologico. Dobbiamo badare bene a non farci afferrare dal mito; fantasma, fantasia

notturna, ma abbiamo il compito, attraverso la lente dello scienziato moderno di maneggiare legittimamente i materiali mitologici, e non lo spettro mitologico. Per una scienza che sia tale, e che non si dissolva sotto la sua etichetta, sbeffeggiata dall’elusività del mito, i materiali mitologici sono ciò che fa al caso nostro, scorie modellate dal tempo storico e nel tempo storico, residui archeologici filologicamente e storicamente verificabili. Lo " spiegare " e l' " accettare ", atteggiamenti teologici o mistici, sono ciò da cui il nostro autore, e noi con lui, dobbiamo tenerci lontani. L’assunto di base che determina la posizione di scienziato del mitologema, è quella di non poter essere partecipi dell’esperienza mitica originaria, ne singolarmente ne collettivamente, in altre parole di non potersi identificare con coloro che abbiano avuto esperienze mitiche. L’ermeneutica mitologica jesiana è l’incipit dal quale prende vita la macchina mitologica. Jesi sa di non potersi occupare del mito in quanto privo di sostanza, ma è deciso a coniugarsi con i residui materiati dell’assenza del mito, quei materiali mitologici che si manifestano nella loro forma di opera mitologica, la quale si presentifica nel vuoto cavo della macchina alla presenza del

suo possibile lettore/interprete. In altre parole, si ha una macchina, un congegno d’acciaio del quale si presume che il mito sia il suo cuore, primo motore immobile che la anima. La stanza a cui lo scienziato mitologico ha accesso, è il palcoscenico vuoto, nel quale si anima lo spettacolo mitologico, ovvero nella quale l’interprete e l’opera mitica, non il mito, dialogano l’uno con l’altro nel vuoto presente della macchina. Le epifanie del mito, i residui del mito, si offrono alla momentanea interpretazione, concedono la flagranza di un momento di pura attualità mitologica. La macchina mitologica ci appare come un congegno in grado di far dialogare in maniera attuale i residui alterati del mito col mitologo- interprete, essa crea un vuoto, una sorta di spazio in assenza di gravità che permette l’attuazione di un ermeneutica mitologica. Rimane da sottolineare con forza la genuinità dell’atteggiamento, tenendo salda la consapevolezza di essere lontani dal mito, ma co-partecipi del mitologema, lettori/interpreti di un’opera in via di scrittura. Scrittura e lettura coincidono nel punto di interazione che fa del testo il risultato del dialogo tra l’opera ed il suo recettore-creatore. La

scientificità del discorso jesiano risiede nel rinunciare ad un atteggiamento empatico, mistico, di abbandonare la ricerca di ciò che non c’è, il mito, in favore di ciò che permane nella sua attualità, la mitologia nel suo complesso di materiali mitologici,

Nel documento La macchina mitologica di Furio Jesi (pagine 30-54)

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