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“What is past is prologue” (Shakespeare, The Tempest, Act II). Quanto nel presente viviamo e vediamo evoca dal passato miti e memorie, passaggi ed incidenti della storia.

Se non si crede alla storia del serpente e della mela, dietro il

“Pa-radiso perduto” si può intravedere qualcosa di traumatico che deve esserci stato all’interno di quello che oggi si chiama ecosi-stema. E poi come diversamente spiegare il “diluvio universale” e la salvezza sull’“Arca”?

E poi incidenti della storia. Tipico quello di Sarajevo: un luogo re-moto, un fatto improvviso ed inaspettato, in sé drammatico, ma come tale non subito percepito. E tuttavia, poco dopo, la “Grande

guerra” e, con la caduta della vecchia Europa, la fine della

“bel-le époque”. La storia non si ripete mai per identità perfette, ma

Wuhan è stato (è) qualcosa che ricorda Sarajevo: un luogo remo-to, interno alla Cina, una inaspettata malefica scintilla sprigiona-ta dall’attrito tra due civiltà: una ipermoderna, l’altra rurale e per questo contenitore di usi e costumi millenari. Lo si può verificare sulla mappa luminosa del mondo (su “Google Maps”): la costa della Cina è iperilluminata, mentre l’interno (con dentro la iper-moderna Wuhan) è esteso su di una sconfinata superficie senza luce, e tuttavia con dentro molto più di mezzo miliardo di perso-ne. È forse anche questo un modo per capire che, se il virus non è venuto fuori da un laboratorio scientifico, certo è venuto fuori da un laboratorio sociale: dall’incrocio forzato tra passato e futuro. Una volta, nel pieno dell’età della globalizzazione, si usava dire che un battere d’ali di farfalla in Asia avrebbe causato un uraga-no in America. Comunque sia andata, il battere delle ali di un pipistrello in Cina ha causato una pandemia globale, portata da un

virus che ha seguito la “Via della Seta”, è passato dall’Iran per arri-vare in occidente. Le vecchie pestilenze si muovevano lentamen-te, camminando con le pulci o con i topi, questa ha viaggiato in aereo, portando con sé di colpo la fine della nostra ipermoderna “belle époque”. In specie, quello che è appena arrivato, è un virus che annuncia con violenza il ritorno della natura, della natura che per trenta anni era stata dimenticata o come sospesa per tutto il lungo, artificiale e dorato trentennio della globalizzazione.

Il darkside della globalizzazione

“…quando la storia compie una delle sue grandi svolte, quasi sem-pre ci troviamo davanti l’imsem-prevedibile, l’irrazionale, l’oscuro, il vio-lento e non sempre il bene. Già altre volte il mondo è stato dominato anche dai demoni”.

Questo ho scritto nel 2007 in “La paura e la speranza – Europa: la

cri-si globale che cri-si avvicina e la via per superarla”. Ma prima e tante altre volte ho detto e scritto, e per la verità non molto ascoltato, sulla necessità della prudenza, perché la cosa giusta, se fatta nel tempo sbagliato, e non in un tempo più lungo e più saggio, fatalmente finisce per diventare sbagliata.

Nel 1995, subito dopo lo startup della globalizzazione (WTO, 1994) ho scritto un libro intitolato “Il fantasma della povertà”. Un libro in cui cercavo di prefigurare, in controtendenza rispetto alla dottrina ed alla prassi dominanti, il non trascurabile dark side del-la globalizzazione: non solo il bene, ma anche il male che del-la globa-lizzazione avrebbe portato con sè. Ed oggi questo, con la

pande-mia, lo vediamo e lo viviamo. Altre volte su questa linea, anche in sede politica, per esempio all’interno del G20, usavo l’immagine del videogame: ci sei dentro, arriva un mostro, lo batti, mentre ti rilassi arriva un altro mostro più grande del primo… e così via! Il mutamento di paradigma

Questa volta il mostro è arrivato nella forma di un virus. Nella forma di un virus globale che dimostra e/o causa la intrinseca

fragilità del mondo globale.

Un virus che pone termine (o quasi) al fantasmagorico, felice ma artificiale trentennio della globalizzazione.

Un virus che già ora altera, ed altererà in futuro e di molto, il disegno dell’ingegneria sociale finora applicata al mondo globale. Ed è questo un cambio radicale nel paradigma finora positivo e

progressivo della globalizzazione.

L’apparizione del virus agisce in specie sul comune pensiero, in-dica che nel palinsesto della globalizzazione ormai niente è più sicuro, niente può essere escluso, qualcosa può sempre accadere. Ed è proprio in questo che si manifesta un decisivo, strutturale mutamento di paradigma. Un mutamento che ha ed avrà un im-patto non solo e non tanto economico, quanto soprattutto

psicolo-gico, e perciò un impatto ancora più forte!

Certo passerà anche il virus, neppure questa volta si concretiz-zerà l’ombra del verde cavallo dell’Apocalisse, e dunque il corso della vita riprenderà.

Ma non tutto sarà più come è stato finora nel glorioso ma fragile trentennio che ci è stato donato dagli «illuminati».

Il virus globale

Un primo guasto nel meccano della globalizzazione c’era già stato nel 2008 quando, con l’esplosione della “crisi”, prima crisi finan-ziaria, poi economica, poi sociale, infine quasi dappertutto politi-ca. Con la “crisi” per la prima volta si è in specie rotto il frenetico, interdipendente, interattivo meccano del mondo globale.

Questo del virus è un secondo guasto e più grave del primo. È certo vero che prima di questa c’è stata, nel ‘900, un’altra pan-demia: la “spagnola”. Ma questa volta è diverso.

Pur se tragica nei suoi grandi numeri perché venuta dopo le sof-ferenze ed i movimenti di massa portati dalla “Grande Guerra”, la “spagnola” non ha comunque modificato in termini significativi le strutture dell’esistente: un mondo che restava agrario, un mon-do che restava (proto)industriale, un monmon-do che restava

inter-na-zionale, pur se non globale.

Questa volta è diverso: a differenza di quello della “spagnola”, questo è un virus globale che esplode e circola dentro un mondo globale modificandone la struttura.

Quando si accende una spia rossa sul cruscotto della tua macchi-na, guardi la spia, ma poi cerchi il guasto all’interno della mac-china. A quest’altezza di tempo non è ancora possibile ricostruire il circuito delle cause e degli effetti, la sequenza dei fenomeni e degli epifenomeni o, come nella peste del ‘600, distinguere tra ciò che è accidente e ciò che è sostanza.

Ma, si ripete, sappiamo per certo che nel mondo che abbiamo da-vanti si è manifestata una forte rottura di continuità.

“La fine di un mondo”

Nel novembre del 2014, dopo le elezioni presidenziali americane, a Berlino il Presidente Obama ha detto: “Non è la fine del mondo, ma certamente è la fine di un mondo”.

Obama parlava della vittoria di Trump, ma già in qualche modo intuiva il principio di una discontinuità storica: la fragilità

dell’u-topia della globalizzazione e, non per caso, utopia vuol dire

non-luo-go. E, proprio così, la quintessenza della globalizzazione!

La storia, la storia che a partire dalla fine degli anni ‘90 era sta-ta ribalsta-tasta-ta con il passaggio da “Liberté, Egalité, Fraternité” verso “Globalité, Marché, Monnaie”, la storia che doveva essere finita sta-va in realtà tornando, accompagnata dalla geografia e con il carico degli interessi arretrati.

Oggi è di nuovo la storia che torna ed in più accompagnata, con la pandemia, dalla natura. E con tutto questo è la fine del “sogno”, la fine del sogno di vivere sotto il segno del divino mercato, gene-ratore di un mondo nuovo per l’uomo nuovo, riedizione del mito del

giardino dell’Eden.

Non poteva reggere perché, con la globalizzazione, la storia è sta-ta in realtà compressa ed esplosa, come mai prima era ssta-tato. E c’era da aspettarselo (e mi pare di averlo detto) perché il

tem-po della storia è quello della lunga durata. All’optem-posto, scorrendo all’indietro il corso della storia, è impossibile trovare una mutatio

rerum così intensa in un tempo così breve: 1989 (Muro di Berlino),

1994 (Marrakech, WTO), 1996 (seconda Presidenza Clinton, pas-saggio dalle vecchie alle nuove regole della finanza globale), 2001 (ingresso dell’Asia – soprattutto della Cina – nel WTO), 2008 (la prima crisi), oggi.

Non ci sarà più un unico mercato globale

Caveat. Quanto sopra è scritto per notare che quello che oggi è in

divenire non può e non deve essere visto da un lato solo: solo dal lato della pandemia o solo dal lato dell’economia. La visione deve e non può che essere complessiva.

Una volta sconfitto o domato o comunque ridotto quello che ora gli esperti ci presentano come l’impero del virus, la nostra vita – la vita civile, economica, sociale, politica – si svilupperà comunque, se non proprio sulle macerie, certo su quel che resta della

globaliz-zazione.

Ma verrà a svilupparsi - qui suppongo - in un mondo non troppo diverso da quello che c’è stato fino alla fine della seconda metà del ‘900, fino agli anni ’80-’90.

Ovvero: (i) si continuerà certo a vivere in un mondo di informa-zioni, di immagini, di segni, di suoni, di dati, in un mondo che resterà comunque unificato sulla rete nella dimensione virtuale; (ii) ma tuttavia in un mondo che, nella dimensione della realtà

reale, tenderà a tornare a come era stato prima o comunque non più livellato come prima nella logica della utopia globale.

Ed in specie (per me) è fortemente probabile che non ci sarà più un unico mercato globale (almeno nella forma totalitaria che fi-nora abbiamo visto); che non ci sarà più una dimensione politi-ca unipoliti-ca, questa per noi certo rappresentata dalla democrazia, ma questa vista come una costruzione progressiva, e non come un prodotto istantaneo da “esportare” ovunque, anche in Asia, come se si trattasse di una commodity, come a suo tempo è stato a

parti-re dalla politica del WTO.

Più in generale: non global order e Washington consensus, ma global

disorder e Washington dissensus.

Un mondo nel quale la realtà reale tenderà in specie a rientrare in quelli che per secoli sono stati i confini degli Stati.

Un mondo che, all’interno di questi confini, vedrà il ritorno della

politica, un mondo con interessi, valori e principi quali per secoli sono stati prima dell’utopia globale. Ma questa (mia) è solo una prospettiva tendenziale, non automatica, non fissa. Sul futuro si possono infatti formulare anche numerose alternative varianti. Quattro ipotesi sul futuro

Sul futuro più o meno prossimo è in specie possibile cominciare a formulare, seppure in estrema sintesi, quattro ipotesi essenzia-li: un’ipotesi che si sviluppa lungo una linea orizzontale; un’altra ipotesi che si sviluppa lungo una linea ascendente; un’altra che si sviluppa invece lungo una linea discendente; infine un’ultima ipo-tesi che si sviluppa lungo una linea discontinua.

Più o meno come segue:

Proviamo a sviluppare queste figure un po’ più in dettaglio: a) l’ipotesi orizontale. Finito il lockdown si torna in un mondo tale e quale al mondo di prima. Solo va conteggiata la perdita di PIL per due/tre mesi. Come è in questa pubblicità commerciale: “Questa crisi è innescata da un fattore totalmente estraneo all’economia mondiale (sic!) …non si è cioè formata da sola, per cause a sé intrinseche (sic!) come solitamente avviene… appena vi saranno le condizioni opportune, le stesse economie si sbloccheranno!”; b) l’ipotesi ascendente. L’araba fenice usa librarsi in volo dopo le