In un convegno nazionale dei critici drammatici a Riccione svoltosi nel giugno 1967, Mario Raimondi riflettendo sulla funzione del critico formulava l’idea di un «critico che non stia più dentro al pubblico ma che intervenga direttamente, col gruppo, alla composizione dello spettacolo, fissandone i termini e le possibilità ultime. Il critico, insomma, “operatore politico”». 404
Sembra che questa formulazione lucida di Raimondi incontri e faccia sistema nella figura critica di Giuseppe Bartolucci che, secondo il ritratto fornitone da Moscati, «aveva identificato la sua vita e la sua carriera con una cosa che allora stava venendo prepotentemente fuori: l’intellettuale che organizzando il proprio lavoro, determina linee di tendenza e stabilisce situazioni di potere e di influenza. Da questo punto di vista è stato il più abile manoviero e il più lucido (…)».405
Bartolucci era un coacervo di contraddizioni vitali, era capaci di tenere assieme le cose più disparate, i sentimenti e i comportamenti più lontani tra loro, come la tenerezza e il cinismo, lo storicismo e il formalismo più estremo, la pazienza didattica e l’insofferenza più intollerante. 406
E proprio il cinismo sembra essere la chiave di volta per inquadrare l’operato critico di Bartolucci. È lui stesso a utilizzare quel termine, quando in un incontro con Attisani nell’ambito della rassegna
«Confezioni d’avanguardia» (1985) diceva:
«Io penso che la prima rivendicazione che si debba fare è che l’avanguardia esiste e che va rivendicata la parola stessa. Credo che di fronte agli spettacoli e ai gruppi sorti negli ultimi anni sia giusto,
indispensabile, riproporre questo termine. L’avanguardia esiste. Io non so cosa voglia dire che “i giochi sono finiti”. Rispetto all’avanguardia i giochi non sono finiti, semmai cominciano, perché abbiamo di fronte una serie di spettacoli e di gruppi sui quali si può veramente contare e per i quali ricercare un tipo di pratica artistica e un atteggiamento globale. Io stesso, a proposito della postavanguardia, quando si diceva dei rapporti fra tradizione e avanguardia, dicevo “non parliamone”: era un’astuzia per portare avanti un discorso. Però questo si pone anche per quelle che allora si chiamavano altre tendenze, o brutalmente Terzo Teatro. Bisogna ripartire con forza e decisione, con sufficiente cinismo. Io ho sempre praticato il cinismo – e direi che mi è andata bene, sono sempre sopravvissuto, se non altro personalmente – e cinismo vuole dire lucidità operativa, pratica artistica e anche, se volete, tendenze».407
Italo Moscati leggeva in questa operatività di Bartolucci “un gusto rabdomantico e prestidigitatorio, per tenere in vita l’avanguardia stessa. Bartolucci aveva capito che nell’epoca dell’informazione dei mass media, ciò che conta è l’etichetta e più dell’etichetta, che qualcuno ci creda. Le riviste erano
disponibilissime a pubblicare su queste cose articoli e fotografie anche in numerose pagine”. 408
Allora è nello sguardo, nella theoria critica di Giuseppe Bartolucci che va ricercata una via poetica all’estetica delle mutazioni. Scrive Evola che il teatro ha una funzione fondamentale nell’epoca della progettualità tecnologica della comunicazione e dei linguaggi. La comunicazione è il luogo delle
404 C. M. Pensa, Discussioni oziose su un inesistente nuovo teatro, «Il Dramma», n. 371/372 (1967), p. 117
405 A. Campanella, Intervista a Italo Moscati-1991, in Anna Campanella, Storia di una rivista teatrale: “Teatro” (1967-
1971), Tesi di Laurea, Relatore: Chiar.mo Prof. Arnaldo Picchi, Università degli studi di Bologna, anno accademico 1990-91, p. 369
406 A. Attisani, Beppe in discesa nel tempo, «Biblioteca teatrale», n.48, ottobre-dicembre 1998, p. 91
407 Trascrizione di un incontro fra Giuseppe Bartolucci e Antonio Attisani (Carpi, 23 feb.1985) nell’ambito della
rassegna Confezioni d’avanguardia, ora in A. Attisani, Beppe in discesa nel tempo, «Biblioteca teatrale», n.48, ottobre- dicembre 1998, p. 95
408 A. Campanella, Intervista a Italo Moscati-1991, in Anna Campanella, Storia di una rivista teatrale: “Teatro” (1967-
1971), Tesi di Laurea, Relatore: Chiar.mo Prof. Arnaldo Picchi, Università degli studi di Bologna, anno accademico 1990-91, p. 387
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domande e delle risposte da sollecitare. La tecnica trova una volontà di potenza espansiva nei media. È fondamentale comprendere l’estetica nell’epoca della tecnologia e nel nuovo flusso della
comunicazione. Un uso attivo e dunque “poetico” del linguaggio diventa una possibile risposta alle forme di dominio culturale e dell’informazione. Una risposta al dominio dei modelli imposti dallo spettacolismo e dalla omologazione verso il pensiero unico e la noia mortale del presente. Nella complessità del flusso di informazioni, il gesto poetico è una interruzione, una richiesta di risposte che necessita di una capacità di farsi sguardo, gesto e “parola poetica”.
La profonda conoscenza dell’estetica della comunicazione che Bartolucci aveva maturato grazie a una precoce formazione giornalistica, il critico la mette a disposizione, già nei primi anni settante, per un insolito battage pubblicitario da più parti riconosciutogli e/o imputatogli, come tattica di sostegno ad un certo teatro da lui amato. A partire dalla fine degli anni Settante, però, una nuova istanza viene ad aggiungersi modificando e caricando di intenzionalità politica questo suo operare per parole definitorie e immagini metaforiche colorando di politicità il senso, per lui urgente, di procedere a ciclica messa a morte e ricreazione di quell’araba fenice che è l’avanguardia.
Di pari passo, infatti, con l’incrementarsi parossistico dei sistemi di comunicazione di massa, con la velocità magmatica delle informazioni ora date e già dimenticate, la necessità di procedere a una
semplificazione didascalica della realtà teatrale data esemplarmente per titoli concisi e accoppiamento di dati diventa una chiara strategia di depistaggio e camuffamento che, quali azioni di teatro di guerriglia metropolitano tende unicamente, attraverso la mole imponente di denominazioni ed etichette, a
preservare da morte effimera l’identità di un ininterrotto, costante flusso di sperimentazione e di ricerca.
La formazione letteraria
Nato a Pesaro il 18 agosto 1923, ma gravitante sin da giovanissimo nell’ambito della vita culturale milanese --grazie anche all’influenza di sua sorella, Delia, attrice con Strehler del Piccolo Teatro— Giuseppe Bartolucci consegue una laurea in lettere all’Università di Bologna e intraprende giovanissimo la sua carriera giornalistica e letteraria.
Una prima raccolta di articoli e saggi brevi, composti da Bartolucci nel biennio 1944-1945 dal titolo Socialismo e marxismo409 ci offre il ritratto di un intellettuale poco più che ventenne che già si muove con
acume e familiarità alla ricerca di una definizione marxista (o in più ampio senso) socialista del
materialismo storico, con l’avvertenza che solo quando si fosse tenuto fuori dal discorso il materialismo filosofico, sarebbe riuscito più vivo e più vero il parallelo fra marxismo e socialismo.
Il libro è interessante, oltre che per le prese di posizione politiche del giovane Bartolucci, per ricostruire attraverso una serie di ricche note premesse ai testi, momenti e punti di riferimento che lo avevano modellato durante gli anni della formazione.
Così, a chi, nei primi anni universitari a Bologna, l’accusava di perdurante ed ingenua sottomissione al pensiero crociano, Bartolucci faceva notare la difficoltà di abbandonare una dottrina alla quale si era «continuamente abbeverato, come base fondamentale di antifascismo, assieme allo storicismo dialettico del De Ruggiero, sensibilmente in disaccordo con il Croce, e alle esperienze liberali rivoluzionarie del Gobetti e del Rosselli, e al filone d’oro del liberal-socialismo, sorto alla scuola Normale di Pisa negli anni 1935-36, attorno alla personalità di Guido Calogero e all’operosità del Capitini».410
Estetica crociana e marxismo sono i capisaldi di quegli anni universitari passati da Bartolucci in meditate letture pionieristiche e circospette da condividere con pochi, strettissimi amici fidati, mentre proprio la severità di quell’ambiente predisponeva l’animo a uno stoicismo meditativo, ma operoso:
409 G. Bartolucci, Socialismo e Marxismo, Rovereto, Edizioni Delfino, 1946
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«Quante peripezie sostenute per ottenere in lettura La storia del liberalismo europeo e come buffe poi a permesso avuto, le circospezioni con cui il bibliotecario ci affidava il tomo di volta in volta, con la raccomandazione di leggerlo nell’angolo più morto e quieto della sala: ma perché, dicevamo noi divertiti, non si sa mai, rispondeva lui con quella vocina stridula impaurita, non si sa mai. Più volte rileggemmo con crescente stupore e ammirazione, l’ultimo capitolo della Storia di Europa del secolo XIX del Croce, inebriandoci all’inno vero e proprio della libertà, espresso in quelle pagine di chiusura. E se oggi con più scaltra preparazione ci avviene di sorridere di quegli entusiasmi ed ebbrezze, non
sappiamo e non possiamo tuttavia obliarne il grato sapore. Sia detto, per inciso, che quel primo anno di università, pur tra smarrimenti e delusioni, naturali in un novizio, ci fu di incalcolabile vantaggio allo spirito, perché ci abituò nel severo cotidiano cibo di biblioteca ad educare la coscienza ancor vergine, e a consolidare l’innata disposizione alla meditazione. Pochi furono gli amici allora, ma molti i libri divorati. Avevamo, a consolazione della nostra solitudine, preso l’uso di ripetere la sera, il verso di Rilke: Wer ietz allein ist, wird es lange bleiben».411
Sempre in quegli anni, si forma in Bartolucci un certo gusto per le “scoperte” e anche quella capacità strategica, un misto di tattica, cocciutaggine e pazienza con cui aggirava gli ostacoli e riusciva, infine, ad ottenere testi irreperibili per gli altri.
« (autori, ndr) che imparammo a conoscere o meglio ad annusare, in note biblioteche di provincia dove, per la divina pigrizia dei segretari, non era stato ancora falciato lo schedario, o in bibliotechine private di proprietà a lettori di buon gusto e spericolati. Ci mettemmo un tempo disperati alla ricerca di tali
introvabili testi, sovente senza successo, e se talvolta un caro amico o un fedele insegnante o una donna di buone lettere alle nostre calde richieste ce ne procurava uno, quei saggi, e quei romanzi quali attente letture suscitavano la sera e circospette e maliziose. Io credo che il nostro senso della lettura si sia formato proprio su quelle pagine proibite e condannate, nella stessa guisa con cui all’adolescente il senso della vita si organizza spiritualmente al magico irrispettato divieto della femme. Letture saporose come pesche mature, letture di sangue come melograni sgranati, di quali sussulti, di quali improvvise rivelazioni noi giovani lettori vi siamo debitori (…)».412
La sua formazione letteraria insieme alla frequentazione di quell’ambiente culturale effervescente che, a Milano, era capace di generare riviste e imprese editoriali dai caratteri assolutamente inediti- è il caso della casa editrice creata da Giangiacomo Feltrinelli-, gli danno le occasioni per scendere direttamente in campo e a mettersi alla prova con la composizione, nel 1956 di un libro tra arte e romanzo, Neve di Milano 413 con disegni di Attilio Rossi, e nel 1957 del primo romanzo Lettera d’amore 414 - per il quale
viene segnalato al Premio Strega di quell’anno e anche come giovane promessa del romanzo italiano insieme a Vasco Pratolini, Elio Vittorini, Valerio Bertini e Anna Banti in un dossier della rivista parigina La Table ronde415 dedicato per l’appunto all’Italia 1957.
Il romanzo di Bartolucci era stato “scoperto” e sostenuto da un intellettuale sui generis come Luciano Bianciardi che in quel periodo, tra il 1956 e il 1957, lavorava per e con Giangiacomo Feltrinelli alla realizzazione dei primi volumi della collana Gli Scrittori d’oggi della neonata casa editrice.
È Maria Jatosti, compagna di Bianciardi, a ricordare la passione che colse Biancardi alla lettura di quel primo romanzo di Bartolucci.
411 G. Bartolucci, Lussu e il partito d’Azione, giugno 1945 in id., Socialismo e Marxismo, citazione in F. G. Forte,
Bartolucci prima di Bartolucci. Il pensiero politico, «lo stato delle cose», n.s., 3 (19), 2011, p. 65
412 Da Socialismo e Marxismo, citazione in F. G. Forte, Bartolucci prima di Bartolucci. Il pensiero politico, «lo stato
delle cose», n.s., 3 (19), 2011, pp. 64-65
413
G. Bartolucci A. Rossi, Neve di Milano, supplemento di Linea Grafica- rivista del Centro di Studi Grafici di Milano, Milano, Scuola Grafica Salesiana, 1956
414 G. Bartolucci, Lettere d’amore, Milano, Feltrinelli, 1957
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«Mi leggeva lui stesso, questi testi, magari a letto. Ricordo Lettera d’amore di Bartolucci: ci tenne svegli tutta una notte. La mattina dopo, quasi all’alba, chiamammo l’autore dicendogli emozionati: “È bellissimo! Lo pubblichiamo senz’altro”. Bartolucci divenne più tardi nostro coinquilino».416
Al primo romanzo ne seguì un secondo Le notti di Mosca417 pubblicato nel 1959 da un editore sui generis
e anarchico come Veronelli.
Tra critica e giornalismo: gli anni dell’Avanti!
Dal 1954 al 1962 Bartolucci collabora stabilmente con i quotidiani l’«Avanti!» allora diretto da Tullio Vecchietti e «Stasera» per i quali, segue in qualità di cronista e critico letterario, prima, e di critico teatrale, poi, i primi passi e gli sviluppi di autori come Pavese, Gadda, Testori e Pasolini. Collabora, poi, anche con la rivista di Pietro Nenni «Mondo Operaio» e, dalla fine degli anni Cinquanta con altre riviste specializzate, tanto letterarie quanto teatrali, come «Il Verri» e «Sipario».
Ma è sul quotidiano «l’Avanti!» che Bartolucci matura al meglio le sue competenze di pubblicista, critico redattore e accompagnatore tanto degli esordienti letterati quanto dei giovani collaboratori di redazione. Per capire l’ambiente che alla redazione del quotidiano organo del Partito Socialista accolse Bartolucci possiamo rifarci alle parole di Goffredo Fofi che tracciando un bilancio di quegli anni afferma:
«Per chi, come me, si occupava di politica, quello era un periodo atroce, più ancora che sotto il
fascismo. C’era ugualmente un regime autoritario e in più la Chiesa, capillare, quotidiana, efficacissima. Il Pci era incredibile: quando Guareschi chiamava i militanti comunisti trinariciuti, era perfettamente vero. Era una razza a parte, piena anche di brava gente, ma settaria, dura, moralista. Quelli che capivano qualcosa stavano nella cagnara socialista, che era proprio una cagnara. Però se oggi si vanno a vedere le pagine culturali di quel periodo, sull’‘Avanti!’ si scoprono testi di Lu Hsun, Simone Weil, Hannah Arendt, Franco Fortini, Aldo Capitini, i dibattiti sui consigli operai, Raniero Panzieri. Mentre sull’‘Unità’ c’era il conformismo moscovita più bieco, Antonello Trombadori, Mario Alicata, lo stesso Togliatti. Sbandieravano il realismo socialista e davano del pederasta a Pier Paolo Pasolini».418
Sulle pagine dell’«Avanti!» scrive, del realismo meridionale di Rea, dei versi di Scotellaro, della prosa Gadda, Testori e Pasolini.
Di Testori, per esempio, scrive nel 1958:
«Testori […] mescola una sensibilità tutta moderna di interpretazione della […] vita dei suoi personaggi […]. In tal modo la rappresentazione artistica acquista un impasto nuovo, di fattura culturale: amalgama di nostalgie letterarie, di invettive sociali e di concessioni ambientali che davvero non si saprebbe come classificare, se non le si riconducesse all’estro di Testori e a un suo eccitato ricamo inventivo […]. Si intende che il procedimento di Testori richieda alla lunga un ardore maggiore o un ritorno addietro: direi una semplificazione o una ramificazione intensa. Ed in questo senso la sua opera […] ha bisogno di un’attesa: affinché si chiarifichi la densità del linguaggio, o riducendosi o ampliandosi a dovere».419
Da cultore teatrale fu tra i pochissimi che nel 1953 riuscirono a cogliere il senso e a entusiasmarsi per Spettacolo del secolo, il libro di Pandolfi, indubbiamente uno dei libri più importanti del dopoguerra teatrale, a cui l’ex regista-intellettuale aveva cominciato a lavorare sin dagli anni del «Politecnico» e che presentava, in maniera del tutto inedita, una critica come studio del negativo con la segnalazioni di tutte
416 A. De Nicola, Appendice in id. La fatica di un uomo solo. Sondaggi nell’opera di Luciano Bianciardi traduttore,
Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2007, pp. 193-194
417 G. Bartolucci, Le notti di Mosca, con prefazione di Giansiro Ferrata, Milano, Veronelli, 1959
418 G. Fofi in P. Corrias, Vita agra di un anarchico. Luciano Bianciardi a Milano, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 151 419 G. Bartolucci, «Avanti!», 6 settembre 1958
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quelle sottovalutazioni e mancanze che avevano caratterizzato il nostro Novecento teatrale: dalla mancanza di attenzione nei confronti della regìa dei pionieri alla mancanza di memoria per
l’avanguardia storica, dal mancato dialogo con i teatri stranieri fra le due guerre alla mancata sensibilità per le ribellioni teatrali emergenti.420
Della sua attività di critico e responsabile della terza pagina de «l’Avanti!» ci offre un quadro lo stesso Bartolucci quando, per il Capodanno del 1957 decide di pubblica sulle colonne del quotidiano il suo personale Rendiconto in sordina:
«Quest’anno come contare gli articoli letti, i titoli, le bozze, i racconti cestinati, le inchieste, i servizi, le lettere spedite e quelle rimaste nel cassetto: come disporli in lunghissima fila e passarli in rassegna? Ed è pur l lavoro di trecento giorni: ore e ore di metodica pazienza su una sedia, con le forbici e la colla e il telefono accanto; ore e ore di tipografia, ad aggiustare piombo e foto e a battagliare con il proto per una didascalia, ore e ore di discussioni con colleghi e collaboratori e con il direttore verso la mezzanotte, quando il cervello è stanco e l’umore nero, e in gola il sapore delle sigarette fa a pugni con l’aroma dei caffè.
La terza pagina in una stanza modesta e nuda che pare una cella; sulle pareti neanche un quadretto, e i tavolini uno accanto all’altro, con le sedie e la macchina per scrivere in un angolo. Se arriva una corrispondenza da Mosca o da Berlino o da Parigi, più che mettere sul primo foglio «sette corsivo marginato ai lati» non è possibile, e mandarla in tipografia senza fiatare. Ma si vorrebbe una volta tanto essere anche noi per l vie di una città straniera, e curiosare attorno; raccontare come sono fatti i russi, come si vive a Parigi, e passeggiare di notte per il centro di Berlino, si vorrebbe. (…)
Non vi dico i dispetti, le incomprensioni, gli intralci che mi si sono accumulati sul tavolo quest’anno. Quante suscettibilità, invidiuzze, debolezze di carattere. Una donna che scriva racconti, e brutti racconti, dirà sempre che io non la posso soffrire, se glieli cestino, e come non farlo? Ed un tale che scriva poesie, e sarebbe meglio pensasse ad altri, mi odierà per tutta la vita, se mi ostino a negargli l’accesso alla terza; ed è una questione d’onore per me. E ci sono i vanitosi, i timidi, i bisognosi: con letterine di minaccia, di adulazione, di ritrosia. Che si indovina la loro pena e l’orgoglio: e non basta scrivere loro in fretta e meccanicamente. Li si desidererebbe conoscere, e far parlare, indovinare una loro qualità: ed aiutarli insomma a esprimere se stessi. Essere cordiali, fratelli loro, senza presunzione. In verità spesso si è costretti a buttare giù due righe, o a non rispondere nemmeno: il tempo ci afferra, la fretta ci toglie amorevolezza, la superficialità d’animo ci rende aridi. E le occasioni di umanità sono sempre minori.
Eppure è sufficiente un articolo ben scritto, indovinato nella composizione e diritto diritto nello stile, per procurare soddisfazione. Mi sono messo a sfogliare le terze pagine di quest’anno: ed oserei dire che siamo stati in parecchi a eliminare aggettivi superflui, a distruggere avverbi inutili, a rendere il periodo conciso. Settimana per settimana, quasi inavvertitamente. Come i collaboratori si squadrassero e si fossero messi in gara. Come tutti quanti desiderassimo produrre bene ed efficacemente. Ed allora diventa un lavoro grato, la terza pagina: quando un collaboratore intuisce quel che tu desideri, senza molte parole, e io so già il tono, la misura, il decoro di quel che scriverà domani; quando un altro di sua iniziativa consegna un corsivo, una recensione, un servizio, di quel tono, di quella misura e di quel decoro. Nei giorni di noia, in quelli di nero lavoro, di ingrati risultati; e in un anno non ce ne sono pochi; queste piccole ma sicure soddisfazioni ci sono di aiuto. Come con i «sette corsivo marginato ai lati» e con gli «otto bodoni marginato a destra» fossimo riusciti a rendere più sicura una scrittura di collaboratore, e a dargli una fisionomia più precisa e incisiva. A vantaggio del lettore naturalmente. Che ha gli occhi aperti, e non si lascia sfuggire le scontrosità e la poca chiarezza ed i salti di stile».421
Ne vien fuori, nel tratteggio del suo personale rapporto con gli scrittori mancati o alle prime armi e in quell’altro, interno al lavoro di redazione, con i collaboratori della terza pagina, i sintomi di una
420 C. Meldolesi, Fondamenti del teatro italiano. La generazione dei registi, Firenze, Sansoni, 1984, p. 387
421 G. Bartolucci, Rendiconto in sordina, «Avanti!», 1 Gennaio 1957 ora in «lo stato delle cose», n.s., 3 (19), 2011, pp.
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disponibilità maieutica d’ascolto e di un rigoroso lavoro intorno alla definizione/creazione di uno stile che si dispiegheranno, poi, pienamente nel suo operare accanto e insieme alle forze e agli individui che