• Non ci sono risultati.

Giusta causa e giustificato motivo

LE SANZIONI CONSERVATIVE

3.3. Giusta causa e giustificato motivo

Verso la metà degli anni ’60 cominciò ad essere percepito come intollerabile il mantenimento di un sistema che faceva perno su di una assoluta libertà di licenziamento e la questione venne posta alla Corte costituzionale, che rispose con la sentenza n. 45 del 26 maggio 1965, che si limitò a rivolgere un invito al legislatore affinché provvedesse a regolare la materia. Venne quindi promulgata la legge 15 luglio 1966, n. 604, con cui tramonta definitivamente il principio della libertà incondizionata di licenziamento e successivamente con lo Statuto dei lavoratori la riforma venne completata con la garanzia della tutela reale del posto di lavoro235.

99 Nel quadro emergente dal testo originario dell’art. 18 il licenziamento era considerato ingiustificato quando privo delle clausole autorizzative del recesso del rapporto di lavoro, cioè la giusta causa e il giustificato motivo. Il licenziamento per giusta causa trova il suo fondamento legislativo nell’art. 2119 c.c., il quale consente al datore di lavoro di recedere dal rapporto di lavoro, senza preavviso, quando si verifichi una causa che non ne consenta la prosecuzione, neanche a titolo provvisorio. Il licenziamento per giusta causa costituisce la più grave delle sanzioni applicabili al lavoratore e può considerarsi legittimo solo quando la mancanza di cui il dipendente si è reso responsabile rivesta una gravità tale che qualsiasi altra sanzione risulti insufficiente a tutelare l’interesse del datore di lavoro236

. Per quanto riguarda la fattispecie, «la giusta causa deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nei quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità tra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro sia tale, in concreto da giustificare la massima sanzione disciplinare; a tal fine, quale comportamento che per la sua gravità è suscettibile di scuotere la fiducia del datore di lavoro, può assumere rilevanza disciplinare anche una condotta che, seppur compiuta al di fuori della prestazione lavorativa, sia idonea, per le modalità concrete con cui essa si manifesta, ad arrecare un pregiudizio, non necessariamente di ordine economico, agli scopi aziendali»237. È pacifico che, riguardando la giusta causa la sfera dei rimedi risolutori legati alle aspettative riposte dal datore di lavoro sul comportamento immediato e futuro del lavoratore ed in sostanza il rispetto dell’organizzazione e della disciplina aziendale, si debba prescindere nel valutarne l’esistenza dalla circostanza che il comportamento del lavoratore abbia provocato un danno al datore di lavoro. Ne deriva che, ove il comportamento del lavoratore abbia anche provocato un danno, questo sarà comunque risarcibile secondo il diritto comune, a prescindere dall’esercizio del potere di licenziamento238

.

Nel tempo, la contrattazione collettiva ha provveduto a tipizzare delle ipotesi di giusta causa di licenziamento, indicando alcune situazioni che, secondo la valutazione delle parti

236 Cfr. Cass. 27 ottobre 1995, n. 11163, in D&L, 1996, p. 493. 237

Cass. 9 aprile 2014, n. 8367, in Lav. nella giur., 2014, p. 709.

238 Ex multis Cass. 11 giugno 1988, n. 4010, in Notiz. giur. lav, 1988, p. 847; Cass. 26 giugno 2000, n. 8702, in Foro it. Rep., 2000, voce Lavoro (rapporto), n. 943.

100 sociali, possono integrarne gli estremi, come ad es. reiterati ritardi nell’accesso al lavoro, assenze ingiustificate, insubordinazione ecc. La giurisprudenza ritiene comunque che queste previsioni non siano vincolanti per il giudice, nel senso che non si può escludere la rilevanza quale giusta causa di comportamenti che non siano previsti né è possibile escludere il potere del giudice di verificare la proporzionalità della sanzione espulsiva rispetto all’illecito commesso.

Una seconda causa autorizzativa del licenziamento era il giustificato motivo soggettivo, introdotto e disciplinato dalla l. n. 604/1966, e individuato nella definizione di «un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali» (art. 3). Anche in tal caso siamo in presenza di una condotta riferita al lavoratore, anche se meno grave della giusta causa, dalla quale si distingue perché il giustificato motivo soggettivo impone l’obbligo di preavviso al lavoratore. Infine, il potere di licenziamento può essere esercitato, oltre che per ragioni collocabili nella sfera dell’inadempimento del lavoratore, anche per ragioni relative all’interesse dell’impresa. A questa ipotesi, il c.d. giustificato motivo oggettivo, si riferisce la seconda parte dell’art. 3 della l. n. 604 del 1966, che ammette il licenziamento «per ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa». La giurisprudenza riconduce al giustificato motivo oggettivo le ipotesi di ristrutturazione aziendale, il ridimensionamento dei programmi di sviluppo, la scelta datoriale di concentrare l’attività aziendale su alcuni prodotti e di porre fine alla produzione di altri o la riduzione della redditività dell’impresa. In ragione della garanzia costituzionale della libertà d’iniziativa economica ex art. 41 Cost., non può ammettersi, secondo la maggior parte della dottrina, che il giudice possa sindacare le scelte tecnico-produttive dell’imprenditore determinanti la necessità del licenziamento; il giudice avrà, invece, un ampio controllo in ordine alla sussistenza o meno del nesso causale tra le scelte imprenditoriali e la decisione in tema di licenziamento.

Il licenziamento illegittimo, ossia privo di giusta causa o di giustificato motivo, prima della riforma Fornero, era disciplinato o dall’art. 18 St. lav. o dalla l. n. 108/1990, in base alle diverse dimensioni occupazionali del datore di lavoro. L’art. 18 si applica: a) ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti nell’unità produttiva (o più di 5, se l’impresa è agricola); b) ai datori di lavoro con più di 15 dipendenti nel territorio comunale (o più di 5, se l’impresa è agricola), a prescindere dal numero dei dipendenti nelle singole unità produttive e anche se le

101 singole unità produttive non raggiungano le dimensioni dei 15 dipendenti; c) ai datori di lavoro con più di 60 dipendenti in ambito nazionale, a prescindere dal numero dei dipendenti nelle singole unità produttive. È solo con l’originario art. 18 del 1970 che il legislatore introduce la tutela reale, ossia, nei casi in cui il giudice riconosceva l’illegittimità del licenziamento, con sentenza avrebbe dovuto ordinare all’imprenditore non solo di reintegrare il lavoratore nel suo posto di lavoro, ma anche di risarcirlo corrispondendogli tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento sino al giorno dell’effettiva reintegrazione al lavoro, compreso il versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali (in ogni caso il risarcimento non poteva essere inferiore a 5 mensilità di retribuzione). Il che consentiva di sostenere che l'ordinamento reagisse al licenziamento illegittimo — nell'area della tutela reale — con un duplice atteggiamento: da una parte considerava il datore di lavoro inadempiente all'obbligazione di lavoro e lo condannava alla ricostruzione degli effetti del rapporto ab

origine (con il pagamento della retribuzione), dall'altra prefigurava una misura minima ed

indefettibile del «risarcimento», che aveva natura di penale; quest'ultima si giustificava non come reazione nei confronti dell'inadempimento, ma come sanzione nei confronti dell'impiego arbitrario di un potere «di fatto», quale è quello di sciogliersi dal vincolo obbligatorio239. La sentenza che accertava l’illegittimità del licenziamento, nella denegata ipotesi in cui il datore di lavoro non ottemperasse all’ordine di reintegra, comunque produceva effetti sul piano retributivo-contributivo del lavoratore, garantendo in ogni caso l’obbligo del datore di lavoro di versare e pagare al lavoratore le retribuzioni successive alla sentenza di reintegra, nonché i relativi contributi, oltre al risarcimento del danno, come visto sopra. L’art. 18 aveva unificato nel trattamento suesposto anche il licenziamento inefficace per vizi di forma ex art. 2 della l. n. 604/1966 ed anche il licenziamento nullo perché di rappresaglia – quello cioè intimato per ragioni ideologiche, religiose, politiche o sindacali – ex art. 4 della medesima legge.

La legge n. 108/1990, invece, si applica alle ipotesi di licenziamento illegittimo nel caso in cui le aziende non raggiungano quel livello dimensionale che consente l’applicazione dell’art. 18. In questi casi, il datore di lavoro che avesse illegittimamente licenziato il dipendente, ove tale illegittimità fosse stata accertata dal giudice, avrebbe risposto in base ad

239 O. MAZZOTTA, I molti nodi irrisolti dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori, in WP C.S.D.L.E. “Massimo D'Antona, n. 159/2012, p. 9.

102 una tutela obbligatoria, scegliendo cioè tra la riassunzione del lavoratore o la corresponsione di un risarcimento del danno, ma in nessun caso era obbligato alla reintegrazione.