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gliel’avevano già detto?

5.2 “Mi dispiace, non possiamo rinnovarti il contratto”

D.: gliel’avevano già detto?

R: Ma sì. Facciamo questi tre mesi, poi un’altra fino a dicembre, e poi lo lasciamo a casa. L’aria che girava, quando io lavoravo all’interno, era quella. ‘Tu ti stai illudendo che ti tengono a lavorare qua? Sai quanti ne sono passati?’, queste erano le voci che giravano. Io l’ho messo al corrente G. [il tutor di riferimento, nda], ma se n’è sbattuto, se n’è proprio

[gesto sotto il mento con la mano, nda]. La gente qua vogliono che parte la borsa lavoro e poi non gliene frega più niente.” (Int. N. 19)

Ciò che appare materializzarsi è l’ennesimo parallelismo con la pena. Così come i detenuti finiscono con il conoscere perfettamente quali sono le carceri “migliori” dove  trascorrere la condanna e quali, al contrario, sono “da evitare”, all’interno di questo sottobosco lavorativo emerge una conoscenza condivisa, soprattutto dai più esperti, sui luoghi che “non assumono”, che “prendono i soldi della borsa lavoro”, salvo poi aspettare sempre nuovi finanziamenti esterni per accogliere lavoratori temporanei.

“Loro prendono solo borsa lavoro, fissi non li pigliano. Io lo so dall’inizio, li ho seguiti da coso, come si chiama M. Già dall’inizio, quando ho avuto il colloquio, già sapevo che dopo la borsa mi lasciavano a casa. […] Ma pure con la B. B. ho fatto la stessa cosa. Lì c’era tutto un gioco già a partire dalla sociale del Sert, che dicevano ‘mi raccomando, che se vedono che lei lavora bene la assumono’. Scusa la frase, tutte prese per il culo. Perché appena finita la borsa lavoro anche là mi hanno mandato a casa. Perché sono cooperative che vivono, cioè girano, intorno solo a ste borse lavoro.” (Int. N. 21)

Di fronte a tali processi perversi, solo alcuni mostrano indignazione per lo sper- pero di risorse pubbliche che è a monte di tali pratiche.

“Ma anche ste leggi, son tutte sbagliate. Questo signore che ha assunto me, si è fottuto 20.000 euro della Regione, in pratica io ho lavorato per lui gratis, perché se andiamo a fare i conti, io prendevo 800-900 euro al mese, no? In un anno questo si è intascato i soldi, ci ha guadagnato su di me, mi ha usato un anno, e poi alla fine scopro che vado via io e lo Stato gli permette di fare lo stesso, no? Ma no, dico, ma è possibile che non c’è nessuno che controlla?” (Int. N. 5)

“Si, ma l’aiutare è solo una facciata. Dovremmo fare le cose per bene, investiamo dei sol- di… facciamo investire bene. Ci devono essere delle cause legate al datore di lavoro, perché così sono soldi persi. È come dire regaliamo seimila euro all’anno e boh. Invece io mi sono impegnato, ho fatto dal selezionatore alla meccanica, guidando i macchinari. Insomma. Mi sono impegnato, per che cosa? Per essere preso in giro? Mi hanno dato un calcio nel sedere, mi hanno detto ‘vai via’.” (Int. N. 18)

Ciò che emerge è il fatto che questa forma di lavoro di “serie b” è profonda- mente condizionato dai rapporti con enti pubblici e finanziatori esterni. Quindi, una  volta che diminuiscono i finanziamenti pubblici, o che la crisi economica impone  un taglio delle spese rivolte al sociale, anche larga parte delle cooperative che vi- vono grazie ai finanziamenti pubblici, o al pagamento degli stipendi dei dipendenti  tramite l’elargizione delle borse lavoro, entrano anch’esse inevitabilmente in crisi. E, naturalmente, i primi a pagarne le spese sono i lavoratori.

“E niente, il lavoro andava bene e tutto solo che già dopo un mese ‘è un po’ difficile’ anzi, è subentrata la nuova cooperativa l’A. i dipendenti che lavoravano per l’Asl tutti a casa, ne era rimasta una che l’hanno ancora tenuta qualche mese però dimezzandogli gli orari e alla fine è andata così.” (Int. N. 3)

“Comunque io stavo bene, avevo la mia macchina, facevo le mie otto ore, stavo bene. Chiusa la borsa lavoro mi ha assunto lui per sei mesi, e altri sei mesi. Ho fatto un anno di lavoro, più la borsa lavoro, quindi un anno e mezzo con la borsa lavoro. A me il contratto scadeva a fine 2012, con la G., che avevo lì la borsa lavoro. Però mi ha detto, ‘guarda per l’appalto il comu- ne ha pochi soldi, hanno dimezzato i costi e io non ci sto dentro, per pagare te, la macchina, la benzina, io non ci guadagno niente. Non voglio rimetterci, purtroppo devo lasciarti a casa se non esce più niente…’ e purtroppo così è stato, a dicembre, anzi ad aprile mi ha lasciato a casa. E da lì è ricominciata tutta la trafila, di nuovo, vai in agenzia, cerca...” (Int. N. 19) “Ci ho lavorato per quasi un anno, deve aver perso poi degli appalti, a giugno-luglio... a luglio mi ha fatto lavorare 3 giorni, ad agosto mi ha detto di stare a casa, verso fine set- tembre mi ha telefonato dicendomi che non poteva tenermi... non era a scadenza, avevo un contratto a scadenza, scadeva il 31 gennaio, anzi il 31 dicembre il contratto. E quindi era già due mesi che non mi dava lo stipendio, quindi mi dici che il contratto non me lo puoi portare a termine, intanto non mi paghi, quando pioveva avrebbe dovuto pagarmi perché lui ha l’indennizzo pioggia, e non percepivo soldi, quando mi ha detto che sarei dovuto rimanere a casa e non mi faceva finire il contratto, non ci sono stato, sono andato lì dai sindacati e ho preso quello che mi spettava.” (Int. N. 10)

Più in generale, prende forma un quadro paradossale nel quale i (rari) rinnovi sono interpretati, sia dal datore di lavoro, sia dal lavoratore, come dei favori, dei gesti di magnanimità. Il rapporto sinallagmatico su cui dovrebbe fondarsi lo scam- bio lavoro/retribuzione scompare quindi pressoché del tutto a favore di una realtà  costruita fra le parti nella quale al lavoratore è comunicata la sua inutilità e dove  l’eventuale, breve, proroga del contratto è considerata una gentile concessione.

“Poi dopo la proroga della borsa lavoro, m’ha tenuto un mese ma già si sentiva profumo di crisi, magari non lo sentivo io ma le persone competenti già la respiravano quell’aria, e allora non ho avuto la fortuna di un rinnovo o di un’integrazione.” (Int. N. 9)

“Il progetto non è male, è buono. Però dovrebbe essere che alla fine uno prende un lavoro sicuro, perché se la sono giocati un pochettino.