botanico e non il grammatico, a sta-bilire se un campione di materia è o non è un limone, a stabilire, cioè, il riferimento del termine "limone". Ma il riferimento è una parte impor-tante del significato. Dunque una parte importante del significato è stabilita a posteriori e questo non è affatto in sintonia con la tesi che "il limone è l'agrume dalla scorza..." sia un enunciato analitico. Questa im-magine cancella l'idea che delle spe-cie naturali possa essere data una definizione analitica, sostituendola con quella di un fitto gioco di relazio-ni tra i nostri usi linguistici, la divi-sione del lavoro all'interno della no-stra cultura, lo sviluppo delle nostre scienze e le nostre consuetudini di parlanti.
Le tesi di Putnam, che con quelle di Saul Kripke produssero una svolta negli studi semantici, hanno fornito materiale importante per la rappre-sentazione del significato in certi set-tori dell'intelligenza artificiale, come la teoria dei frames di Marvin Min-sky. Vorrei, però, spostare l'atten-zione su aspetti meno specialistici dell'opera di Putnam, perché Mente,
linguaggio e realtà è il documento di
una più generale presa di posizione filosofica antiverificazionista nei confronti della metafisica empirista in generale, non solo nella filosofia del linguaggio, e come tale è in grado di interessare un pubblico più nume-roso dei soli semantici o addirittura dei soli filosofi.
Può darsi che in Italia questo libro abbia meno successo di quanto meri-ta e per gli stessi motivi lamenmeri-tati da Marco Santambrogio a proposito delle Spiegazioni filosofiche di Robert Nozick ("L'Indice" n. 3, marzo '88). Tuttavia sia quello di Nozick, sia questo di Putnam sono libri che, anche dal punto di vista stilistico, ci permettono di essere un poco più fiduciosi rispetto al loro destino presso il nostro pubblico. Sono alme-no tre gli aspetti che secondo me possono rendere piacevole, stimolan-te e utile la lettura di Menstimolan-te,
linguag-gio e realtà. Innanzitutto la scrittura
di Putnam è ricca e movimentata, consapevole nel mescolare all'argo-mentazione rapidi incisi, slogan e di-gressioni decongestionanti. In secon-do luogo, tale piacevolezza retorica consente al filosofo di situare le pro-prie discussioni, sempre, in stretta relazione con temi più complessi e generali, e di farlo soprattutto con estrema naturalezza. C'è un pregiu-dizio sulla capziosità quasi morbosa delle argomentazioni analitiche della filosofia anglosassone: questa tradu-zione non può che contribuire, quan-tomeno, a ridimensionarlo.
Il tratto più importante riguarda però i numerosi "esperimenti menta-li" che Putnam costruisce nei punti cruciali delle argomentazioni. La ri-cerca filosofica, come sappiamo, ha poche possibilità di appoggiarsi a esperimenti, ma un esperimento mentale è anch'esso un esperimento, anche se di tipo particolare. Consiste nella costruzione di una situazione fittizia, ad esempio una porzione di un mondo inventato di cui si postula-no le caratteristiche, al cui interpostula-no vengono sottoposte a dure prove di coerenza intuizioni, tesi e verità che riteniamo ovvie, condivise e salde. Spesso l'espérimento ci mostra come contingente ciò che ritenevamo ne-cessario, come frutto dell'abitudine ciò che ci sembrava indubitabile. Così le pagine di Putnam accolgono frammenti di altri mondi, di pianeti in tutto simili al nostro dove però un liquido in tutto simile alla nostra ac-qua ha una struttura molecolare di-versa, oppure di gatti — i nostri gatti — che scopriamo essere robot pro-dotti da una tecnologia aliena, o, ancora, di strane sindromi che afflig-gono gli scapoli e solo loro.
La situazione fittizia in cui
vengo-no condotti gli esperimenti del filo-sofo non produce, come sembrereb-be, uno straniamento meramente psicologico, poiché in essa si allesti-scono rigorosi test di coerenza, e la coerenza è un concetto della logica. Perché è utile assistere, come lettori, a questo tipo di esperimenti? Perché sono uno strumento di lavoro del filosofo, fanno parte del suo mestie-re, e c'è sempre molto da apprendere su un prodotto osservando come lo si produce. Gli esperimenti possono fallire, o essere approntati male: quelli di Putnam sono ideati quasi sempre assai bene, e di ottimi se ne trovano nella filosofia contempora-nea, ad esempio il mondo antipodia-no immaginato da Rorty in La
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ad un'analisi di sé e degli altri che lo porta a dichiarare di avere abbandonato la propria pro-fessione, quale egli l'aveva praticata sino a quel
momento. L'esperienza dell'autoanalisi e l'espe-rienza filosofica variamente intrecciate danno forma alla descrizione di momenti diversi della
vita di Gargani e della vita al
Wissenschaftskol-leg di Berlino, con schizzi spesso ironici, ma a
volte sinceramente sofferti su personaggi, città e situazioni e in uno stile a tratti sobrio, a tratti un po ' appesantito dall'uso ossessivo della
ripetizio-ne di tipo bemhardiano.
Andando al Wissenschaftskolleg di Berlino Gargani avrebbe dovuto portare a compimento i suoi studi sulla simmetria, ed invece su di lui hanno preso il sopravvento l'ascolto della memo-ria ed il ricordo del padre, un padre che a lungo, fintantoché è vissuto, ha mpdiato con il suo sguardo la visione del mondo per il proprio figlio e che si è vergognato ed ha sofferto per non essere riuscito a presentargli un mondo diverso (un mondo migliorej. Secondo Gargani scrivere sul proprio padre significa in realtà scrivere al pro-prio padre, perché significa raccontare dell'uscita da quella mediazione e quindi del realizzarsi della separazione tra il mondo visto attraverso lo sguardo del padre e il mondo visto attraverso lo sguardo disincantato di chi sa vedere anche quel-lo del proprio padre. A questa tematica l'autore affianca nel libro una sorta di trama filosofica incentrata sulla discussione intomo ai rischi im-plicati in ogni operazione di costruzione teorica, specialmente quando questa avviene in filosofia.
Il pericolo, osserva Gargani, consiste nel di-menticarsi di pensare la "frase ulteriore", e cioè quella frase che viene pensata anche là dove, stando alla teoria, non ci sarebbe più nulla da pensare perché tutto è stato ormai già pensato. La "frase ulteriore" è una frase che sfugge al controllo del pensiero e che pertanto rappresenta la via d'accesso per la nostra libertà, per la nostra liberazione dalla dipendenza dalla teoria. Essa
fia e lo specchio della natura.
Alla radice di questo stile filosofi-co sta l'opera di Ludwig Wittgen-stein, la cui presenza in pressoché tutti gli sviluppi più significativi del-la filosofia contemporanea è tanto più visibile quanto più si guarda an-che agli strumenti an-che egli seppe for-nire al lavoro dei filosofi. Infatti, non solo la tecnologia progredisce in funzione dei propri utensili.
H p .
Alien Ruppersberg, 1988
trova espressione in un linguaggio che non consi-ste di un siconsi-stema razionale di principi e di infe-renze controllate, ma che piuttosto è il luogo del tempo e degli eventi, in cui la vita trascorre costruendosi e dissolvendosi insieme ad essi. Gargani insiste sulla distanza per lo più esistente tra il linguaggio della teoria e quello della vita, e la trasforma in una sorta di angolatura prospetti-ca da cui fornire immagini che danno uno spac-cato della vita professionale di uno studioso. Attività quali lo scrivere, il leggere, il pensare, l'ascoltare musica o il parlare ad una conferenza sono rappresentate tracciando a volte lo schizzo biografico di un qualche personaggio conosciuto al Wissenschaftskolleg di Berlino, a volte pro-cedendo ad un'analisi quasi fenomenologica di tali situazioni. Ecco emergere allora il ritratto dello psicoanalista di Tubingen, che, innamora-tosi di una collega, elabora una teoria e scrive un libro per non dover rinunciare alla propria vita familiare accanto alla moglie e al figlio, ma con angoscia non trova risposta alla domanda sulla propria vigliaccheria nei confronti della propria esistenza-, oppure il ritratto di Michael Oppitz, che, dopo avere studiato per nove anni consecu-tivi gli sciamani, vivendo insieme ad essi sulle montagne del Nepal, cessa di interessarsi dell'ar-gomento perché trova insormontabile la distanza tra l'esperienza da lui vissuta in Nepal e il mortificante uso teorico che dovrebbe fame in quanto studioso ed esperto nel campo, al
Wis-senschaftskolleg di Berlino. Ed è comunque su
questo punto che sia Oppitz sia Gargani si trova-no d'accordo, che "utrova-no trova-non può studiare Wit-tgenstein, uno non può studiare gli sciamani e poi diventare un impiegato dello Stato perché è la cosa più ripugnante che vi sia...". Il libro è cosparso di frasi di questo genere, che suonano come espressioni di coraggio, ma non impedisco-no di domandarsi — da un punto di vista ancora filosofico — in che genere di pensiero esse siano
destinate, o possano tradursi.
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III ANNO. ALCUNI CORSI:
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