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SEZIONE AMOROSA

I. [2r]

Scegli et amenda di tua propria mano Febo gli error de le mie rime nove; che, come indegne di mostrarsi altrove,

non le distrugga poi Lete o Vulcano. 4 Et, se tu le dettassi à mano à mano,

com'Amor fea di me diverse prove, purgale hor sì, ch'in loro altrui non trove, cosa, ch'offenda alcun giuditio sano. 8 Et, s'elle non andran famose et note,

come molt'altre, almen fia che si dica

ch'elle fur del tuo honor sempre devote. 11 Poco hebbi à studi miei fortuna amica,

pur rimarran, benché di gloria vote,

come reliquie di gran fiamma antica. 14

Sonetto incipitale delle Rime di Molin; ovviamente, trattandosi di una edizione post mortem, non è possibile affermare con sicurezza se l‟ordine di presentazione dei testi coincida con la volontà dell‟autore o dei curatori della stampa. Tuttavia, considerando il contenuto del testo, è impossibile non sottolineare la riflessione meta poetica proposta dall‟autore in questo sonetto. Molin, infatti, avanza considerazioni sul valore e sulla possibile fortuna della propria opera. Nel caso in cui dunque si accettasse come verosimile componimento di apertura è ineludibile il confronto con le poesie incipitali della tradizione petrarchesca.

Innanzitutto, in comune con numerosi celebri esordi si riconosce l‟invocazione rivolta non alle muse ma direttamente a Febo affinché lo aiuti a migliorare la sua scrittura permettendole così di perdurare nel tempo. Bembo, in particolare, scrive in Rime I, 5-8: Dive, per cui s‟apre Elicona e serra,

use far a la morte illustri inganni, date a lo stil, che nacque de‟ miei danni, viver, quand‟io sarò sotterra.

Il topos è più che mai tradizionale e affonda le sue radici nella tradizione classica; significativi sono anche i precedenti danteschi: Dante, infatti, si rivolge alle Muse in apertura di Inf. II, 7-9 e Purg. I, 7-12. Inoltre Dante, in apertura della terza cantica, porge la propria preghiera direttamente a Apollo, quindi Febo, perché al culmine di una climax stilistica (Par. I, 13-33). Sempre in linea con una tradizione poetica consolidata si ravvisa il topos modestiae espresso, nel sonetto di Molin, dall‟insistenza sulla necessità di “purgare” le rime, altrimenti capaci di offendere i lettori più raffinati (vv. 1-3 e 7-8). Il contenuto amoroso della sua produzione poetica è espresso al v. 6

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“com'Amor fea di me diverse prove”. Si noti, però, una differenza fondamentale con la tradizione precedente. Molin non accenna minimamente all‟amore come sofferenza o come errore. Si allontana dunque dai modelli di Petrarca, Bembo, Trissino, B. Tasso, i quali, al contrario, presentano l‟amore come un “giovenile errore” doloroso e terribile. Molin, semplicemente, dichiara di aver amato e che questi scritti ne sono la preziosa testimonianza (“come reliquie di gran fiamma antica”, v. 14). Nel sonetto il poeta non dimostra nemmeno la volontà di proporsi come modello. Il proposito paradigmatico è invece significativo in Bembo (I, 9-14) o T. Tasso (Rime I, 9-11). Un‟ulteriore differenza si riconosce nel fatto che il sonetto proemiale dei RVF, come è noto, si rivolge ai lettori. Molin non segue l‟esempio e rende la poesia una sorta di intima riflessione sul valore poetico delle proprie rime. Il poeta, nelle terzine, immagina che non avranno successo, non saranno ricordate e non saranno dunque oggetto di gloria. Tuttavia, ne riconosce il valore: al v. 11 per il contenuto (l‟essere state devote ad Amore coincide con una dichiarazione di sincerità e quindi di verità) e al v. 14 per la forma (le rime sono associate a “reliquie”, quindi elementi preziosi e rari). L‟auspicio della notorietà poetica contraddistingue anche il sonetto proemiale di B. Tasso, vv. 12-14 (cfr.

Rime I, CXXIV)1:

E forse a vita più tranquilla e lieta

volgendo l‟alme altrui, e a miglior speme, vivrò nelle memorie de‟ Mortali.

E Celio Magno, son. Non di porfido tomba eletto, e duro (c. 1), vv. 5-12: Questo, che di mia man schermo io procuro

contra l‟aspra del tempo avida lima; sia „l mio sepolcro: et se non d‟altra stima, d‟un generoso pegno sicuro.

Et, s‟è l‟incolto crin di lauro indegno, il pregio almen de la mia nobil brama d‟altra povera fronde il faccia degno. che perfetta non pur s‟honora, et ama virtù; ma di lei solo un‟ombra, un segno merta in premio benigno eterna fama.

Come in Petrarca, i sonetti immediatamente successivi della raccolta - qui non antologizzati - danno inizio ad una narrazione del momento preciso dell‟innamoramento con metafore tradizionali. Da un punto di vista formale, il sonetto non presenta lo schema metrico di RVF I, come invece numerosi sonetti proemiali nella tradizione petrarchista. Non condivide rimanti né parole rima con nessuno degli autori che Molin tendenzialmente assume a modello .

Tuttavia non si può trascurare che Celio Magno – non solo ne condivida il contenuto – ma riproponga il medesimo schema metrico del “maestro” (per la relazione tra Molin e Celio Magno cfr. p. XI).

1 A partire dall‟edizione del 1534 il presente sonetto divenne quello proemiale dell‟intero corpus delle

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Sonetto su 4 rime, tutte vocaliche, di schema ABBA ABBA CDC DCD; B ove) e C

(-ote) sono in assonanza; equivoca la rima “mano”: “mano” (1, 5); inclusive le rime

“altrove”: “trove” (3, 7) e “devote”: “vote” (11, 13); ricca la rima “prove”: “trove” (6, 7).

1-4. „Distingui e correggi di tua propria mano, Febo, gli errori delle mie rime giovanili che, come indegne di mostrarsi altrove, affinché non le distrugga poi Lete o Vulcano‟. ■ FEBO: epiteto greco del Dio Apollo, figlio di Zeus e di Latona e protettore delle arti, della musica e della poesia. Febo deriva dal gr. Φοῖβος (lat. Phoebus) e ha il significato di “splendente”: tradizionale, infatti, l‟equivalenza tra Febo e il Sole. Per altri riferimenti a Febo, come capo delle Muse e patrono della poesia, in Molin cfr. son. Poi

che pur tarda mia salute prima (c. 4r), 3-4 “pregate Febo voi, cui tanto honora/ col canto, che vi da si dolce in rima”; XIV, 87-8 “così Febo il permetta, et per lui sia/

gradita d‟ambo voi la penna mia”; XVI, 91 “Febo, c‟huom trar potea da morte a vita”; XLVII, 11 “et di Febo cantor sacro, et felice”; son. Venier, s'hor vi dà 'l ciel benigno in

sorte (c. 113r), 7-8 “onde poggiate, et su da l'alte cime/ Febo del monte suo guarda da

morte”; per una simile preghiera a Febo cfr. Bembo CXI, 1 “Pon Febo mano a la tua nobile arte”; Bembo CXXXV, 1-4 “Se mai ti piacque, Apollo, non indegno [= indegne, v.3]/ del tuo divin soccorso in tempo farmi/ detta ora sì felici e lieti carmi, sì dolci rime a questo stanco ingegno”; Della Casa XXXIII, 12-14 “Tu Febo (poi ch‟Amor men rende vago), / reggi il mio stil, che tanto alto subietto/ fia somma gloria a la tua nobil arte”; Stampa CCLXXVII, “Porgi man, Febo, a l‟erbe e con quell‟arte”. ■ ERROR: tradizionalmente nel significato di “vizi, devianza morale”, qui di “limiti formali, poetici”. ■ MIE RIME NOVE: per il sintagma cfr. Purg, XXIV, 50 “trasse le nove

rime…”; RVF 60, 10 “s‟altra speranza le mie rime nove”; Stampa CCLXXXVIII, 1

“Cercando novi versi e nove rime”; si ricordi anche il precedente virgiliano “nova carmina” (Virg.,Buc.III, 86); per “nove” nel significato di “giovanili” cfr. Santagata 2008, n.10 p. 312. ■ INDEGNE: riferito alla “bassezza stilistica” cfr. son. LXVIII, 7-8 “…et pur vorrei/ lodarla sì, ch'io non ne fossi indegno”. ■ LETE: fiume infero le cui acque danno alle anime la dimenticanza del passato: il riferimento mitologico allude al pericolo dell‟oblio; nella tradizione classica cfr. Platone, Repubblica X, 621 e Virg, Aen. VI 703-15 e 748-51; nella tradizione letteraria Purg. XXVIII, 121-33; TP, 121 “a la qual d‟una in mezzo Lethe infusa”; Bembo CXIV, 11 “ch‟io son di Lete omai presso a la riva”; Della Casa XXVI, 14 e LXXXVII, 7; B. Tasso son. Poi che con dotto stil candido

e puro (Rime II, LIX), 3; Stampa LXXXVIII, 7. ■ VULCANO: nella mitologia classica

corrisponde al dio del fuoco (Efesto nella tradizione greca) tradizionalmente noto per il suo forte potenziale distruttivo; per attestazioni precedenti cfr. RVF 41, 2-3 “l‟arbor ch‟amò già Phoebo in corpo umano/ sospira et suda a l‟opera Vulcano”.

5-8. „E se tu ora le dettassi di volta in volta come Amore fece di me diverse prove, purgale ora così che non si trovi in loro cosa che offenda alcun giudizio sano‟; l‟attacco di quartina è simile all‟attacco della prima terzina: “Et, s'elle non andran famose et note”. ■ DETTASSI: la speranza del poeta è di ricevere l‟ispirazione poetica; per concetto simile cfr. Bembo CXL, 4 “quando a rime dettarvi amore il chiama”; son. O

cara donna, io ben volea dir mia (c. 14v), 6 “Amor mi detta o cara, et dolce tanto”. ■ A

MANO A MANO: „di volta in volta‟; per il sintagma cfr. RVF 42, 8 “nel bel guardo

d‟Apollo [= Febo, v. 2] a mano a mano (: mano)”; TC II, 5 “tutto a sé il trasser due ch‟a mano a mano”; TF III, 16 “A man a man che lui cantando giva”. ■ PROVE: per la

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viso di costei (c. 6v), 7-8 “l'arco depose, et le maggior sue prove/ mostrava ne le piaghe

et stratii miei”. ■ PURGALE: „liberale dalle impurità, dalle corruzioni‟, riferito alle “rime nove” (v. 2); riferito alla composizione poetica cfr. il son. LXVI, 8 “fama, quanta può dar purgato inchiostro” e rimandi. ■ GIUDITIO SANO: per il sintagma cfr. canzone XVII, 42 “sano giudicio d‟affermar non teme”.

9-11. „e se quelle non diventeranno famose e note, come molte altre, che si dica almeno che quelle furono del tuo onore sempre devote‟. ■ FAMOSE E NOTE: per simile dittologia sinonimica in Molin cfr. son. XXV, 14 “si può nome acquistar famoso et chiaro”; la canz. XXXVII, 83 “per le scale d‟honor chiare et famose”. ■ TUO HONOR: riferito a Febo e quindi alla “poesia”. ■ DEVOTE: cfr. capitolo amoroso Già desiai con

dolce ornato stile (c. 55v), 40-2 “ma, se Febo a parlar così m'inspira,/ ben posso scusa

haver, né chi m'ascolta/ [c. 56v] devrà spezzar la mia devota lira” e vv. 118-20 “Tal privilegio a suoi devoti piace/ Febo donar, perché nessun presuma / romper cantando la sua santa pace”.

12-14. „Ebbi poco la fortuna amica ai miei studi, eppure rimarranno, benché prive di gloria, come reliquie di una antica fiamma‟; per sventure di ostacolo alla sua produzione letteraria cfr. Verdizzotti, Vita di G. Molin: “Non si volle mai congiungere in matrimonio per viver più libero, et per poter meglio attendere a i suoi studii, senza esserne distratto dall'obligo della cura delle cose famigliari, cercando egli sommamente la quiete; la quale (come dianzi fu detto) se ben gli fu interrotta spessissime volte con

gran danno de' suoi honoratissimi studii, nondimeno non han tanto potuto questi

accidenti esteriori, ch'egli superandogli con la prudenza singolare, che era in lui, non habbia lasciato molti e molti scritti degni di somma lode”. ■ STUDI MIEI: „opere letterarie‟; con la stessa accezione cfr. son. XXV, 12 “rendendo co' bei studi al mondo segno”. ■ FORTUNA: „sorte‟. ■ AMICA: „amichevole, favorevole‟; per simile concetto cfr. sestina XVII, 13 “non ebbe altr‟huom più amica sorte”. ■ RELIQUIE: „resti‟. ■ GRAN FIAMMA ANTICA: l‟amore del poeta per la donna amata; per “fiamma antica” cfr. Inf. XXVI 85 “Lo maggior corno de la fiamma antica” e Purg. XXX, 48 “conosco i segni dell‟antica fiamma”.

II. [3r]

Fatto son nel mirarvi, almo mio Sole, l'augel di Giove e in voi quanto più miro

lo sguardo affino e vo di giro in giro passando al terzo ciel, come Amor vole.

4

Nova Fenice poi m'accendo al sole de' bei vostr' occhi, et peto ivi, et respiro; e salamandra in sì bel foco spiro,

ch'ardendo godo, et nulla unqua mi dole.

8 Vivo senza mercé di un sol ristoro;

e pasco l'alma di sì caro affetto,

che mi fa gioia il duol, quand'io ne moro.

11 Sì foss'io cigno del mio amor canoro,

5 ch'io non invidierei Giove al diletto

ch'ebbe con Leda o Danae in pioggia d'oro. 14

Il sonetto di argomento amoroso sviluppa una situazione di carattere estremo, a cui corrispondono precise scelte formali secondo una strategia già petrarchesca (esempio evidente nella canzone 135 dei RVF). Innanzitutto il poeta dichiara di infiammarsi alla sola vista della donna amata e di morire in un fuoco che è definito “bello” perché provocato dalla donna stessa. Il topos tradizionale del “foco” d‟amore, elemento essenziale di ogni fenomenologia amorosa, è ben ribadito nelle quartine: si notino il termine “Sole” (ripetuto in rima ai vv. 1 e 5), “m‟accendo” (v. 5), “bel foco (v. 7), “ch‟ardendo” (v. 8). In particolare, ai vv. 8 e 11, si dà espressione al tradizionale paradosso d‟amore: l‟innamorato soffre e gode del proprio soffrire. Il concetto, ribadito esplicitamente, rappresenta il nucleo del componimento, ovvero la condizione estrema dell‟innamorato. Da un punto di vista contenutistico, nel sonetto, il poeta fa riferimento ad un bestiario mitologico tradizionale con il quale si mette a confronto per gli effetti d‟amore. Il protagonismo animale - si può anticipare - suggerisce il carattere “animalesco” dell‟amore del poeta che, evidentemente, è da interpretare in senso erotico. Nella prima quartina l‟innamorato si associa all‟aquila di Giove (vv. 1-4), nella seconda quartina ad una fenice per il fatto di prendere fuoco alla vista di lei (vv. 5-6) e ad una salamandra per il fatto di vivere nel fuoco (vv. 7-8), nell‟ultima terzina ad un cigno con una doppia valenza. Da un lato il cigno è tradizionalmente “canoro” e quindi adatto al “canto del poeta”, ma d‟altro lato anticipa il mito di Giove e Leda, a cui si allude nell‟ultimo verso. Secondo quest‟ultima interpretazione, si noti la perfetta circolarità delle trasformazioni eccezionali del poeta che, come Giove, prima è aquila e, infine, cigno. Questi trasformismi mitici non sono casuali, ma permettono di sottolineare un altro carattere fondamentale del sonetto. Il poeta, infatti, si associa a Giove, il dio che per i suoi amori lussuriosi anche Petrarca nel TC I aveva immaginato occupare il posto del carro che nella tradizione romana era riservata al condottiero sconfitto più illustre: “e di lacciuoli innumerabil carco/ vèn catenato Giove innanzi al caro” (vv. 159-160). Nella prima metà del XVI secolo gli amori di Giove avevano ispirato numerose opere, ai limiti dello scandalo, di natura erotica. In pittura è imprescindibile la serie realizzata da Correggio per il duca di Mantova Federico II Gonzaga avente per tema gli amori di Giove. Particolare scandalo diede il dipinto Giove

ed Io (1531-2, Kunsthistorisches Museum – Vienna). Nella serie sono proposti in pittura

anche i miti di Leda e Danae, entrambe citate da Molin. Per un‟introduzione alla pittura di Correggio cfr. Riccomini 2005.

In poesia è ineludibile, invece, il riferimento ai Sonetti lussuriosi (1526) di Aretino, conosciuto personalmente da Molin come testimoniato dall‟epistolario (cfr. Ed. nazionale delle opere di Pietro Aretino, Le lettere, a cura di Procaccioli; cfr. anche pp. I, VI e X). In particolare, si segnala il son. VII dei sonetti apocrifi dell‟edizione perché, proprio come nel componimento di Molin, si fonda sui trasformismi erotici di Giove. È sufficiente riportare la prima quartina:

Per Europa godere in bue cangiossi Giove, che di chiavarla avea desio, e la sua deità posta in obblio, in più bestiali forme trasformossi.

6

Per maggiori informazioni sui Sonetti lussuriosi cfr. Aretino, Sonetti lussuriosi a cura di Romei; per un‟introduzione ed un‟adeguata bibliografia sull‟erotismo poetico rinascimentale cfr. Tomasi 2014, pp. 9-17.

Per il legame tra mitologia ed erotismo in Molin si consideri anche la canzone Tre volte

avea l‟augel nuncio del giorno (c. 25r), che racconta l‟episodio di Marte e Venere

sorpresi durante l‟amplesso da Vulcano. La canzone, inoltre, è meritevole per due aspetti: da un lato consiste in un idillio mitologico in forma di canzone raccontato da Cupido al poeta, dall‟altro rappresenta forse l‟apice dell‟erotismo moliniano in quanto il poeta si sofferma molto accuratamente sulla descrizione del corpo di lei.

Nel sonetto, l‟eccezionalità della condizione dell‟amante - in linea con l‟impronta mitologica - rende possibile l‟equivalenza del poeta con due creature straordinarie: la “fenice” e la “salamandra”, ricorrenti nei bestiari medievali e dalle capacità incredibili. Da un punto di vista lessicale, si noti la presenza di ravvicinati e marcati latinismi: “peto” (v. 6) ed “unqua” (v. 8). In Molin non sono attestati altri usi dal latino petĕre, ma si attesta un altro uso dell‟avverbio “unqua” nel son. Se, come donna, che vagheggia et

mira (c. 15v – v. 4), sempre di argomento amoroso. Inoltre, i versi conclusivi presentano

punti di tangenza - anche da un punto di vista rimico - con la canzone 23 dei RVF, nota per essere uno dei testi più complessi di Petrarca. In particolare si ricordino i vv. 161-166:

Canzon, i‟non fu‟ mai quel nuvolo d‟oro che poi discese in pretïosa pioggia, sì che „l foco di Giove in parte spense; ma fui ben fiamma ch‟un bel guardo accense, et fui l‟uccel che più per l‟aere poggia, alzando lei che ne‟ miei detti honoro.

L‟eccezionalità del contenuto è compensata da una semplicità, e ridondanza, rimica e sintattica. Per quanto concerne le rime, sono tutte vocaliche con l‟eccezione di D (-etto), in ogni caso geminata e non complessa. Non si ravvisano, d‟altra parte, marcate alterazioni metrico-sintattiche (si segnalano al massimo le anastrofi della prima quartina). Il testo presenta principalmente un procedere paratattico, come è evidente sottolineando l‟insistito uso della congiunzione “e” ai vv. 2, 3, 6 (due volte), 7, 8 e 10. Inoltre i parallelismi sintattici riguardano anche le relative, sempre in apertura di verso (vv. 8, 11, 13 e 14). La ripetitività è confermata anche dal riproporsi di termini uguali: “mirarvi” - “miro” (vv. 1-2), “Giove” (vv. 2 e 13) e “sole” (vv. 1 e 5). Inoltre il componimento presenta una spiccata compattezza tra quartine e terzine. Per il contenuto, infatti, il poeta apre la poesia menzionando Giove e alludendo ad una sua trasformazione (vv. 1-4) e lo conclude con l‟allusione alle sue trasformazioni per gli amori di Leda e Danae (vv. 12-14), menzionandolo esplicitamente al v. 13 e di nuovo proponendo un volatile (non più un‟aquila, ma un cigno). Da un punto di vista formale, si noti la continuità consonantica tra la rima B e C e la vicinanza vocalica di C e D con la rima A.

Sonetto su 4 rime di schema ABBA ABBA CDC CDC; A (-ole) e C (-oro) condividono la tonica in -o; A e D (-etto) invertono le vocali; in consonanza B (-iro) e C; identica la rima “sole”: sole” (1, 5); inclusive le rime “respiro”: “spiro” (6, 7) e “canoro”: “oro” (12, 14).

7

1-4. „Nell‟ammirarvi, almo mio Sole, divento l‟uccello di Giove e quanto più (vi) guardo più aguzzo lo sguardo e raggiungo il cielo di Venere, come vuole Amore‟. ■ FATTO SON: attacco simile a son. LIV, 1 “Fatto son d'animal sacro, et gentile”. ■ ALMO MIO SOLE: „vivificante, datore di vita‟; per il sintagma “almo mio sole” cfr. Stampa CII, 11 “a star meco il mio sol almo rimena” e Stampa CCXLV, 44 “almo mio

sole…”; B. Tasso nella canzone II, XXXIX, v. 68 “ch‟io venisse a vederti [= mirarvi,

v.1] almo mio Sole (: duole)” e I, CXIII, v. 11 “ed io per riveder l‟almo mio Sole”; II, XXVII, v. 1 “Almo mio sol, che col bel crine aurato”. Più significativi però RVF 188, 1 “Almo Sol, quella fronde ch‟io sola amo” e B. Tasso nel son. Almo sol, tu col crino

aurato ardente (Rime I, XXIII, v. 1). Si ricordi il precedente del Carm. Saec. di Orazio,

v. 9 “Alme sol, curru nitido diem qui…”. ■ SOLE: è l‟astro di Apollo. ■ L‟AUGEL DI GIOVE: nella tradizione mitologica l‟aquila è l‟uccello sacro a Giove e simbolo dell‟autorità imperiale (cfr. DULI, p. 443). Oltre ad esserne il simbolo - perché la si credeva portatrice dei suoi fulmini - sono molti i racconti mitologici in cui Zeus si trasforma in aquila come nel caso del mito di Ganimede e di Europa; cfr. Ovidio, Met. X, 155-61; per espressioni simili cfr. Purg. XXXII, 112 “com‟io vidi calar l‟uccel di

Giove”. ■ GIOVE: in Molin anche nel son. Marte perché si pertinace e fero (c. 9r), v. 8

“che trar Giove tentò da l'alto impero”; nel son. Mentre l'horribil tromba in ciel risuona (c. 66v), v. 13 “…in ciel tenendo Giove”; nel son. Vide il sommo Fattor, quanto potea (c. 67v), v. 14 “promette, et farlo ad un Cesare, et Giove” e son. Apri homai Giove il tuo

più chiaro tempio (c. 67v). ■ AFFINO: riferito allo “sguardo” nel significato di

„aguzzo‟. ■ GIRO IN GIRO: cfr. Inf. XXVIII, 50 “per lo „nferno qua giù di giro in

giro”. ■ TERZO CIEL: il cielo di Venere. A questo cielo Dante dedica i canti VIII e IX

del Paradiso; per il sintagma cfr. RVF 142, 3 “che „nfin qua giù m‟ardea dal terzo cielo” e TM II, 172-3 “…la rota/ terza del ciel…”. Alle spalle è, ovviamente, il dantesco Voi

ch‟ntendendo il terzo ciel movete (Rime LXXIX). ■ AMOR: considerati i numerosi

riferimenti mitologici del sonetto è da identificare con Eros, il dio greco dell‟amore.

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