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La tendenza a procedere verso la seconda barbarie si manifesta in al- cuni momenti di svolta, momenti nei quali è importante che la classe dirigente operi con lucidità e competenza, cioè attivando quella che Vi- co chiama «mente pura». Da ciò l’opportunità di soffermarci sulla po- sizione di Vico, presente in diverse interpretazioni del suo pensiero nel corso del Novecento. Questo momento di svolta viene descritto come successivo alle due altre fasi, più normali, che il filosofo napoletano così descrive nella Degnità LIII: «Gli uomini prima sentono senza avvertire; poi avvertono con animo perturbato e commosso; finalmente riflettono con mente pura». Queste terze fasi, quando coincidono con momenti di svolta importanti e irrevocabili, possono essere indicate come «mo- menti costituenti».

Secondo questa chiave di lettura, lo Stato moderno, la cui nascita for- male gli storici delle istituzioni datano al 1648 (pace di Vestfalia con cui viene chiusa la Guerra dei Trent’anni), acquista la propria strutturazione più matura con gli Austriaci, tra il 1683 (anno della vittoria sui Turchi dopo il secondo assedio di Vienna) e il 1733 (anno in cui Wirich Philipp von Daun smette di essere governatore di Milano ed è già sicuramente conclusa la parte tecnica di misurazione dei rendimenti delle proprietà da accatastare). L’Austria e i suoi generali di questo periodo strutturano lo Stato moderno sull’organizzazione dell’esercito moderno (quello con organizzazione gerarchica e ‘in serie’ per la trasmissione dei comandi). Questo tipo di esercito si è costruito lentamente nel corso della guerra dei Trent’anni e nelle guerre successive.

Dopo la vittoria nel secondo assedio di Vienna (anno 1683), ricaccian- do indietro i Turchi, gli Austriaci liberano vasti territori fino a Sarajevo e mettono i loro generali a governarli. Questi adottano, nell’amministra- zione, la loro logica militare e sperimentano nuove strutture ammini- strative centralizzate e gerarchizzate. Gli Austriaci arrivano a governare, con questo sistema, in Italia, sia Milano (Governatore il generalissimo principe Eugenio dal 1707 al 1716 e poi il generale von Daun dal 1725 al 1736), sia Napoli (Governatore, dal 1707 al 1708, e poi viceré, dal 1713 al 1719, Von Daun). Di alcuni limiti di questa visione gerarchizzata e centralizzata nello Stato e nell’amministrazione si accorge, a Napoli, Giambattista Vico.

A Padova, agli inizi degli anni Novanta, l’opera del filosofo napole- tano viene interpretata come l’inizio di una critica alla organizzazione dello Stato moderno2. Non privo di significato, e non solo una coinci- denza, va considerato il fatto che le sue due ultime orazioni (il De nostri temporis studiorum ratione, più semplicemente nota come De Ratione, piena

2 G. Gangemi, Continuità e discontinuità nel pensiero di Vico, «Riv. int. fil. dir.», 2008,

di speranze riformiste e di consigli alla nuova classe dirigente austriaca, e l’ultima del 1719, disillusa e poco convinta, non pubblicata e di cui si è perso il testo, tranne una decina di righe) gli siano state richieste con in- tenti di farlo pronunciare su una precisa situazione politica: il momento in cui si è appena conclusa ciascuna delle due esperienze napoletane di governo di von Daun (1708 e 1719).

Vico scrive il De Ratione, ma anche le grandi opere successive, sulla base della consapevolezza di quanto successo, nel secolo precedente, in Gran Bretagna. È stato in questo Paese che, nel XVII secolo, si è speri- mentato per la prima volta che, per inserire spazi di democrazia dentro lo Stato gerarchizzato, sono fondamentali i movimenti di opinione pub- blica di cittadini e/o di intellettuali e scienziati. Questi movimenti, nel periodo tra il 1660 e il 1680, sono riusciti a sottrarre l’esercito al control- lo personale del re e a passarlo al controllo dello Stato e del Parlamen- to, mentre la mobilitazione dell’opinione pubblica colta, dietro Robert Boyle e i suoi esperimenti scientifici, è riuscita a contrastare l’influenza di Thomas Hobbes come filosofo e come teorico dello Stato centraliz- zato e gerarchizzato. Queste esperienze hanno influenzato le opere più importanti di John Locke, che a loro volta hanno influenzato la filosofia di Vico, anche se il filosofo napoletano ha evitato di esplicitare questo debito intellettuale, dati i rischi che pensava avrebbe corso per l’avver- sione della Chiesa cattolica per le teorie lockiane.

Saltando dall’inizio alla fine del secolo, un altro processo che ha pro- dotto numerosi movimenti collettivi è la rivoluzione francese, che è ri- uscita a inserire spazi di democrazia rappresentativa nello Stato assoluto, lasciando inalterate le strutture centralizzate e gerarchizzate di questo (co- me ha giustamente mostrato Trentin, nella lettura che, della sua opera, ci offre Dal Pra). Sul piano formale, con quella rivoluzione si è affermata la democrazia rappresentativa come oggi la pratichiamo. Sul piano sostan- ziale, la democrazia rappresentativa ha solo costituito una cornice dentro la quale si sono potuti attivare, legittimamente, altri movimenti collettivi. Come è noto, la democrazia rappresentativa ha cominciato con un suffragio minoritario: solo i maschi con alto censo (soprattutto proprie- tari), perché molti sostenevano che chi non ha un censo sufficiente, la maggioranza, è, per ciò stesso, in conflitto di interesse, in quanto, si di- ceva, avrebbe tutto l’interesse a votare leggi che espropriano le proprietà private per renderle collettive; poi, solo i maschi con capacità di leggere e scrivere, perché chi non ha questa capacità non potrebbe informarsi o comprendere i progetti politici dei partiti o dei candidati in competizio- ne e, quindi, non potrebbe essere in condizione di scegliere con cogni- zione di causa; inoltre, solo i maschi e non le donne, perché queste, non godono, al tempo, degli stessi diritti dei maschi e, in particolare, sono soggette, finché nubili, all’autorità paterna, per passare, da sposate, sotto la tutela dell’autorità maritale.

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Il riconoscimento di diritti in base alla legge ordinaria o in base alla Costituzione vigente non necessariamente garantisce la possibilità di go- derne effettivamente: esemplare il caso degli Afroamericani negli Stati del Sud, in USA, dove, a un secolo e passa dalla fine della guerra civile che li ha emancipati dalla schiavitù e li ha resi formalmente cittadini al pari dei bianchi, queste minoranze politiche (che, a volte, sono numeri- camente la maggioranza) non riescono, in molti Stati del Sud, a iscriversi nelle liste elettorali. Di conseguenza, non votano, non possono svolge- re il ruolo di giurati e finiscono per essere condannati da giurie bianche per il minimo sospetto di reità, mentre le stese giurie assolvono i bianchi colpevoli di gravi reati contro i neri.

Il che conferma l’ipotesi che, spesso, solo l’attivarsi di movimenti col- lettivi riesce a contrastare la tendenza delle classi politiche di governo e delle élite di partito a non dare applicazione alle proprie leggi e rego- lamenti. L’esistenza di una classe politica tendente a ridurre gli spazi di democrazia negli Stati e nei partiti, è stata dimostrata da Gaetano Mo- sca e Robert Michels.

L’importanza del ruolo dei movimenti collettivi viene segnalata, ne- gli ultimi decenni, da una vasta letteratura internazionale, che eviden- zia la loro funzione fondamentale contro la tirannide della maggioranza e a favore dell’apertura di spazi di partecipazione per le minoranze più attive. Una letteratura che viene alimentata dal proliferare quasi virale di nuovi movimenti collettivi dopo il 1968.

Per citare pochi esempi già noti e studiati, Judith Lewis Herman segna- la che il movimento anticlericale e repubblicano, nella Francia dal 1880 al 1900, ha originato le esperienze mediche e sociali che hanno portato alla formazione di un clima intellettuale che ha favorito la nascita del concet- to di isteria e che ha contribuito non poco alla nascita della psicoanali- si. I movimenti collettivi sviluppatesi negli USA dal 1865 al 1915 hanno cambiato, lentamente e profondamente, i partiti, che, secondo le teorie di Michels, tenderebbero a strutturarsi in modo centralizzato e gerarchizzato (secondo la legge ferrea dell’oligarchia)3. Purtroppo, spesso, questi movi- menti hanno operato solo a favore dei bianchi, come si è già detto accen- nando agli esempi degli Afroamericani del Sud degli USA, prima che si attivasse il movimento per i diritti civili guidato da Martin Luther King. Altrove, come in Italia, dove ogni movimento collettivo viene guar- dato con sospetto anche da coloro a cui si pensa come a degli alleati, la democrazia rimane sempre molto debole. Esempi storici significativi di queste pratiche di sospetto (e a volte di repressione ingiustificata) sono stati: il movimento sanfedista del 1799, il cui leader, cardinale Fabrizio

3 Cfr. G. Gangemi, Le direct primaries come contributo alla riforma dello Stato negli USA

Ruffo, viene tenuto sotto controllo, anche prendendo in ostaggio il fratel- lo, dal re legittimo, Ferdinando di Borbone, che teme il troppo successo del suo cardinale e la notorietà da lui conquistata; Camillo Benso con- te di Cavour, che diffida e blocca i Garibaldini, il cui eccessivo successo porterebbe, a suo parere, a una maggioranza parlamentare di sinistra nel nuovo Parlamento italiano, come spiegano gli importanti discorsi par- lamentari di Giuseppe Ferrari sulla politica interna nell’ex Regno delle Due Sicilie; i Fasci Siciliani, diventati movimento di massa di contadini senza terra e repressi dall’esercito anche se i fascianti, come ci ha spiega- to Napoleone Colajanni, sono talmente poco eversivi da gridare «viva il re! Abbasso il sindaco!» ecc.

A maggior ragione, si guarda con sospetto a intellettuali che si mettono al servizio e alla guida dei movimenti collettivi. Vedremo più avanti in che modo e da chi questi intellettuali vengono stigmatizzati. Perché avviene, in forme meno tragiche, quanto osservato da Joseph-Marie de Maistre, a proposito della rivoluzione francese: «prima di far lavorare la ghigliot- tina delle teste, è stata messa in opera la ghigliottina delle reputazioni».

Lo stigma, ovviamente, interviene a colpire laddove non funzionano le normali lusinghe della classe politica per far mettere chi gli può essere d’aiuto al servizio dell’amministrazione. E così, gli intellettuali si divi- dono in due per le posizioni che assumono: da una parte, i (purtroppo) pochi che sostengono che la «seconda barbarie» di Vico è sempre e so- lo responsabilità di chi governa perché non è stato all’altezza di (non ha avuto la mente pura per) individuare e correggere outcome (cioè sotto- prodotti) non previsti o, peggio, conseguenze che potevano facilmente essere previste e non lo sono state; dall’altra, i (purtroppo) troppi che so- stengono che qualsiasi grave disordine è sempre e solo responsabilità di chi intralcia e ostacola le decisioni, soprattutto se si tratta di cittadini che protestano o si mobilitano contro le decisioni della classe politica. Que- sti ultimi intellettuali predicano anche la necessità di separare l’impegno intellettuale dall’impegno politico, ovviamente solo per chi si mobilita nella società, mentre sono favorevoli all’impegno politico di quanti si trasformano in consiglieri e consulenti del principe.

Tra gli intellettuali che sono contrari all’impegno politico a favore dell’attivazione in movimento dei governati abbiamo personaggi come Cesare Lombroso e quanti si mettono contro le donne quando comin- ciano a sottrarsi all’autorità paterna e maritale. Ma poiché le donne sono (ancora per poco) sotto controllo, dentro le mura domestiche, i movi- menti contro i quali deve essere rivolta la stigmatizzazione di Lombroso e di altri sono quelli che rischiano di sfuggire ad ogni controllo. Lo stig- ma è tanto maggiore quanto maggiore è il pericolo che essi rappresenta- no e viene portato fino al punto di ipotizzare processi di degenerazione della razza e del senso morale: 1) dei cittadini dei Paesi colonizzati che non vogliono assoggettarsi alla forzata e armata civilizzazione europea,

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e si oppongono con le armi; 2) dei cittadini delinquenti degli slums del- le nuove città industriali; 3) dei Meridionali che non gradivano l’ordine politico imposto con l’esercito.

Per quanto riguarda le donne, ci si limita a sostenere che, come delin- quenti, sono più cattive dei maschi, sono meno intelligenti, più emotive e ‘uterine’. E naturalmente si sostiene che non sia il caso di concedere loro il diritto di voto. Ma non si va oltre.

2. La chiave di lettura del federalismo di Trentin elaborata a Padova

Dal 1984 al 1994 ho condotto una lunga ricerca sulla genesi del fede- ralismo, alla conclusione della quale ho proposto, per uno studio centrato sulla formazione politica di Giuseppe Zanardelli4, il concetto di «federali- smo antropologico», ossia un federalismo che non mette in discussione le istituzioni centralizzate e si concentra sulla costruzione delle autonomie delle persone, degli imprenditori, degli agricoltori, attraverso l’istruzio- ne, la costruzione di banche locali, di associazioni di self help ecc. Alla luce di quanto ho appreso sul giovane Zanardelli, quando Elio Franzin e Mario Quaranta mi hanno messo a disposizione una consunta e appe- na leggibile fotocopia de La crise du Droit et de l’Etat di Silvio Trentin, mi sono subito reso conto che questo studioso ha sviluppato una versione teorica molto matura e consapevole di quel federalismo antropologico. Dopo la lettura de La crise, mi sono posto subito il problema di verifica- re se esistesse e se, esistendo, si potesse ricostruire il filo conduttore che porta da Zanardelli a Trentin.

Un volume di atti (La scienza moderata. Fedele Lampertico e l’Italia libe- rale), pubblicato da Renato Camurri nel 1992, ma da me letto più tardi, mi ha permesso di individuare in Angelo Messedaglia l’intellettuale e politico in diretto contatto con Zanardelli (erano amici e hanno studia- to con gli stessi maestri sia a Verona, sia a Pavia) e nei suoi allievi, Fedele Lampertico, Emilio Morpurgo e Luigi Luzzatti, altri federalisti antro- pologici e, con essi, il filo conduttore che lega in una scuola tre genera- zioni di studiosi e politici attivi: Zanardelli e Messedaglia, la prima; gli allievi di quest’ultimo, la seconda; Silvio Trentin, la terza. Questi, come è noto, considera Luzzatti il suo «venerato maestro».

Questa idea di un Trentin che porta a maturità un filone di pensie- ro federalista originatesi nei territori dell’ex Serenissima (Zanardelli era bresciano) – territori che non erano stati toccati dalla riforma del cata- sto portata a compimento nella Milano degli Austriaci – viene consi-

4 G. Gangemi, La questione federalista. Zanardelli, Cattaneo e i cattolici bresciani, Liviana-

derata molto interessante da alcuni federalisti padovani e posta alla base dell’attività del Centro Studi Silvio Trentin di Padova, che si è costitu- ito il 28 gennaio 1996.

Il Centro inizia i propri lavori a partire da due ipotesi, da conside- rare strettamente collegate tra loro: 1) va distinto il pensiero teorico di Silvio Trentin elaborato in opere cui si dedica nei momenti in cui non sente premere l’urgenza della lotta politica (il 1929-1935 e il 1939-1940) dal pensiero più eminentemente pratico e più direttamente legato all’a- zione; 2) va vista una continuità nel pensiero teorico di Trentin che si articola in tre grandi opere: Les transformations récentes du droit public ita- lien, del 1929, La crise du Droit et de l’Etat, del 1935, e Stato Nazione Fe- deralismo, del 1940.

Le tre opere di Trentin strettamente legate tra loro vanno lette insie- me in quanto rappresentano un’unica interpretazione del perché il fa- scismo si sia affermato e abbia finito di prevalere per mezzo di semi di totalitarismo che sono stati gettati al momento della costituzione dell’u- nità italiana. Queste tre opere osservano, interpretano e descrivono lo stesso processo di trasformazione dello Stato unitario nazionale nel cor- so di due generazioni (sessanta anni) alla fine delle quali la democrazia italiana entra in crisi (Trentin parla di crisi dello Stato e del Diritto). In questi tre volumi, la crisi dello Stato italiano e lo sbocco nel fascismo vengono osservati da tre prospettive diverse, tutte costituenti lo stesso percorso verso la seconda barbarie:

1) la Costituzione formale dello Stato unitario monarchico: Trentin stu- dia lo Statuto Albertino, graziosamente concesso da Carlo Alberto nel 1848 per il Piemonte ed esteso all’intera Italia, e ne descrive i limiti e le inadeguatezze;

2) la critica della cultura che ha costruito la costituzione materiale del- lo Stato unitario e la presentazione della cultura su cui la costituzione materiale avrebbe dovuto in passato e dovrebbe in futuro impostarsi in una democrazia: Trentin critica positivismo e neopositivismo giu- ridico e sostiene che la democrazia e il federalismo si debbono fondare sul Diritto naturale (e sull’Etica e sulla Logica naturali che con questo vanno di pari passo), mentre la piemontesizzazione dell’Italia ha pro- ceduto a forza di decreti formali imposti d’autorità e senza considerare usi e consuetudini locali, oltre che i precedenti codici civili e penali o i regolamenti amministrativi (ignorando qualsiasi appello a un Diritto o a una Giustizia superiore a quella catturata nei codici piemontesi); 3) l’adozione acritica e inopportuna della forma Stato centralizzata e ge-

rarchizzata, quella forma di Stato che gli Austriaci hanno portato a maturità e Napoleone ha esportato in mezza Europa finendo per con- vincere anche i suoi nemici che era la forma migliore di organizzazio- ne politica e amministrativa per una strategia di azione decisionista: Trentin mostra che la genesi del fascismo italiano è da attribuire alla

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scelta di costruire uno Stato accentratore e centralizzato, non ascol- tando quanti, in Europa, a cominciare da Pierre-Joseph Proudhon, hanno avvisato che, a differenza della Francia, l’Italia è una nazione che, per la sua storia e il carattere degli Italiani, è ‘naturalmente fe- deralista’. Questo implica che il modello napoleonico di Stato, che la Destra Storica italiana ha utilizzato per la costruzione del nuovo Stato nazionale, non sia stato il più adatto alla penisola italiana, che avrebbe avuto bisogno di organizzare la propria unità politica con una forma di governo federalista.

Nell’argomentare questa teoria, Trentin attinge alle riflessioni di ‘strani’ alleati intellettuali: alcuni studiosi dell’ala movimentista degli ex combattenti. Per esempio, tra le simpatie intellettuali, emerge quel- la segnalata, in una lettera del 13 gennaio 1977, da Frank Rosengarten a Raffaello Zannoner, al tempo Presidente del Centro Studi e Ricerca Silvio Trentin di Jesolo. Nella lettera, Rosengarten sottolinea il rispetto intellettuale di Trentin per Giorgio Del Vecchio, il fondatore della rivista (unico professore universitario con tessera prima della Marcia su Roma), e per la rivista stessa, che ha proposto, nel 1925, secondo centenario del- la pubblicazione della prima edizione de La Scienza Nuova, una rilettura di Vico alternativa a quella prevalente al tempo. Una lettura alternativa a cui Trentin attinge nello scrivere La crise.

3. L’errore del Risorgimento da evitare nel ‘secondo risorgimento’

Per comprendere correttamente Trentin, i suoi scritti vanno valuta- ti in riferimento alle concezioni che sono prevalse nell’antifascismo dei primi anni e tra i principali esponenti di Giustizia e Libertà. In questi am- bienti, in particolare per le analisi fatte da Antonio Gramsci, Piero Go- betti, Guido Dorso, i fratelli Carlo e Nello Rosselli, si è immaginato un antifascismo che operasse come un ‘secondo risorgimento’, affrontando e correggendo l’errore principale fatto nel primo: essere stato intimamente antigiacobino e a forte e rigida dirigenza moderata.

Questo errore sarebbe consistito nel non aver adottato, per la situazione italiana, la politica di costruzione della nazione adottata dalla rivoluzione francese. Il successo di quella rivoluzione è stato determinato dall’alleanza tra rivoluzione e classe contadina, alleanza che si è intrecciata attraverso la distribuzione di terre ai contadini senza terra, creando una struttura di piccoli coltivatori prima fedeli al regime, poi nostalgici dei giacobini e dei napoleonici che questa riforma sociale hanno realizzato e difeso.

Nella rivoluzione italiana del 1859-1861, i Garibaldini hanno intra- preso questa strada giacobina, promettendo le terre demaniali ai conta- dini senza terra che hanno ingrossato le fila dei Mille. Purtroppo, questa

politica è apparsa subito strumentale ai bisogni immediati degli scontri armati perché, appena allontanatisi i soldati borbonici dalle aree dove le promesse erano fatte o venivano reiterate, queste buone intenzioni veni- vano subito accantonate: a Bronte una rivolta contadina per le terre viene soppressa nel sangue da Nino Bixio per gli impegni politici assunti con Vittorio Emanuele II; a Cosenza, quattro giorni dopo il proclama dal palazzo del latifondista Donato Morelli (nominato prodittatore dall’e- roe dei due mondi prima di partire per il Volturno), questi abroga i de- creti garibaldini e rinnega i principi del famoso decreto Salemi emanato in Sicilia; tutte le promesse vengono infine disattese da Cavour, perché, come rivela Ferrari in Parlamento, «mai e poi mai il signor conte di Ca-

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