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5. Un po’ di bagnetto e la ricerca continua

5.2 Gli artefatti si animano, le tecnologie diventano protes

La storia della ricerca in mare, come abbiamo visto, può essere raccontata nei modi più diversi: partendo dalle tecnologie usate, dall‟uso del linguaggio, dalla posizione dei corpi degli attori coinvolti, i loro sguardi, i messaggi che lasciano sulla nave per la campagna successiva e così via. Ora in vece vorrei soffermarmi su un aspetto non ancora affrontato nelle pagine precedenti: il ruolo degli oggetti usati ogni giorno dagli addetti ai lavori, ovvero degli „artefatti‟ che incorniciano e danno significato alle relazioni sociali nel loro divenire. Secondo Cristina Grasseni (2008), gli artefatti si potrebbero definire come delle “rappresentazioni standard”, ossia dei veri e propri oggetti manipolabili dagli attori o addirittura dei veri e propri ambienti. Mi riferisco in particolare ad oggetti come fotografie, girati video, libri, vetrini di laboratorio, fogli con appunti e con dati, schermi di computer, e perché no pentole, piatti da portata e molto altro ancora, che in un certo senso danno forma e vita alle attività condotte quotidianamente dai membri delle comunità di pratiche in esame. Ed è proprio attraverso l‟osservazione di questi oggetti che diventa più facile non solo

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comprendere i codici condivisi che regolano i rapporti tra i ricercatori e tra questi e gli altri membri dell‟equipaggio ma anche le dinamiche che si creano tra gli stessi ricercatori e le tecnologie complesse e non con cui devono convivere durante tutto il periodo della campagna.

Il mio compito è stato quello di ispezionare, attraverso un‟osservazione mirata e attenta, tutti quei materiali utilizzati normalmente dai ricercatori nelle loro pratiche lavorative cercando di usare il più possibile lo stesso sguardo che gli attori usano quando osservano i loro oggetti. Questo mi ha permesso in parte di avere una visione globale della ricerca oceanografica tout court e dall‟altro di condividere il più possibile lo sguardo e il punto di vista dei ricercatori e quindi conoscere dall‟interno le loro pratiche lavorative, svelandole. A parlare di tale abilità di osservazione è soprattutto Charles Goodwin (1994) che rileva quanto sia importante il ruolo degli “schemi di codificazione” delle singole pratiche lavorative in uso per dare significatività al lavoro stesso. E con lui anche Vygotsky (1934) che, seguendo il filone della scuola storico culturale sovietica, afferma che gli artefatti possiedono una funzione imprescindibile: mediare l‟attività cognitiva umana in tutte le sue manifestazioni.

Gli artefatti quindi rappresentano il vero sedimento delle pratiche lavorative, la vera storia di quella comunità, consentendo così di trasferire le informazioni incardinate negli oggetti all‟osservatore esterno.

Nel mio studio, quindi, non potevo certo omettere l‟analisi degli artefatti propri del gruppo dei ricercatori. Ho immortalato così per l‟occasione gli oggetti secondo me più significativi, che meglio rappresentano l‟attività di ricerca nelle profondità del mare. Attraverso le foto 3 e 4 ad esempio intendo mostrare come sia molto immediato per i ricercatori oceanografi passare da un lavoro più pratico di laboratorio, caratterizzato in questo caso da uno dei tanti sistemi di filtraggio del liquido prelevato durante le varie calate della rosette, a quello invece più teorico- informatico e prettamente tecnico-scientifico dell‟analisi e registrazione dei dati rilevati dal CTD nelle varie stazioni Vector. Tranne Mireno, che svolge maggiormente attività di controllo, analisi, interpretazione e registrazione dei dati dalla sua postazione all‟interno del laboratorio asciutto, gli altri ricercatori svolgono contemporaneamente entrambe le attività e con estrema elasticità e velocità.

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foto 3 foto 4

Riguardo alle immagini successive, foto 5 e 6, anche qui ho voluto mettere a confronto due tecniche necessarie per la ricerca in mare, ma di complessità tecnica decisamente differente: nel primo caso il sistema di bottiglie Niskin presenti all‟interno della rosette per rilevare i parametri chimico-fisico-biologici della quota d‟acqua; nel secondo un semplice retino corredato da un contenitore per raccogliere campioni di plancton a diverse profondità. Questo per evidenziare come i ricercatori siano in grado di utilizzare strumenti dai più semplici, come quelli per le retinate verticali, a quelli più complessi sia dal punto di vista tecnico sia di gestione per il lavoro della ricerca.

foto 5 foto 6

Le due foto qui di seguito sono state scelte e messe a confronto per spiegare le commistioni tra lavoro e non lavoro. Sulla borsa di un computer portatile e accanto a cavi di ogni genere, appare un libro, appoggiato lì solo per qualche ora; il tempo di eseguire le operazioni di ricerca previste per la stazione del momento e via nell‟intervallo si ricomincia a leggere (foto 7). Appoggiati invece sulla parete di

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fronte, due giubbotti salvagente: sembrano ricordare che possono essere utili da un momento all‟altro, perché l‟emergenza è sempre in agguato in mare. Da come sono sistemati poi sull‟attaccapanni danno l‟idea di essere stati appena usati (foto 8).

foto 7 foto 8

Come si evince dalle foto sottostanti i caschi vengono lasciati ovunque, questo a testimoniare ancora una volta i passaggi repentini dei ricercatori, dal ponte dove si stanno svolgendo le operazioni di ricerca al laboratorio asciutto dove vengono registrati i dati (foto 9). Nella successiva (foto 10) invece qualcuno vuole ricordare che quel casco appoggiato sul panchetto è di „sua‟ proprietà.

foto 9 foto 10

E infine le ultime due immagini, le più rappresentative dell‟affascinante ma anche faticoso lavoro che i ricercatori svolgono sulla nave: nella prima possiamo notare le diverse paia di calosce pronte per essere usate durante la prossima stazione (foto 11). Anche se la scelta è varia: dalle più vecchie alle più nuove e dalle più pulite a quelle più sporche, comunque le calosce in barca sono importantissime sia perché riparano

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dalla pioggia e dall‟acqua del mare, sia perché non fanno scivolare. Nell‟ultima possiamo notare due giubbotti appoggiata sull‟attaccapanni: questo per indicare che fa molto freddo e a volte piove e quindi per poter lavorare all‟esterno i ricercatori devono usare un abbigliamento adeguato (foto 12).

foto 11 foto 12

Guardando queste foto mi viene in mente il passo di un libro scritto a quattro mani dal titolo „ Perché la tecnologia ci rende umani‟ in cui Stefano Moriggi e Gianluca Nicoletti cercano di spiegare cosa siano le protesi.

Sono una sorta di pratiche, di azioni più o meno articolate o prolungate da strumenti, dove “per protesi si intende un potenziamento di un corredo naturale sempre più

bisognoso di integrazioni” (2009 pag. 112). Una tecnologia, quindi, non solo in

grado di dilatare le facoltà dell‟individuo, in termini di prolungamento protesico e di potenziamento, ma anche di rimodellare a diversi livelli, sia pratico sia cognitivo sia emotivo, “le condizioni di abitalità e di pensabilità del mondo” (ivi pag. 114). È un po‟ quello che succede con le tecnologie per la ricerca oceanografica, non solo sono un ausilio necessario per portare a termine una serie di indagini nelle profondità del mare, ma danno anche la possibilità di rielaborare e ripensare i dati registrati per una nuova ricerca oceanografica. Inoltre, usare strumenti tecnologici non porta all‟isolamento dei ricercatori, ma piuttosto permette la creazione di specifiche pratiche di interazione sociale tra loro, mediate proprio dagli stessi strumenti. Quindi l‟interazione uomo-macchina, in questo caso specifico, incentiva non poco la creazione di tale spazio di interazione mediante proprio gli strumenti in uso.

E questo forse è il motivo per cui la ricerca è in continua evoluzione e non finisce mai…

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