• Non ci sono risultati.

ITALIA E RESTO DEL MONDO L’italia e la globalizzazione

Lucrezia Reichlin

ITALIA E RESTO DEL MONDO L’italia e la globalizzazione

Tra il 2008 e il 2020 si è manifestata una contraddizione che oggi, dopo la nuova crisi del Covid-19, appare ancora più evidente. I problemi che dobbiamo affrontare – la sostenibilità ambientale, i flussi di migranti e rifugiati, la instabilità finanziaria – richie-dono soluzioni globali che sono possibili solo con maggiore co-operazione globale. O ci si isola – il che è impossibile e anche contro-producente - o si deve cooperare. Ma – e questa è la con-traddizione – la cooperazione è oggi quanto mai difficile poiché è vista con sospetto da una società sempre più divisa che si è sentita tradita dalle promesse della globalizzazione e, in Europa, da quelle dell’integrazione europea. Una società che quindi si è ripiegata su se stessa e sull’illusione che populismo e nazionali-smo possano fornire le risposte. Tutto ciò complicato dal fatto che gli Stati Uniti hanno perso interesse a giocare un ruolo di

leader-ship nel mondo, la Cina sta emergendo come un secondo polo in un conflitto geopolitico sempre più allarmante con gli Stati Uniti, e l’Europa sembra smarrita.

Oggi, riflettendo sul mondo dopo la crisi del Covid-19, questa contraddizione essenziale è quantomai evidente.

E per questo è importante sensibilizzare la società civile e com-battere spinte nazionaliste che è inevitabile si rafforzino ulterior-mente in Paesi spaventati dalle conseguenze della crisi. Una ri-sposta astratta, tecnocratica, non può funzionare.

I temi che la comunità internazionale dovrà affrontare insieme sono molti. La mancanza di preparazione alle crisi pandemiche che il Covid-19 ha rivelato suggerisce che nel futuro avremmo bisogno di maggiore coordinamento sia nella modalità della mi-tigazione del contagio, per evitarne la propagazione trasnazio-nale, che nella ricerca, per beneficiare della scala globale della comunità scientifica. Ma il coordinamento sarà necessario anche per evitare che la montagna di debito pubblico e privato che

ri-sulteranno da questa crisi, sia digeribile dall’economia globale e per far sì che questa crisi non ne generi un’altra – di tipo finanzia-rio - nel prossimo futuro.

Anche in questa crisi – come nel 2008 – l’architettura finanziaria basata sul dollaro e sul debito, si dimostra fragile. Le strategie di investimento ad alta leva finanziaria che la hanno preceduta, hanno creato tensioni in alcuni segmenti del mercato dei capitali e una crisi potenzialmente devastante nei Paesi emergenti. Bisogna rendere il sistema finanziario internazionale più solido rafforzan-do la regolamentazione, ma anche ripensanrafforzan-done l’architettura prevedendo meccanismi più robusti di prevenzione e

manage-ment delle crisi. Questo richiederà non solo cooperazione ma uno sforzo di riforma del governo economico internazionale e delle sue istituzioni. Particolarmente preoccupante oggi è fragilità dei Paesi più poveri. Il Fondo Monetario Internazionale prevede che molti di essi siano a rischio di “default”. È chiaro, che per affron-tare la loro crisi del debito sovrano bisognerà offrire soluzioni innovative che implichino non solo la ristrutturazione, ma anche moratorie, prestiti concessionali e trasferimenti. Chi prenderà la

leadership di questa riforma?

Nonostante questi problemi sembrino lontano dal noi, una rispo-sta inadeguata alla crisi del mondo emergente significherebbe, oltre ad un rallentamento della crescita mondiale che indiretta-mente ci colpisce, una maggiore pressione dei flussi migratori verso l’Europa che, come abbiamo sperimentato, sono difficili da gestire e più fondamentalmente l’emergere di nuove forme di co-lonialismo economico.

Un altro problema della economia globale che ci riguarda è quel-lo del futuro delle catene di vaquel-lore gquel-lobali. Le catene di vaquel-lore sono la forma moderna del commercio internazionale, veicolo che – in principio – permette di sfruttare i vantaggi comparati e favorisce maggiore competitività. Oggi sono additate come una delle ragioni della poca resilienza dei singoli Paesi di fronte alle crisi, ma ci si scorda che esse permettono di produrre in modo più

efficiente e sono anche il veicolo fondamentale del trasferimen-to tecnologico, fattrasferimen-tore importante per la convergenza economica tra Paesi. La tendenza all’on-shoring era già presente prima della crisi e ci si può aspettare che si rafforzerà, ma una rinazionalizza-zione della produrinazionalizza-zione non è auspicabile. Comporterebbe meno efficienza e più diseguaglianza tra nazioni. Ciò che a me sembra importante – invece – è ragionare su come trovare il giusto equi-librio tra efficienza, che implica la globalizzazione delle catene, e resilienza. Questo da un lato è un problema di management del ri-schio, cioè mantenere scorte e pezzi essenziali a casa a scopo pre-cauzionale, ma comporta anche scelte strategiche per trattenere in patria quelle attività che hanno maggiori esternalità positive soprattutto per la crescita del capitale umano e dell’innovazione. Significa – in altre parole - sapere governare la globalizzazione e non farsi governare da essa.

L’Europa

La discussione sull’Europa è intimamente legata a quella del go-verno della globalizzazione. L’appartenenza all’Unione Europea ha per l’Italia un significato strategico che va ben al di là della motivazione economica. L’Europa è potenzialmente un asset per un Paese come il nostro. La sua forza collettiva da voce ai paesi membri sulla agenda globale, voce che altrimenti non avrebbero. In principio li protegge da instabilitá economica e finanziaria e offre opportunità di cooperazione su vari fronti.

Inoltre, l’Europa è certi versi un modello molto avanzato di de-mocrazia e protezione sociale, il più avanzato del mondo. Farne parte ci ancora a valori di progresso.

Tuttavia oggi questo modello è in crisi e appare inadeguato a rispondere alle nuove sfide della tecnologia, del cambiamento climatico e del mal governo della globalizzazione. E questa è la ragione del crescente divario tra istituzioni/governo europeo e opinione pubblica. Senza riforme profonde l’Europa continuerà a deludere e a perdere il sostegno della societá civile che è

pro-prio la condizione per quel processo di maggiore integrazione economica e politica di cui abbiamo bisogno per riformarla. Ma questo processo di riforma è complesso e implica alleanze e competizione tra forze politiche e Paesi diversi in una situazione in cui i partiti tradizionali – sia cristiani che socialisti – sono in cri-si ovunque e in cui le turbolenze di questo decennio hanno creato divisioni e rancori tra Paesi. Il futuro dell’Europa non è scontato e l’adeguatezza con cui saprà rispondere a questa crisi determinerà se prevarrà il declino o una ripresa di iniziativa.

Non scordiamoci che la motivazione per il progetto Europeo si è rafforzata negli anni. Lo stato nazionale non basta più proprio perché molti problemi connessi alla globalizzazione hanno una connotazione sovra-nazionale.

Ma l’agenda non può essere una generica domanda di solida-rietà. La riflessione che bisogna cominciare a fare con i nostri par-tners europei è che l’impianto del Trattato di Maastricht – una fe-derazione asimmetrica con moneta comune ma bilanci nazionali e il principio di sussidiarietà – non funziona più.

Al minimo abbiamo bisogno di meccanismi più robusti per il management delle crisi e per la salvaguardia del mercato unico e dell’integrazione economica in tempi di stress. Per esempio, abbiamo bisogno di strumenti fiscali comuni che accompagnino l’azione della BCE a sostegno della domanda e di altri che im-pediscano la segmentazione dei mercati finanziari all’interno dell’Unione ogni volta che si manifesta una crisi. Questi strumen-ti richiedono forme di condivisone del rischio, chiaramente con-troversi, ma necessari.

Al massimo, abbiamo bisogno di progetti ambiziosi basati su va-lori comuni e che possano accompagnare una crescita sostenibile. Questo sarà possible solo capendo che l’evoluzione della globa-lizzazione fa sí che le aree su cui abbiamo bisogno di agire insie-me sono enorinsie-meinsie-mente allargate negli anni (si pensi alla gestione dei rifugiati e al clima, ma non solo). Per questo una interpreta-zione ristretta del principio di sussidiarietà è inadeguata.

Ma questa agenda è impossibile senza una maggiore integra-zione politica, cosa possible ma certamente oggi non matura. Ed è impossibile senza democratizzare il processo, rendendo i cittadini, sia del Nord che del Sud, partecipi. In questi giorni di aspri negoziati non bisogna perdere il filo della conversazione e la consapevolezza della grossa posta in gioco perché il percorso è lungo e pieno di insidie.